Suprema Corte

26 settembre 2001    Suprema Corte

Sentenza Pisano Cass. sez. Un.

SENTENZA N.
REGISTRO GENERALE N.
UDIENZA PUBBLICA DEL 26 SETTEMBRE 2001

 

 

R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI

Composta dai Signori:
1. Dott. Aldo Vessia Presidente
Dott. Bruno Frangini Componente
Dott. Mauro Domenico Losapio Componente
Dott. Torquato Gemelli Componente
Dott. Carlo Cognetti Componente
Dott. Aldo Grassi Componente
Dott. Giovanni de Roberto Componente Relatore
Dott. Giovanni Silvestri Componente
Dott. Antonio Stefano Agrò Componente
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sul ricorso proposto dal Procuratore Generale presso la Corte di appello di Perugia, nonchè dalle parti civili Melucci Maria, Bruno Gabriella, Bruno Giuseppe, quest'ultimo in proprio e quale tutore della minore Pisano Arianna,
avverso la sentenza pronunciata il 19 febbraio 2001 dalla Corte di appello di Perugia nei confronti di Pisano Massimo.
Visti gli atti, la sentenza denunciata ed i ricorsi.
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere de Roberto.
Udite le conclusioni del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. Antonio Siniscalchi, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per inammissibilità della richiesta di revisione.
Uditi per le parti civili Melucci Maria, Bruno Gabriella, Bruno Giuseppe, l'avvocato Antonio Cristiani e per Bruno Giuseppe, quale tutore della minore Pisano Arianna, l'avvocato Carlo Taormina.
Udito, per il Pisano, l'avvocato Stefano Giorgio.

 

 

INDICE
1. Svolgimento del processo di cognizione
2. La richiesta di revisione
3. Il giudizio di ammissibilità della Corte di appello e le eccezioni delle parti civili
4. Le prove ammesse
5. La sentenza della Corte di appello
6. I ricorsi
6.1. Il ricorso del Procuratore Generale
6.2. Il ricorso dell'avv. Cristiani per le parti civili Melucci Maria, Bruno Gabriella, Bruno Giuseppe
6.3. Il ricorso dell'avv. Taormina per la parte civile Bruno Giuseppe quale tutore della minore Pisano Arianna
7. La rimmessione del ricorso alle Sezioni unite a seguito della richiesta dell'avv. Giorgio, difensore di Pisano Massimo
8. Le ragioni della rimessione e le problematiche preliminari alla soluzione del contrasto giurisprudenziale concernente la nozione di "prova nuova" ai fini del giudizio di revisione
9.1. La problematica concernente la pronuncia di ammissibilità della richiesta. La scomparsa della frammentazione tra fase rescindente e fase rescissioria e le conseguenze in ordine alla necessità di un'espressa pronuncia di ammissibilità della richiesta.
9.2. Il giudizio di "ammissibilità" della revisione nel più generale quadro del giudizio di "ammissibilità" delle impugnazioni
9.3. La possibilità di dichiarare l'inammissibilità della richiesta anche all'esito del giudizio di revisione. L'art. 591, comma 4, c.p.p. come norma generale in tema di inammissibilità dell'impugnazione
9.4. Il ruolo dell'art. 634 c.p.p.
9.5. Rapporti tra cause di inammissibilità delle impugnazioni e cause di inammissibilità della revisione
9.6. Conclusioni
10. La richiesta di revisione proposta ex art. 630, lettera c, c.p.p., che contenga l'indicazione di prove in parte nuove ed in parte non nuove o comunque irrilevanti
11. Prova ed elemento di prova.
11.2. Prime conclusioni riferibili all'art. 630, lettera c, c.p.p.
11.3. L'incidenza sul tema delle formule di prosciogliomento indicate dall'art. 630 c.p.p.
11.4. L'apparente contrasto giurisprudenziale sul punto. Coincidenza delle due nozioni ai fini dell'amissibilità della richiesta di revisione
12. La valenza costituzionale dell'istituto della revisione
12.1. Il significato della introduzione di ulteriori strumenti revocatori del giudicato
12.2. L'assetto del regime della c.d. pregiudizialità penale e i suoi riflessi anche sul caso di revisione di cui all'art. 630, lettera c, c.p.p.
12.3. Cenni sulla previsione dell'art. 630, lettera d, c.p.p. nei suoi rapporti con la lettera c dello stesso articolo
13.1. Significato della novità della prova ai fini del giudizio di revisione. Rilievi critici sulla sentenza Macinanti delle Sezioni unite
13.2. La sentenza Carlotto
13.3. La sentenza delle Sezioni unite Ligresti e la mancata formazione di un diritto vivente.
13.4. Rilievi critici sulla nozione "restrittiva" di nuova prova ai fini del giudizio di revisione
13.5. La posizione "permissiva". Primi cenni sul rilievo del "travisamento del fatto" nel giudizio in cassazione a seguito del procedimento di revisione.
13.6. Il regime della prova nuova con riferimento alla perizia o alla consulenza tecnica
14. Conclusioni sul concetto di prova nuova ai fini del procedimento di revisione e conseguente principio di diritto
15.1. La nozione di manifesta infondatezza della richiesta di revisione nella giurisprudenza
15.2. Conclusioni sul tema e rigetto della relativa eccezione
16. Le prova nuova ai fini del tema di prova dell'alibi
17.1. Le prove volte a dimostrare le responsabiilità di concorso nel reato di terzi
17.2. Interferenze tra i casi di revisione previsti dalle lettere c e d dell'art. 630.
18. Non novità della prova costituita dalla consulenza Furnari. Sua irrilevanza ai fini del giudizio di ammissibilità
19. Giudizio prognostico tra prove nuove e prove già valutate
20. La censura sull'ammissibilità della revisione nonostante la richiesta fosse diretta a comprovare l'insussitenza dell'aggravante della premeditazione
21. Le censure sulla decisione di merito
21.1. Il travisamento del fatto nella interpretazione giurisprudenziale nel sistema del codice abrogato
21.2. La mancanza e la manifesta illogicità della motivazione nel sistema vigente
21.3. Il travisamento del fatto nel sistema vigente
22. Il controllo sulla sentenza pronunciata all'esito del giudizio di revisione. La regola di cui all'art. 630, lettera c.
23. Segue: la regola di giudizio di cui all'art. 637, comma 3
24. Conclusioni sulle singole censure.

 

 

Rilevato in fatto e in diritto
1. La sera del 6 agosto 1993, a seguito di segnalazione loro pervenuta, i carabinieri di Monterotondo rinvenivano sul greto del Tevere, in località Ponte del Grillo, il cadavere di una donna avvolto in un sacco postale; il corpo veniva identificato in quello di Cinzia Bruno la cui scomparsa era stata denunciata al commissariato di Monteverde, alle 0,30 della notte tra il 4 ed il 5 agosto dal marito Massimo Pisano.
Costui aveva riferito che la Bruno si era allontanata dalla comune abitazione verso le 8,30 del 4 agosto per recarsi al proprio posto di lavoro presso il Ministero dell'interno, che durante la mattina l'aveva vanamente ricercata al Ministero e che, dopo varie insistenze, aveva appreso dalle colleghe di Cinzia che costei aveva preavvertito che avrebbe fruito di un giorno di congedo.
Dopo l'identificazione del cadavere, il Pisano dichiarava che nel pomeriggio del giorno 6 era pervenuta, in Nettuno, al proprio fratello Mario, la telefonata di una sconosciuta la quale aveva rivelato che la Bruno si era allontanata con un uomo con cui intratteneva da tempo una relazione, che era qualche mese prima ricorsa ad un aborto e che tutto ciò era a conoscenza delle colleghe di lavoro che le "reggevano il gioco". Sul punto venivano esaminate le amiche della Bruno le quali, escluso categoricamente che Cinzia potesse avere un rapporto extraconiugale, avevano, al contrario, riferito che era la donna a nutrire fortissimi dubbi sulla fedeltà del marito, per i suoi frequenti allontanamenti da casa e per la recente individuazione sul suo telefono cellulare di un'utenza di Riano, località ove il Pisano spesso si recava, utenza su cui operava una donna dalla voce giovanile. Per tale motivo la Bruno era decisa a controllare il marito ed a sorprenderlo con la sua amante. Si era recata anche da una cartomante dalla quale aveva appreso che il Pisano aveva una relazione nel corso della quale l'amante era ricorsa ad un aborto.
L'intestataria dell'utenza rinvenuta sul cellulare veniva individuata in Giuseppina Naso, residente in Riano, via Matteotti, 10; presso tale abitazione gli inquirenti rintracciavano la figlia dell'intestataria, Silvana Agresta, la quale, dopo aver negato di conoscere il Pisano, ammetteva di aver lavorato con lui presso l'ufficio logistico dell'Istituto Superiore di Polizia, in via Piero della Francesca, 3, attuale luogo di lavoro del Pisano.
Si accertava altresì che l'Agresta era l'autrice della telefonata pervenuta a Mario Pisano.
Le indagini si indirizzavano, dunque, nei confronti del Pisano e della Agresta i quali riconoscevano la relazione, così da indurre a ritenere che i due fossero gli autori del delitto e che, dopo la sua esecuzione, l'Agresta si era adoperata per far scomparire il cadavere, operazione alla quale avevano materialmente provveduto Sabatino Gigante e Maurizio Severino.
Un convincimento comprovato anche da una serie di perquisizioni presso la mansarda nella disponibilità della Agresta, di ispezioni personali eseguite sulla donna e sul Pisano, dalle risultanze delle perizie autoptica e tossicologica, nonchè di una perizia tecnica dalla quale era emersa la compatibilità tra alcuni graffi repertati sulla FIAT 126 di colore azzurro della Bruno e le tracce di vernice rinvenute sul gancio della saracinesca posta a chiusura del garage sito al piano seminterrato dell'edificio ove abitava la Agresta.
Rinviati al giudizio della Corte di assise di Roma, per rispondere dei delitti di omicidio aggravato dagli artt. 577, 1° comma, nn. 2, 3, e 4, e 61, n. 4, c.p., nonchè, in concorso con Sabatino Gigante e Maurizio Severini, dei delitti di cui agli artt. 56 e 411, n. 2, c.p., il Pisano e l'Agresta venivano condannati per i reati loro ascritti, esclusa l'aggravante del mezzo venefico, alla pena dell'ergastolo.
La decisione di primo grado enunciava come elementi probatori a carico del Pisano:
l'inquietitudine per i forti sospetti che avevano caratterizzato gli ultimi tempi della vita della Bruno circa l'infedeltà del marito, comprovata dalla sua costante assenza da casa, dalla sua trascuratezza verso la moglie e la figlia (fatti emersi dalle dichiarazioni dei prossimi congiunti e delle colleghe di lavoro - Stella Soricelli, Angela Valletta, Adriana Mourik - con le quali si era spesso confidata) divenuti certezza dopo il rinvenimento dell'utenza su cui operava l'Agresta, tanto da indurla a recarsi da una cartomante;
l'esternazione di tali sospetti anche al marito con conseguenti scenate tra i due;
l'intento, più volte manifestato dalla Bruno alle sue colleghe ed amiche, di voler cogliere la coppia in flagranza e la reattività del Pisano esternata in pesanti minacce rivolte alla moglie;
l'accertamento, sulla base delle dichiarazioni dell'amica Stella Soricelli, che aveva promesso alla Cinzia di accompagnarla a Riano, delle effettive intenzioni della Bruno, confermate dalle dichiarazioni di Tatiana Testa, Vittoria Tribursi e Gilda Catena, che avevano notato, alcuni giorni prima del delitto, nell'abitato di Riano, la FIAT 126 con alla guida la Bruno; a tali persone, abitanti a Riano, Cinzia aveva richiesto indicazioni sulla localizzazione di via Matteotti;
la circostanza che a Riano la relazione fra i due era un fatto notorio, che era stata accertata anche l'esasperata gelosia del Pisano nei confronti dell'Agresta (dichiarazioni di Testi Gabrielli e Cipolla) - senza che potessero rilevare deposizioni di colleghe della Agresta che descrivono momenti di crisi fra i due e l'intento del Pisano di troncare la relazione - che in paese il Pisano veniva presentato dalla donna come il suo fidanzato e che le nozze erano ormai prossime;
il fatto che l'Agresta aveva appositamente riattato la mansarda servendosi dell'aiuto del Pisano;
che proprio nelle ore successive al delitto (precisamente tra le 17 e le 19 del 4 agosto) il Pisano aveva fatto dono all'Agresta di un anello di fidanzamento acquistato insieme in Castelnuovo di Porto e pagato con un assegno;
le risultanze della perizia tossicologica che aveva accertato, nel sangue, nelle urine e nello stomaco della vittima la presenza di prodotti farmacologici con proprietà diverse (parte stimolanti, parte analgesici) in quantità tali da escludere un ingerimento volontario da parte della Bruno; un fatto, comprovato, tra l'altro, dal ritrovamento fra i capelli della vittima di una compressa di "Pleigine", dalla scarsità di liquidi a livello gastrico e dalla presenza, proprio ad un simile livello, di quattro compresse, pressochè integre, di tale farmaco nonchè dall'evidente ingerimento dei medicinali in tempi diversi; donde la conclusione, confermata dalla tipologia delle lesioni rilevate sul corpo della Bruno, che l'ingerimento dei farmaci era stato il prodotto di un'azione violenta posta in essere da due persone, nei confronti delle quali la Bruno, pure per l'effetto psicostimolante del "Pleigine" (rinvenuto in dosi notevoli anche disciolte), aveva opposto una disperata resistenza, tanto da impedire ogni possibilità che potesse essere simulato il suo suicidio a seguito dell'ingestione dei farmaci; la conseguenza era, dunque, nel senso che ad una prima fase volta alla predetta simulazione era succeduta una fase di azione violenta confermata dai risultati della necroscopia;
dalle risultanze, appunto, della perizia necroscopica, che aveva accertato come la Bruno era stata ripetutamente colpita con un corpo contundente al capo, percossa in più parti, riportando anche la frattura dello sterno per effetto di un'attività di compressione, verosimilmente realizzata da una persona che l'aveva sovrastata con il suo peso; che la donna era stata finita con un'arma monotagliente che le aveva reciso la carotide, la vena iugulare destra e la trachea, penetrando fino all'altezza del cavo pleurico; che, infine, altri tre colpi erano stati inferti in profondità all'addome, successivamente al suo decesso;
dalle risultanze degli accertamenti di laboratorio dalle quali era emerso che le tracce di sangue rinvenute nella mansarda nella disponibilità dell'Agresta erano riferibili alla vittima; da tale mansarda il Gigante ed il Severini avevano poi portato via il cadavere della Bruno contenuto in un sacco postale;
dalle dichiarazioni della Agresta che aveva chiamato in causa il Pisano come unico autore della soppressione della moglie, così da introdurre una chiamata di correo altamente attendibile (le contraddizioni non si riverberebbero sulla intrinseca credibilità del suo narrato, in quanto tese esclusivamente a sottrarsi ad ogni responsabilità) ed ampiamente riscontrate;
dalla ragionevole conclusione che la morte della Bruno doveva farsi risalire al periodo di tempo tra le 11,30 e le 12 del 4 agosto, un dato desumibile dalle seguenti circostanze: la vittima era uscita di casa alle 8,30; le perizie avevano datato il decesso "con ogni probabilità" non oltre la tarda mattinata; alcuni vicini di casa dell'Agresta (precisamente, Elisa Marronaro e Giacinto Santella) avevano riferito di aver udito prima di mezzogiorno "grida di donna che, ad intervalli, duravano circa cinque minuti";
dall'utilizzazione per il trasporto della vittima di due sacchi di juta delle Poste italiane che risultavano mancanti al fratello dell'imputata il quale ne aveva la disponibilità in quanto addetto all'ufficio smistamento Poste del Viminale e dalla specifica accusa rivolta al Pisano dalla sua amante di avere in precedenza manifestato il suo intento di sopprimere la moglie e di essere stata ripetutamente sollecitata a "far sparire" il cadavere;
dal ritrovamento dell'auto della Bruno, su specifica indicazione dell'Agresta, nella zona antistante il centro Euclide sulla via Flaminia e dalla circostanza che la FIAT 126 era stata sicuramente ricoverata nel garage-cantina dello stabile di Via Matteotti che comunica con i piani superiori attraverso una scala interna, così come, del resto, emerso dalla perizia tecnica;
dalla circostanza, ricavata da numerosi elementi di prova, oltre che da massime di esperienza, che alla Bruno era stato teso un "tranello" e che si fosse indotta a recarsi in casa dell'Agresta per avere un "chiarimento", ovviamente senza che la donna avesse riferito della presenza del Pisano;
dal rilevamento di vistose ecchimosi sul corpo del Pisano (oltre che della Agresta), maldestramente giustificate dall'imputato richiamando un pugno sferrato sul muro della caserma; un dato ritenuto inidoneo a giustificare la presenza di ecchimosi sulle dita di entrambe le mani e, soprattutto, sulle gambe;
dal fatto, sicuramente accertato, che l'esecuzione del delitto era opera di due persone, una delle quali (acclarata la responsabilità dell'Agresta) non poteva identificarsi se non con il Pisano, considerato che nulla era emerso a carico di parenti o amici della sua amante;
dall'inconsistenza dell'alibi dell'imputato il quale aveva riferito che la mattina del 4 agosto, dopo essere giunto in ufficio alle ore 7, 15 circa, se ne era allontanato, su richiesta del suo superiore, per effettuare il duplicato delle chiavi della palestra dell'Istituto; nell'occasione si sarebbe recato presso gli uffici del catasto per trattare due pratiche (uscito alle ore 10,15 avrebbe fatto ritorno verso le ore 11,15-11,30); secondo i giudici di merito (la motivazione delle cui pronunce è stata ritenuta corretta dalla Corte di cassazione) a tali affermazioni non corrisponderebbero riscontri documentali o personali certi; senza contare che le dichiarazioni del Pisano, confermate, quanto alle ore di uscita e di rientro dall'ufficio, da taluni testimoni, non erano incompatibili con la commissione del delitto, considerati i tempi di percorrenza del tragitto dall'Istituto Superiore di Polizia alla casa della Agresta e che da una numerosa serie di elementi era risultato che il Pisano era libero di entrare e di uscire dal suo ufficio, sfuggendo a qualsivoglia controllo e con la tolleranza di chi era tenuto a sorvegliare;
dalla circostanza, altamente significativa, che il Pisano, che pure faceva uno smodato uso del suo cellulare, soprattutto con la Agresta, la mattina del delitto non si fece sentire dalla donna che alle ore 13,15; a tale telefonata ne erano seguite quello stesso giorno, ben altre dieci fino alle 22,24 (quest'ultima presumibilmente al fine di accertarsi che Severino Gigante e Maurizio Severini si fossero disfatti del cadavere), con il solo, altrettanto significativo, intervallo, tra le ore 17,02 e le ore 19,42, il periodo in cui i due si erano recati a Castelnuovo di Porto per acquistare l'anello di "fidanzamento";
dai successivi contatti telefonici tra il Pisano e l'Agresta e dal fatto che i due erano stati notati nel tratto di strada tra Castelnuovo di Porto e Riano intorno alle le 15,30, le 16 del 5 agosto da Walter Gigante e Mario Cantori ed il giorno 6 nella zona antistante il centro Euclide dove venne poi rinvenuta la FIAT 126 della Bruno.
Impugnata dagli imputati, la decisione veniva confermata dalla Corte di assise di appello di Roma con sentenza 27 novembre 1995.
Con sentenza 18 aprile 1996, la Corte di cassazione rigettava tutti i ricorsi.
2. Con atto depositato nella cancelleria della Corte di appello di Perugia il 30 luglio 1999, l'avvocato Stefano Giorgio, difensore del Pisano, richiedeva la revisione della sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Roma, allegando l'emergenza di nuove prove che, valutate e coordinate con quelle già esistenti in atti, alcune delle quali mai apprezzate nel giudizio di cognizione, erano astrattamente idonee, se accertate, a dimostrare che il Pisano doveva essere assolto per non aver commesso il fatto; prove volte a comprovare la falsità dell'accusa da parte dell'Agresta, la validità dell'alibi, il comportamento tenuto dal condannato nei due giorni successivi al delitto.
Tali prove consistevano:
nelle inequivoche tracce nella valigetta 24 ore del Pisano delle pratiche espletate negli uffici del catasto la mattina del 4 agosto 1993;
nell'acquisizione della ricevuta provvisoria della pratica di frazionamento dell'eredità Monari, presentata il 4 agosto 1993, registrata al numero di protocollo 63469;
nell'esame dei testimoni geom. Maria Emilia Rosso e Cesare Piccioni, entrambi dipendenti del Catasto e nella consulenza grafica circa la firma sulla ricevuta provvisoria del frazionamento della proprietà "Monari", con richiesta di espletamento di perizia;
nella consulenza tossicologica redatta dal prof. Carmelo Furnari su quesiti nuovi rispetto a quelli oggetto della consulenza del Pubblico ministero;
nell'esame testimoniale del perito infortunistico Mattioli quanto ai tempi di espletamento degli incarichi affidati a Riano, con riferimento alla data di acquisto dell'anello;
nell'acquisizione del certificato medico rilasciato il 4 agosto all'Agresta dal dott. Fernando Gori;
nella deposizione del dott. Gori, elemento non valutato nel giudizio di cognizione;
nell'esperimento giudiziale sui tempi di percorrenza del tratto di strada tra l'Istituto superiore di polizia e via Matteotti, 10, a Riano;
nell'esame dei consulenti prof. Francesco Bruno e dott. Natale Fusaro sulla relazione criminologica espletata.
3. Delibata de plano dalla Corte in camera di consiglio l'ammissibilità della richiesta, il Presidente, con decreto emesso il 10 aprile 2000, disponeva la citazione in giudizio del Pisano, fissando per la trattazione l'udienza del 18 ottobre 2000.
Con memoria depositata il 10 ottobre 2000 i difensori delle parti civili eccepivano l'inammissibilità della richiesta di revisione, in quanto diretta a riproporre la deduzione di un alibi già ripetutamente disatteso e contestato dalle sentenze di merito e dal loro controllo in sede di legittimità. Le risultanze processuali avevano escluso che il Pisano avesse presentato personalmente le pratiche catastali; la produzione della valigetta, già dissigillata davanti alla Corte di assise era da ritenere del tutto irrilevante; la perizia tossicologica tendeva a rivalutare - data la sostanziale identità del quesito alla stregua delle dichiarazioni rese in dibattimento dai consulenti tecnici del Pubblico ministero e della parte civile - l'accertamento effettuato in sede di cognizione; tutte le altre prove non si giustificavano altrimenti che con l'esigenza di "rifare il processo" sulla base di elementi già acquisti e valutati nei giudizi di merito. Veniva, ad ogni buon conto, presentata una lista di prove da acquisire nel giudizio di revisione.
4. La Corte di appello di Perugia ammetteva i seguenti mezzi di prova proposti dal Pisano:
l'acquisizione della documentazione prodotta dalla difesa e del corpo di reato costituito dalla valigetta 24 ore del condannato;
le deposizioni testimoniali di Maria Emilia Rosso e di Cesare Piccioni (quest'ultimo già esaminato ex art. 38 norme att. c.p.p.), sulle modalità relative alla presentazione delle pratiche di accatastamento, sul rilascio di ricevute provvisorie in caso di frazionamento catastale, sul presentatore della pratica di frazionamento "Monari" protocollata al n. 63469 nonchè sulla collocazione dei luoghi in cui "si verificavano e si assegnavano" i subalterni catastali rispetto all'ufficio accettazione nel periodo agosto 1993), di Lucia Mangosi (quanto all'eventuale riconoscimento nel Pisano della persona che ebbe a chiederle il 4 agosto 1993, negli Uffici del catasto, della presenza della collega Maria De Giovanni, e sulla risposta che costei era assente perchè sottoposta ad un improvviso intervento chirurgico alla mano), di Antonio Brunettini (su quanto già dichiarato all'avv. D'Ovidio con missiva del 29 settembre 1994, e sull'eventuale presenza del Pisano negli uffici del catasto il 4 agosto 1993), di Francesco Greco (sulla consulenza comparativa tra la grafia del condannato e quella presente sulla modulistica delle pratiche catastali "Trappetti" e "Monari"), del prof. Carmelo Furnari (sulla consulenza tossicologica espletata sulla vittima, con particolare riferimento ai tempi intercorsi tra l'inizio dell'ingestione delle sostanze tossiche e delle compresse di "Pleigine" e la morte di Cinzia Bruno), di Daniele Tomassini (sugli spostamenti di Sabatino Gigante - condannato per i delitto di soppressione di cadavere e di favoreggiamento - nell'abitazione di Francesco Ancellotti ove i due lavoravano insieme, oltre che sull'episodio relativo alla FIAT 126 di colore chiaro da cui il teste avrebbe prelevato della benzina per la sua moto, quando si trovava in compagnia del Gigante), di Ivana Gentili (segretaria del Comune di Riano, sulla telefonata da lei effettuata la mattina del 4 agosto 1993 a Sabatino Gigante, in ordine al protesto di due effetti cambiari e sul successivo incontro con il Gigante nel corso della stessa mattinata), di Nadia Pascucci (sulla presenza di Sabatino Gigante presso l'immobile ove ella risiede, nella serata di uno dei primo giorni dell'agosto 1993 e sul fatto che il Gigante recava con sè una valigetta 24 ore e su quanto costui dichiarò circa il suo contenuto), di Eraldo Bocci (sulla circostanza che il perito dell'assicurazione Mattioli effettua la verifica dei danni agli assicurati della zona di Riano il mercoledì mattina), di Aniello Agresta (sui suoi spostamenti la mattina del 4 agosto 1993, sulla presenza della sua autovettura in Corso Matteotti di Riano la sera del 4 agosto 1993 e sul contenuto delle lettere speditegli dalla sorella Silvana all'inizio della sua detenzione), di Maria Mellucci (sui rapporti intercorsi con il Pisano il pomeriggio del 4 agosto 1993 ed in particolare sulla decisione di denunciare la scomparsa di Cinzia Bruno), del funzionario dell'ANAS (circa la viabilità al km 14 della SS. Flaminia il 4 agosto 1993), di Mario Pisano (sulla sua collocazione temporale il 4 agosto 1993, sui contatti con il fratello successivamente all'arresto, sulle investigazioni svolte e, in particolare, sui rapporti con Cesare Piccioni e su quanto da questo riferitogli dopo i colloqui con Marta Emilia Rosso, nonchè sull'individuazione del teste Brunettini).
L'esame di Sabatino Gigante (sulla telefonata ricevuta dalla Gentili, sulle confidenze al Tommasini, con particolare riferimento alla FIAT 126 della vittima, sul contenuto dei colloqui avuti con i fratelli dell'Agresta dopo la scoperta del cadavere della Bruno, sul contenuto della propria valigetta 24 ore - che avrebbe potuto contenere i morsetti con i quali furono fratturati i polsi della vittima - sulla presenza di una Opel Station Wagon sotto l'abitazione dell'Agresta al ritorno dal trasporto del cadavere, auto erroneamente descritta come quella appartenente al Pisano).
Ammetteva altresì i seguenti mezzi di prova indicati dalla parte civile ed aventi ad oggetto l'esame dei testi Francesco Autore (con riferimento alle modalità di presentazione delle pratiche catastali dalle caratteristiche analoghe a quelle delle pratiche "Trappetti" e "Monari"), Emilia Maria Rosso (sulle circostanze relative alla presentazione di tali pratiche), Maria De Giovanni (sui rapporti di collaborazione intrattenuti, quale dipendente del catasto, con il Pisano e sulle modalità di presentazione delle pratiche da parte dal condannato), Rossana Giacomini (sulle circostanze relative alla registrazione delle pratiche "Trappetti" e "Monari" nel registro cronologico del 4 agosto 1993).
5. Assunte le prove ammesse, con sentenza 19 febbraio 2001, la Corte di appello di Perugia revocava la sentenza di condanna pronunciata il 29 novembre 1994 dalla Corte di assise di Roma, nonchè le successive e conseguenti sentenze emesse il 27 novembre 1995 dalla Corte di assise di appello di Roma ed il 18 aprile 1996 dalla Corte di cassazione, assolvendo il Pisano da tutti i delitti a lui ascritti per non aver commesso il fatto, con i conseguenti provvedimenti de libertate e sugli interessi civili.
La decisione contiene, anzi tutto, un'ampia motivazione circa la novità delle prove addotte dalla difesa del Pisano, contestando la tesi avanzata dalle parti civili in ordine alla assenza di ogni apparato argomentativo quanto all'ammissibilità del giudizio di revisione concludendo che nel corso della procedura sono state assunte nove prove nuove costituite da deposizioni di testimoni mai esaminati al dibattimento del giudizio di cognizione, da una consulenza grafica mai espletata in tale giudizio e da una consulenza tossicologica relativa ad elementi nuovi e diversi, per formulazione di quesiti, da quelli già esaminati e valutati.
Premesso che per nuove prove ai fini del giudizio di revisione dovevano intendersi non soltanto le prove noviter productae, ma anche quelle noviter repertae, fra le quali erano da annoverare pure quelle acquisite, ma non valutate, nel giudizio di cognizione, la Corte territoriale, nel prendere in esame la fondatezza della richiesta di revisione, opera una prima ricostruzione del delitto volta a contestare la capacità di resistenza delle sentenze di condanna sulla base di prove assolutamente non valutate nel giudizio di cognizione, escludendo l'invito trappola in Riano da parte della Agresta e, conseguentemente, la premeditazione, con necessari riverberi sulla posizione del Pisano.
Più in particolare:
sarebbe comprovato che la causale posta a base dell'omicidio non coinvolgerebbe il Pisano, perchè dalle prove assunte ma non valutate nel giudizio di cognizione, sarebbe emerso che il rapporto tra i due amanti era in crisi e che l'Agresta temeva che il Pisano volesse rompere la relazione;
sempre sulla base di prove non valutate, sarebbe risultata l'erroneità della tesi dell'invito-trappola, essendo stato accertato, invece, che la Bruno si recò di propria iniziativa nell'abitazione dell'Agresta;
sulla base della consulenza tecnica prodotta dall'imputato i cui quesiti sarebbero profondamente diversi da quelli proposti in sede di cognizione al consulente tecnico del Pubblico ministero, nonchè anche considerando la consulenza tecnica della parte civile - la cui valutazione sarebbe stata in quella sede completamente omessa - i tempi dell'azione omicidiaria sarebbero stati più lunghi di quelli indicati dalla sentenza impugnata;
sulla base del testimoniale raccolto in sede di giudizio di revisione, e delle prove acquisite ma non valutate nel giudizio di cognizione risulterebbe l'assoluta attendibilità della prova d'alibi fornita dal Pisano dimostrata da 22 riscontri documentali e testimoniali, dalla durata dell'azione omicidiaria, da non potersi ridurre, in base al novum, a pochi minuti, ma da ritenersi estesa nell'arco di tempo di due ore, due ore e mezzo, con conseguente sopravvenuta inconsistenza degli elementi indiziari (ritenuti gravi, precisi e concordanti), nel giudizio di cognizione, anche per l'assoluta incompatibilità tra l'ora in cui fu consumato il delitto e i tempi in cui l'imputato si trovava presso il catasto o il ferramenta ovvero presso l'Istituto Superiore.
sempre sulla base del novum sarebbe emersa l'inattendibilità della testimonianza circa il giorno dell'acquisto dell'anello (non il 4, come ritenuto dai giudici di merito, ma il 3 agosto) e l'erroneità di quanto affermato dalle sentenze quanto al ritardo nella presentazione della denuncia.
Delibata l'ammissibilità della richiesta, la Corte perviene alla conclusione della fondatezza della richiesta stessa, muovendo da due fronti. Da un lato, l'innocenza del Pisano, dall'altro lato, considerata l'accertata esecuzione dell'omicidio da parte di due persone, ritenendo la sussistenza delle condizioni per procedere nei confronti dalla Agresta, di Sabatino Gigante, di Walter Gigante e di Mario Cantoni per il delitto di calunnia aggravata; disponendo la trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma relativamente al quadro indiziario per il concorso nel delitto di omicidio nei confronti di Aniello Agresta e di Sabatino Gigante.
6. Hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale, l'avvocato Antonio Cristiani, nell'interesse delle parti civili Melucci Maria, Bruno Gabriella e Bruno Giuseppe e l'avvocato Carlo Taormina nell'interesse della parte civile Bruno Giuseppe, tutore della minore Pisano Arianna.
6.1. Il Procuratore Generale ha, anzi tutto, dedotto, violazione della legge processuale per l'assoluta assenza di motivazione in ordine alla dichiarazione di ammissibilità del giudizio di revisione; una motivazione dovuta, a pena di nullità, alla stregua dell'art. 125 c.p.p. nel suo coordinamento con gli artt. 630, lettera c, e 631 dello stesso codice: per il primo, la revisione può essere richiesta "se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631"; per il secondo, "gli elementi in base ai quali si richiede la revisione devono, a pena di inammissibilità, essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 o 531". Da tale combinato disposto deriverebbe il dovere del giudice al quale venga proposta una domanda di revisione di vagliare preliminarmente, attraverso un'operazione di prognosi astratta, se gli elementi offerti al suo esame siano caratterizzati dal requisito della novità e se siano rilevanti per ribaltare una decisione assistita dal giudicato, considerando, sin da ora, che, in base al precetto dell'art. 637, comma 3, il proscioglimento non puo'essere pronunciato sulla sola base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio. Poichè, dunque, il requisito della novità della prova è richiesto quale condizione di ammissibilità della domanda, il giudice dovrà preliminarmente compiere un'indagine di tipo ricognitivo e comparativo tra le acquisizioni del giudizio di cognizione e gli elementi addotti dal richiedente, così da concludere tale fase con un apposito provvedimento nel quale esterni le valutazioni compiute, esplicitando le ragioni per cui la richiesta sia - ed in quali limiti - ammissibile, oppure no. Ciò tanto più laddove talune parti abbiano - come nel caso di specie - contestato l'ammissibilità della richiesta. In tal modo il giudice a quo sì sarebbe sottratto ad ogni controllo del procedimento logico seguito nella valutazione della novità e della rilevanza degli elementi di fatto posti a fondamento della richiesta. Tanto da pervenire ad una sorta di quarto grado di giudizio, al quale era, oltre tutto, indirizzata la stessa richiesta di revisione, per giunta, fondata su una ricostruzione di un preconcetto schema ipotetico del fatto su basi innocentistiche.
Una nullità, quella dedotta, che non può certo ritenersi sanata dalla motivazione contenuta nella sentenza di assoluzione, "stante l'autonomia formale e funzionale dei due provvedimenti e la previsione della impugnabilità delle ordinanze emesse nel corso del giudizio".
Il Pubblico ministero ha insistito sull'inammissibilità della richiesta, ai sensi degli artt. 630, lettera c, e 631 ed in ogni caso perchè la domanda di revisione sarebbe manifestamente infondata. Secondo l'Ufficio ricorrente, le prove, oltre a non essere nuove, non si sarebbero rivelate dimostrative dell'innocenza dell'incolpato o comunque della sua meritevolezza, nonostante il giudicato, di una pronuncia di proscioglimento; condizione, pur essa prevista a pena di inammissibilità. Gli elementi introdotti e volti a sostenere una prova d'alibi già disattesa in sede di cognizione, sarebbero, invece, soltanto "possibilistici" e, come tali, inidonei ad introdurre il giudizio di revisione. Senza considerare l'ammissione di una consulenza tecnica avente ad oggetto i tempi di assorbimento del principio attivo del "Pleigine" e che persegue l'unico scopo di contrastare le risultanze delle consulenze tecniche vagliate nel giudizio di cognizione, omettendo di utilizzare tecniche o metodiche innovative; l'ammissione di testimonianze (quelle, cioè, di Carmine Agresta, di Daniele Tommasini, di Ivana Gentili) e di un esame (quello, cioè, di Sabatino Gigante) diretti esclusivamente a ricercare le prove della responsabilità di terzi, una procedura non consentita in questa sede.
La conseguenza è che nel giudizio di revisione si è proceduto ad un nuovo, globale giudizio di cognizione, senza saggiare la resistenza delle prove di colpevolezza, ma solo verificando la fondatezza di un'ipotesi di innocenza. Adducendo, inoltre. elementi di prova su circostanze del tutto marginali quali l'accertamento della viabilità della strada statale Flaminia, del giorno della denuncia, del giorno in cui venne acquistato l'anello donato dal Pisano all'Agresta.
In conclusione, si lamenta violazione della legge processuale sia perchè la richiesta non era supportata da prove nuove sia perchè comunque le prove richieste non apparivano nè potevano apparire dimostrative dell'esistenza delle condizioni per il proscioglimento del Pisano.
Ha dedotto, ancora, omessa e manifesta illogicità della motivazione.
In primo luogo la domanda di revisione sarebbe fondata sul disconoscimento della premeditazione, un'ipotesi non prevista tra i casi di revisione. Per giunta, ricostruendo una tesi alternativa a quella risultante dai procedimenti di cognizione. Segnala l'Ufficio ricorrente le incongruenze insite nel ritenere che la Bruno non fosse stata attratta a Riano da un invito dell'Agresta, la singolarità, ponderata dalle sentenze di merito, dell'assenza di ogni colloquio telefonico fra i due amanti la mattina del 4 agosto, illogicamente giustificata dalla sentenza impugnata per il fatto che la donna si trovava a casa del prefetto Rossi (di cui il Pisano aveva il numero di telefono e presso il quale altre volte aveva chiamato la Agresta, così come risulta dal testimoniale e dal tabulato telefonico), la dinamica iniziale dell'omicidio, l'intervento di un terzo, il reperimento dei medicinali, la telefonata dell'Agresta al Pisano nel corso dell'azione omicidiaria, smentita, oltre tutto, dallo stesso Pisano il quale ha dichiarato che la mattina del 4 agosto fu lui a telefonare all'amante; le illogiche insinuazioni sul ruolo del Gigante che, invece, nella tarda mattinata del 4 agosto si recò dal segretario comunale per la questione relativa al protesto delle cambiali.
Illogica sarebbe, ancora, la verifica della prova d'alibi, perchè sarebbero state valorizzate testimonianze che, lungi dal confortare la presenza al catasto del Pisano la mattina del 4 agosto, corroborano il convincimento che quest'ultimo si serviva per le sue pratiche di persone all'interno degli uffici e che le stesse pratiche venivano precompilate. Senza contare che la descrizione delle persone, degli accadimenti, di tutto quanto si sarebbe svolto in sua presenza potrebbe essergli stato riferito da persona fidata; a nulla rilevando che al momento in cui il Pisano rilasciò tali dichiarazioni si trovasse in isolamento. Vi sarebbero anche evidenti contraddizioni tra quanto dichiarato dai testimoni, mentre, soprattutto, nessuno degli impiegati esaminati ebbe a dichiarare che il Pisano, quella mattina si trovava presso gli uffici del catasto. Donde anche l'irrilevanza della consulenza grafica, essendo risultato pacifico che il Pisano era uso precompilare le ricevute provvisorie.
Circa, poi, l'accesso al negozio di ferramenta per l'acquisto delle chiavi, la somma risultante dalle battute della cassa non corrisponderebbe a quella che il Pisano dichiarò di avere speso.
Analoghe censure vengono rivolte in relazione al recepimento da parte della sentenza denunciata della tesi del prof. Furnari, di cui, oltre tutto, si segnala l'assenza di novità, nonostante la formale diversità del quesito.
Ulteriori illogicità vengono riscontrate dal Procuratore Generale in ordine ai punti relativi alla tardività della denuncia, alla non riferibilità al Pisano della telefonata dell'Agresta al fratello Mario circa la fuga della Bruno con il suo amante; tanto più che - prima ancora che il corpo della povera Cinzia venisse scoperto - il Pisano ebbe a riferire che nella telefonata si parlava di un postino per identificare l'uomo con il quale la Bruno sarebbe fuggita; nonchè in ordine alla causale, alla retrodatazione dell'acquisto dell'anello, all'esclusione dell'incontro dei complici il pomeriggio del 5 agosto, alla perentoria esclusione che le ecchimosi rilevate sul corpo del Pisano potessero riferirsi all'azione lesiva, nonchè alla maggiorazione del tempo di percorrenza tra via Piero della Francesca e Riano.
6.2. Anche l'avv. Antonio Cristiani, difensore delle parti civili Melucci Maria, Bruno Gabriella e Bruno Giuseppe, ha dedotto il totale difetto di motivazione dell'ordinanza emessa al dibattimento del 4 dicembre con la quale veniva dichiarata, senza alcuna motivazione, l'ammissibilità del giudizio di revisione e venivano rigettate le richieste del Procuratore Generale e delle parti civili, pur vertendo tali richieste sulla questione principale e pregiudiziale per la prosecuzione del giudizio; con conseguente violazione del contraddittorio.
La medesima parte civile ha denunciato, ancora, erronea applicazione delle norme processuali relative ai presupposti tassativi per l'ammissibilità del giudizio di revisione e, più in particolare, alla nozione giuridica di nuove prove, fatta erroneamente coincidere con la nozione di nuovi elementi di prova, con conseguente inammissibilità della richiesta di revisione.
Osserva, in proposito, la parte ricorrente che in un simile ravvisato rapporto di equivalenza si nasconde un'errata ricostruzione dell'istituto della revisione perchè, seguendo una linea interpretativa di tal genere, su qualsiasi fatto storico, oggetto di un accertamento irrevocabile, si potrebbero addurre elementi per tentare di renderlo opinabile.
Di qui una serrata critica, sul punto, alla impugnata decisione.
In primo luogo, il richiamo agli "elementi di prova" non è contenuto in nessuna disposizione del codice riguardante la revisione considerato che l'art. 630 ha riferimento alle "nuove prove", quali dati che rispetto al giudicato si profilano come incompatibili. In secondo luogo, l'art. 631, non sarebbe stato correttamente evocato dal giudice a quo, perchè tale precetto non ha riferimento esclusivo all'ipotesi di revisione prevista dall'art. 630, lettera c; richiamando "elementi" che nulla hanno a che vedere con la prova, la norma allude alle cause, ai titoli, alle ragioni della richiesta di revisione. Il che avrebbe condotto nel caso di specie al riesame di un alibi motivatamente escluso nei due giudizi di merito nonchè nel giudizio di cassazione con l'assunzione di mezzi di prova critici, inammissibili perchè già esperiti e valutati in sede di cognizione. Per di più, attraverso testimonianze di supporto generico e mediante la produzione di una consulenza tossicologica di parte in conflitto con la consulenza esperita nel precedente giudizio e senza neppure la necessità di procedere di ufficio ad ad una nuova perizia.
L'avv. Cristiani ha inoltre dedotto il vizio di cui all'art. 606, comma 1, lettera e, in relazione agli artt. 630, coma 1, lettera c, e 637, comma 3, denunciando manifesta contraddittorietà, insufficienza della motivazione sui riscontri probatori, inopportunamente definiti "nuovi" che, unitamente ad una nuova valutazione di elementi probatori già presenti e criticamente valutati dalle sentenze di merito e dalla Corte di cassazione, hanno comportato l'assoluzione in sede di revisione del Pisano da tutti i reati per i quali era stato condannato con sentenza passata in giudicato. Così articolando le sue censure:
L'avere la Corte di merito ritenuto che ad indurre la Bruno a recarsi di sua iniziativa a Riano fosse stato il reperimento da parte della vittima del mod.740 ovvero della ricevuta del versamento dell'ICI in esso contenuta effettuato dal Pisano presso l'ufficio postale di Riano. Un elemento contraddittorio perchè il Pisano, dopo aver negato alla moglie tale documento la sera prima del delitto, al mattino successivo - per sua stessa ammissione - ha rivelato alla Bruno il luogo dove trovarlo; un fatto, quello descritto dalla sentenza, che se, da un canto, sembra avvalorare la tesi del "tranello", dall'altro canto, risulta smentito dalla deposizione del teste Labozzetta, che ha appunto dichiarato del rinvenimento del mod. 740 e della ricevuta da parte della stessa Bruno; il tutto travisando la dichiarazione del teste che aveva riferito che fu il Pisano, la mattina del 4 agosto 1993, a telefonare alla moglie per farle cercare la ricevuta ICI.
La tesi del blitz della Bruno risulta smentita dalle dichiarazioni delle sue amiche che descrivono la vittima come persona "paurosa e timorosa", incapace di prendere un'iniziativa del genere, tanto più presentandosi a casa dell'Agresta in un'ora in cui era presumibile che questa si trovasse al lavoro e che di lì a qualche giorno sarebbe stata accompagnata dalla sua amica Soricelli, momentaneamente priva dell'autovettura.
Del tutto congetturale sarebbe la motivazione della sentenza denunciata nella parte in cui giustifica l'assenza di chiamate telefoniche da parte del Pisano alla sua amante la mattina del 4 agosto, solo per il fatto che questa avrebbe dovuto trovarsi al lavoro presso l'abitazione del prefetto Rossi, essendo risultato, non solo che il Pisano era in possesso del numero di tale utenza, ma che altre volte (come attestato dai tabulati e dalla testimonianza della figlia del prefetto) aveva telefonato a casa Rossi chiedendo della Agresta. Inoltre, la presenza a casa di quest'ultima al mattino del 4 agosto 1993, non potrebbe giustificarsi altrimenti che per il fatto che stava attendendo la sua rivale, certamente invitata con l'inganno.
Illogico sarebbe, poi, il rilievo che durante la fase più concitata del delitto, l'Agresta abbia telefonato al Pisano per evitare che costui sopraggiungesse a Riano nonostante l'appuntamento fosse stato fissato per il pranzo.
Illogica, ancora, la valutazione della Corte secondo cui l'omicidio non era stato premeditato e che, conseguentemente, il Pisano non aveva partecipato alla sua esecuzione. Illogiche le asserite complesse cadenze della soppressione: prima il tentativo di simulare un suicidio con l'ingerimento forzato di compresse di vari medicinali; poi - non riuscita una simile procedura per la resistenza della Bruno - la trasformazione dell'azione omicidiaria con l'intervento di una terza persona che, anzichè dividere le due donne, infligge il colpo fatale alla povera Cinzia.
Erroneo sarebbe il convincimento circa il numero di compresse fatte ingerire, tanto più che la Corte di appello di Roma aveva rilevato: "nella ricostruzione della dinamica del fatto, basata sugli inconfutabili dati offerti dall'indagine autoptica e dalle consulenze tossicologiche, acquista particolare risalto la circostanza che la vittima sia stata costretta a viva forza, all'interno della mansarda dell'Agresta, ad ingerire un elevato numero di compresse, sicuramente più di undici, e per quantitativo superiore al doppio di quello assumibile per fini terapeutici nell'arco delle 24 ore".
Ulteriori censure vengono rivolte alla sentenza impugnata sui punti concernenti il posteggio della vettura nel garage della Agresta, il rilevamento delle tracce ematiche, la telefonata della Bruno alle sue colleghe alle ore 8, 30 del 3 agosto 1993, la situazione ideale che si era realizzata quel giorno, essendo tutti gli occupanti il fabbricato assenti;
Si critica poi l'acquisizione della consulenza tecnica del prof. Furnari, che - considerato il quesito proposto in sede di cognizione e l'esame dei periti in dibattimento - si riduceva ad una revisione di detti elaborati; senza che la Corte perugina sentisse il dovere di disporre di ufficio una perizia. Una revisione, per di più, del tutto erronea, non essendo possibile calcolare il numero delle compresse fatte ingerire alla Bruno;
Circa l'alibi del Pisano, la sentenza si rivelerebbe illogica e contraddittoria sia quanto alla presenza dell'imputato nel negozio di ferramenta (l'entità della spesa dichiarata non coincide con la somma indicata dal titolare del negozio per l'acquisto delle chiavi) sia quanto alla presenza del Pisano al catasto (nessun apporto sarebbe stato arrecato nè dal nuovo testimoniale nè dalla consulenza grafica).
6.3. L'avv. Carlo Taormina, nell'interesse di Giuseppe Bruno, tutore della minore Arianna Pisano, ha insistito sull'impossibilità di qualificare prova nuova la consulenza Furnari, che si risolve in una critica alle consulenze depositate nel giudizio di cognizione perchè le domande rivolte in dibattimento ai due consulenti tecnici comprendevano anche i valori di concentrazione della fendimentrazina nel sangue. Inoltre, la sentenza impugnata, nel recepire acriticamente la consulenza Furnari sarebbe incorsa anche in un palese travisamento del fatto in ordine al quantitativo di compresse ingerite dalla Bruno e che, secondo gli accertamenti effettuati in sede di cognizione, non avrebbero compreso i valori rilevati nel sangue e nelle urine. L'assenza di novità della prova costituita dalla consulenza Furnari condizionerebbe tutto il giudizio di revisione, in forza della decisiva rilevanza attribuita dalla sentenza impugnata ad un simile accertamento, che viene considerato l'elemento base per avvalorare la prova d'alibi.
Ulteriori illogicità vengono rilevate in relazione all'acquisto delle chiavi per la non corrispondenza con il prezzo che si assume pagato con quello del costo delle chiavi stesse (lire 6.000 e non lire 4.000, come asserito dal Pisano, secondo la deposizione del teste Brunori), alle dichiarazioni del Brunettini (chiamato in causa dal Pisano solo l'8 novembre 1993), dello Spataro, del Colella, e della De Giovanni (che, peraltro ha dichiarato di aver cessato ogni rapporto "professionale" con il Pisano sin dall'ottobre 1992, donde l'inconferenza ed il travisamento della sentenza nella parte in cui ha assegnato un valore cruciale a tale deposizione); senza contare l'irrilevanza della consulenza grafica fondata su presupposti assolutamente non accertati.
7. A seguito di richiesta del difensore del Pisano, e con il parere favorevole del Procuratore Generale presso questa Corte, il Primo Presidente Aggiunto ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite a norma dell'art. 610, comma 2, c.p.p., per la speciale importanza delle questioni e per comporre il contrasto giurisprudenziale in merito alla nozione di prova nuova ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione.
Il difensore del Pisano ha presentato due memorie difensive, mentre entrambi i difensori delle parti civili hanno depositato motivi nuovi a sostegno dei rispettivi ricorsi.
8. Il Primo Presidente Aggiunto ha rimesso i ricorsi alle Sezioni unite di questa Corte Suprema tanto per la particolare importanza delle questioni proposte tanto per la soluzione del contrasto giurisprudenziale insorto fra le Sezioni ordinarie circa il concetto di prova nuova ai fini della delibazione sull'ammissibilità della richiesta di revisione.
Il variegato articolarsi dei motivi sia del Pubblico ministero sia delle parti civili e le tipologie di denunce che, nel perseguire la demolizione della sentenza della Corte di appello di Perugia, censurano pregiudizialmente il provvedimento che ha introdotto la fase dibattimentale, impongono, prima ancora di affrontare il tema oggetto del contrasto giurisprudenziale, di scrutinare tre questioni di particolare rilevanza, in ordine alle quali o non risultano precedenti giurisprudenziali specifici ovvero sussistono posizioni interpretative, almeno in apparenza, non collimanti.
La prima concerne le conseguenze derivanti dall'omesso esame, nella fase antecedente l'ammissione delle prove - e, dunque, l'attività preliminare alla prosecuzione del c.d. giudizio rescissorio - delle doglianze, sollevate sia dalle parti civili sia dal Pubblico ministero, circa l'ammissibilità della richiesta di revisione, avendo il giudice a quo disatteso motivatamente tale eccezione solo con la sentenza, così da persistere nella celebrazione del giudizio nonostante, prima dell'apertura del dibattimento, fosse stata esplicitamente dedotta l'inammissibilità della richiesta.
La seconda - emergente da taluni rilievi del Procuratore Generale che, pure se formalmente non diretti a proporre un'apposita censura, proiettano, in effetti, i loro riverberi nell'ambito della quasi totalità delle denunce in punto di ammissibilità della domanda di revisione - riguarda l'incidenza, che implicitamente si afferma determinante, dell'inammissibilità di una o più prove fra quelle poste a base della domanda stessa (un argomento introdotto soprattutto - ma non soltanto - in relazione alla consulenza tecnica redatta dal prof. Furnari) sull'accesso al giudizio di revisione allorchè altre prove possano essere (ipoteticamente) designate dal requisito della novità, salva ogni verifica quanto alla loro idoneità a dimostrare, da sole o unite a quelle già valutate, che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631.
La terza, articolata soprattutto dall'avv. Cristiani, ed incentrata sulla nozione di prova, di cui all'art. 630, lettera c, alla quale inerisce l'attributo di qualificazione adesso rammentato.
9.1. Quanto alla prima questione, va premesso che nell'attuale sistema normativo, diversamente dal regime delineato nel sistema del codice di rito abrogato, non è ravvisabile nel procedimento di revisione una distinzione tra fase rescindente e fase rescissoria, non soltanto perchè il giudizio positivo circa l'ammissibilità della richiesta non comporta intervento di alcun tipo sulla decisione denunciata, ma anche perchè - un argomento davvero complementare - la seriazione procedimentale descritta dall'art. 629 e seguenti segnala l'esistenza di una progressione che - sia pure attestata ai "casi" tassativamente previsti dall'art. 630 - implica, ove il giudizio di ammissibilità abbia esito positivo, una continuità tra i due momenti, tale da incentrare nel giudizio di revisione stricto sensu inteso, il segmento cruciale della procedura.
L'accertamento dell'ammissibilità della richiesta si presenta, infatti, oltre che nella sua struttura, anche - quel che più importa - nella sua proiezione funzionale, non dissimile dalla necessaria verifica, demandata al giudice dell'impugnazione, in ordine all'esistenza delle condizioni prescritte dalla legge per l'instaurazione (subordinata, appunto, all'ammissibilità del gravame) dell'ordinario giudizio di impugnazione. Pure se le condizioni per l'ammissibilità della richiesta (e, dunque, per l'ammissibilità dell'atto di impugnazione), per incidere le "doglianze" su una decisione passata in cosa giudicata (cfr. l'art. 629 con l'art. 649), restano caratterizzate da un tasso di maggiore complessità, in gran parte riferibile alla conseguente specificità delle "censure" proponibili. In un quadro entro il quale la peculiare natura del mezzo di gravame non lo sottrae - come si vedrà fra poco - all'applicazione di talune regole generali concernenti l'ammissibilità dell'impugnazione.
Peraltro, non essendo più immanente nel sistema la frammentazione del giudizio in due fasi distinte non di rado assegnate alla cognizione di giudici diversi (la Corte di cassazione per la fase rescindente, la corte di appello per l'eventuale fase rescissoria, in sede di rinvio) secondo lo schema delineato nel regime del codice abrogato, si è dissolta la valenza della procedura rescindente, non realizzandosi, nel caso di giudizio positivo in ordine all'ammissibilità della richiesta di revisione, alcun effetto demolitorio sulla decisione denunciata; un effetto che nel vigore del codice del 1930 si profilava come quello provvisto della massima carica innovativa sul piano del possibile giuridico. Tanto che all'esito del giudizio rescindente (e, dunque, nello specifico, anche rescissorio) poteva derivare, a norma dell'art. 561 c.p.p. 1930, l'annullamento senza rinvio della sentenza di cui era stata richiesta la revisione; una conclusione pressochè obbligata nell'ipotesi di condanna fondata su sentenza civile o amministrativa poi revocata.
Tutto ciò giustifica perchè il nuovo legislatore non abbia ritenuto necessario prescrivere l'esternazione della pronuncia di ammissibilità della richiesta di revisione, postulando esclusivamente - e, per di più, sulla base, nei termini sui quali si avrà occasione di soffermare l'attenzione fra poco, di un summatim cognoscere - la verifica delle condizioni stabilite dalla legge perchè il presidente della corte emetta, a norma dell'art. 636, il decreto di citazione a giudizio ai sensi dell'art. 601.
Il problema rimanda - pare subito evidente - al regime dell'inammissibilità nel sistema generale delle impugnazioni al quale la revisione appartiene sia pure con connotazioni peculiari, che la designano come mezzo "straordinario".
La legge prevede la sola declaratoria di inammissibilità "quando la richiesta è proposta fuori delle ipotesi previste dagli artt. 629 e 630 o senza l'osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 631, 632, 633, 641 ovvero risulta manifestamente infondata", declaratoria che va adottata con ordinanza da notificare al condannato e a colui che ha proposto la richiesta, i quali possono ricorrere per cassazione.
Se da tale norma si ricava la natura de plano (e l'eventuale contraddittorio differito nel solo giudizio di cassazione) della fase volta a verificare l'ammissibilità della richiesta (secondo il modello, del resto, prefigurato, specificamente, quanto significativamente, per il giudizio di appello, dall'art. 601, comma 1) con possibilità per la Corte di cassazione, in caso di annullamento senza rinvio dell'ordinanza di inammissibilità, di imporre l'instaurazione del giudizio "rescissorio", non sembra che ad un simile assetto consegua la necessaria adozione di un'espressa ordinanza di ammissibilità che, peraltro, nessun soggetto potenzialmente interessato alla decisione di condanna della quale si chiede la revisione avrebbe titolo per impugnare, stante la preminente funzione pubblicistica di tale gravame la cui disciplina incentra nel richiedente - peraltro con il conferimento di una legittimazione che si manifesta essenzialmente nella proposizione della domanda - ogni posizione pretensiva.
9.2. Dunque, se è vero che l'art. 636 c.p.p. stabilisce (implicitamente evocando la sussistenza di una specifica delibazione che accerti l'ammissibilità della richiesta, considerato che l'ammissibilità non potrebbe essere affermata se non dal collegio) "Il presidente della Corte di appello emette il decreto di citazione a giudizio a norma dell'art. 601", è anche vero che la mancata esternazione di una simile attività di verifica, in quanto non espressamente richiesta dalla legge, non possa comportare conseguenze destinate a riverberarsi sulla validità del giudizio "rescissorio". E se pure, seguendo progressioni di tipo diacronico, potrebbe profilarsi l'assenza dell'atto presupposto legittimante l'esercizio del potere presidenziale - tanto più che le censure che appaiono maggiormente compatibili, nella loro assoluta specificità, con il giudizio di legittimità sono quelle che attengono all'ammissibilità del giudizio di revisione - resta da dimostrare che la verifica di tipo positivo sulla ammissibilità sia assoggettata a cadenze procedimentali puntualmente definite (o, comunque, non eccedenti la rilevanza degli interna corporis); secondo un canone, del resto, comune al sistema delle impugnazioni e che impone di individuare nel passaggio all'esame del "merito" l'esistenza di quell'accertamento preliminare da eseguire, in ogni caso, de plano.
Se ciò risponde ad una corretta sistemazione delle cadenze procedimentali in esame, ne discende che la delibazione quanto all'ammissibilità della richiesta di revisione non diverge dall'accertamento che il giudice dell'impugnazione è tenuto ad effettuare, e con valenza - è necessario rimarcarlo, per le contestazioni avanzate sul punto da uno dei difensori delle parti civili - meramente incidentale, sull'ammissibilità dell'impugnazione stessa; tanto che solo se l'impugnazione risulti inammissibile, l'inammissibilità deve essere dichiarata, nessuna esplicita dichiarazione di ammissibilità essendo, invece, contemplata dalla legge. In tal senso va affermata l'applicabilità del principio stabilito dal comma 4 dell'art. 591 c.p.p., da ritenere norma generale, riferibile ad ogni mezzo di impugnazione e, quindi, anche alla revisione. Il che, peraltro, mentre, da un lato, dovrebbe condurre ad affermare l'inoppugnabilità della decisione che dichiari l'ammissibilità del giudizio di revisione (o, più correttamente, dell'ordinanza che, nel corso del giudizio - impropriamente denominato - rescissorio, rigetti l'eccezione di inammissibilità), dall'altro lato (ma ci si trova di fronte, come pare evidente, ad un problema del tutto diverso), l'eventuale questione sull'inammissibilità dell'impugnazione sollevata nel corso del giudizio potrebbe convergere nell'area di operatività dell'art. 586 (non a caso evocato - ma senza farne derivare conseguenze coerenti con lo stesso contenuto intrinseco della censura - dal Pubblico ministero ricorrente).
Del resto, conformemente al disposto dell'art. 591, comma 4, c.p.p., l'emissione del decreto di citazione a giudizio (ed il completo espletamento della fase dibattimentale) non preclude - nessun "giudicato interno" potendo, per definizione, essersi formato - la pronuncia di inammissibilità della richiesta di revisione.
9.3. D'altro canto, la giurisprudenza di questa Corte è costante nella linea interpretativa in base alla quale l'inammissibilità della richiesta di revisione può essere dichiarata, oltre che con l'ordinanza prevista dall'art. 634, anche con sentenza, successivamente all'instaurazione del giudizio ai sensi dell'art. 636. E ciò perchè il procedimento di revisione si sviluppa in due fasi: la prima è costituita dalla valutazione - che avviene de plano, senza avviso al difensore o all'imputato della data fissata per la camera di consiglio - dell'ammissibilità della relativa istanza e mira a verificare che essa sia stata proposta nei casi previsti e con l'osservanza delle norme di legge, nonchè che non sia manifestamente infondata; la seconda è, invece, costituita dal vero e proprio giudizio di revisione mirante all'accertamento e alla valutazione delle "nuove prove", al fine di stabilire se esse, sole o congiunte a quelle che avevano condotto all'affermazione di responsabilità del condannato, siano tali da dimostrare che costui deve essere prosciolto. In questa seconda fase - che si svolge nelle forme previste per il dibattimento - è consentito alla corte di appello rivalutare le condizioni di ammissibilità dell'istanza e di respingerla senza assumere le prove in essa indicate e senza dare corso al giudizio di merito (Sez. un., 10 dicembre 1997, Pisco). Un approdo costituente un leit motiv in tema di revisione richiesta ai sensi dell'art. 630, lettera c, essendosi, per di più, osservato che, una volta che nel dibattimento si sia svolto il contraddittorio sul punto relativo alla sussistenza del requisito della novità della prova - imprescindibile perchè si debba procedere all'assunzione delle prove dedotte ed alla valutazione dei risultati delle stesse - alla corte che escluda la sussistenza del requisito della novità, non resta che adottare una pronuncia di inammissibilità della richiesta, non residuando alcun ulteriore accertamento che giustifichi il prosieguo del dibattimento e lo spiegamento di ulteriori attività difensive, tanto da escludere ogni violazione della legge processuale, per il mancato svolgimento della fase dibattimentale, "troncata" subito dopo l'inizio (cfr. Sez. V, 16 gennaio 1996, Bagedda).
Pertinente appare, dunque, il richiamo all'art. 636, comma 1, perchè al procedimento di revisione si applicano, per la vocatio in ius, le norme generali previste per il giudizio di appello; con la conseguenza che l'emissione del decreto di citazione non è necessaria quando ricorra un'ipotesi di inammissibilità; il che, peraltro, non sta a significare che ogni qualvolta sia stato emesso il decreto di citazione l'inammissibilità non possa essere dichiarata. Infatti, ancorchè siano tra loro diverse le cause di inammissibilità della revisione (art. 634) e le cause di inammissibilità dell'appello, si deve convenire che, essendo identico, nel suo insieme, il modello procedimentale prescelto per entrambi i mezzi di impugnazione, pure in tema di revisione si rende applicabile il disposto dell'art. 591, comma 4, in base al quale, quando non è stata rilevata di ufficio prima dell'emissione del decreto di citazione a giudizio, l'inammissibilità "può essere dichiarata in ogni stato e grado del procedimento" (Sez. VI, 12 ottobre 1993, Santolla). Dunque, la possibilità di dichiarare l'inammissibilità della richiesta di revisione quando questa risulti o manifestamente infondata o proposta fuori delle ipotesi previste dagli artt. 629 e 630 ovvero senza l'osservanza delle disposizioni contenute negli artt. 631, 632, 633 e 641, non preclude l'adozione della stessa declaratoria, per i medesimi motivi, con la sentenza conclusiva del giudizio, una volta che questo sia stato disposto (Sez. V, 17 maggio 1993, Bruni).
Appare necessario, infine, ancora una volta, ricordare che - come è stato ritenuto da una delle più argomentate decisioni sul tema - la fase di delibazione dell'ammissibilità della richiesta di revisione ha la funzione di accertare che la richiesta stessa sia stata proposta nei casi previsti, con l'osservanza delle norme di legge e che non risulti manifestamente infondata, di modo che a detta delibazione è assegnato l'esclusivo compito del controllo preliminare della sussistenza delle condizioni necessarie per l'avvio del giudizio di revisione nelle forme previste per il dibattimento tanto che i precisi caratteri strutturali e funzionali dell'indagine preliminare, mancante di una pronuncia rescindente della sentenza irrevocabile, danno pienamente conto delle ragioni che inducono ad escludere l'instaurazione di qualsivoglia contraddittorio, profilandosi l'unico interesse protetto dalla legge processuale come corrispondente all'intento pratico di porre un ragionevole argine alla presentazione di impugnazioni pretestuose o palesemente infondate e di evitare un inutile dispendio di attività giurisdizionale; un interesse, dunque, di natura esclusivamente pubblica (Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi).
Ma, ritengono queste Sezioni unite, il potere della corte di appello di dichiarare l'inammissibilità della domanda pur dopo l'instaurazione e la stessa conclusione del giudizio di revisione trova la più esplicita, decisiva canonizzazione nel disposto dell'art. 634, comma 1, che impone alla detta corte di dichiarare "anche di ufficio" (e quindi, con l'alternativa della rilevabilità ad opera delle parti, in un regime comunque designato dall'instaurazione del contraddittorio), con ordinanza, l'inammissibilità della richiesta.
9.4. Fermo restando che i precetti contenuti nel testo dell'art. 591 sono di ordine generale, appare chiara l'esigenza del legislatore di dettare un'apposita disciplina in tema di revisione, considerato che taluni casi di inammissibilità non possono trovare applicazione in relazione ad un simile mezzo di impugnazione.
E'significativo, peraltro, notare come l'art. 634, nel disciplinare la "Declaratoria di inammissibilità della richiesta", sia contrassegnato da una (almeno parziale) autonomia precettiva rispetto al regime generale della inammissibilità delle impugnazioni. Vi si prevede, infatti, che quando la richiesta è proposta fuori dei casi previsti dall'art. 629 (non si tratti, cioè, di sentenze di condanna o di decreti divenuti irrevocabili), 630 (nel caso previsto dalla lettera c - quello che qui interessa - di assenza sia della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove sia della loro idoneità a dimostrare - o della effettiva dimostrazione - che, sole o unite a quelle già valutate, il condannato debba essere prosciolto a norma dell'art. 631: e, cioè a norma degli artt. 529, 530 o 531), o senza l'osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 631 (si noti la ripetitività del precetto rispetto a quello dell'art. 634), 632 (se sia mancante la legittimazione alla richiesta), 633 (se vi sia inosservanza delle forme della richiesta), 641 (se la nuova richiesta sia fondata sugli stessi elementi) ovvero quando la richiesta risulta manifestamente infondata, "la corte di appello, anche di ufficio, dichiara con ordinanza l'inammissibilità e può condannare il privato che ha proposto la richiesta al pagamento" di una somma in favore della cassa delle ammende.
9.5. Per una più esaustiva, indispensabile disamina ricostruttiva dei rapporti tra inammissibilità nel sistema generale delle impugnazioni e specifiche inammissibilità riguardanti il procedimento di revisione appare allora necessario vagliare quali di quelle disposizioni richiamate dall'art. 591 si applichino al giudizio di ammissibilità della richiesta di revisione.
Con riferimento all'ipotesi prevista dalla lettera a sembra evidente che la presenza del giudicato sconta l'impraticabilità dell'interesse alla revisione; potrebbe, è vero, affermarsi che è colpita dall'inammissibilità contemplata nell'art. 568, comma 4, la richiesta di revisione di una sentenza di proscioglimento per prova insufficiente o contraddittoria, ma è anche vero che in tal caso (a parte l'antinomia che emergerebbe dal raffronto con le formule proscioglitive indicate dall'art. 631) si rientrerebbe nella specifica previsione dell'art. 629 (decisione non qualificabile come sentenza di condanna), appositamente individuata, quale ipotesi di inammissibilità, dall'art. 634 comma 1.
Il difetto di legittimazione è, a sua volta, espressamente previsto dallo stesso art. 634, comma 1, che richiama, appunto, l'art. 632 ("Soggetti legittimati alla richiesta"). La previsione della lettera b (l'inoppugnabilità va peraltro, riferita alla richiesta di revisione) appare sovrastata dal combinato disposto degli artt. 629 e 634, comma 1, mentre il regime dell'inosservanza delle disposizioni dell'art. 581 non è certamente applicabile alla revisione, in quanto mezzo di impugnazione volto non direttamente a censurare la sentenza irrevocabile, ma ad instaurare - sempre e comunque sul presupposto della allegazione di elementi diversi da quelli valutati in sede di cognizione - un nuovo giudizio dal quale dovrà scaturire, ex art. 637, comma 2, "In caso di accoglimento della richiesta di revisione... la revoca (del)la sentenza di condanna o (del) decreto penale di condanna con pronuncia di proscioglimento".
Circa la necessaria prospettazione delle richieste e dei motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, la prescrizione rimane superata dall'art. 633, comma 1, seconda parte, a norma del quale la richiesta deve contenere l'enunciazione delle ragioni e delle prove che la giustificano. E se potrebbe profilarsi come corretta l'applicabilità dell'art. 581, comma 2, è certo che risultano incompatibili con il modello della revisione le prescrizioni dei commi 1 e 3 dello stesso articolo (richiamati sempre dalla lettera c dell'art. 591), in forza del disposto dell'art. 634, comma 1, prima parte.
Quanto al precetto dell'art. 583 (anch'esso evocato dalla lettera c dell'art. 591), nonostante il riferimento alla cancelleria del giudice a quo, sembra che la norma in parola sia compatibile con la richiesta di revisione, anche considerando che non vi è traccia, nella specifica materia, di puntuali disposizioni procedimentali in tema di presentazione della richiesta. Sicura l'inapplicabilità all'impugnazione straordinaria dei commi 1, 2, 3 e 4 dell'art. 585, potendo la richiesta di revisione essere proposta in ogni tempo, il regime dei motivi nuovi di cui all'art. 585, comma 5, risulta, ovviamente, compatibile con la sola fase "rescissoria".
All'applicabilità al procedimento di revisione dell'art. 586, sempre richiamato dall'art. 591, lettera c, che diverrebbe funzionale, come sostenuto nel ricorso del Procuratore Generale ricorrente (ma secondo una linea intepretativa che avvalora, sul punto, la correttezza della decisione denunciata) anche alla proposizione di eventuali censure avverso l'atto presupposto del giudizio di revisione, non pare sussistere ostacolo di sorta, pure ove si denunci la violazione dell'art. 125 c.p.p.
Anzi, poichè la fase preliminare del procedimento di revisione, mancante di una pronuncia rescindente, rivela come l'unico interesse protetto dalla legge processuale corrisponde all'intento pratico di porre un ragionevole argine alla presentazione di impugnazioni pretestuose, o palesemente infondate, e di evitare un inutile dispendio di attività giurisdizionale, un interesse, dunque, di natura esclusivamente pubblica, ad essa resta del tutto estranea la posizione della parte civile, dovendo ribadirsi che, poichè prima dell'apertura del giudizio di revisione i soggetti danneggiati non hanno la qualità di parte processuale, venuta meno con il passaggio in giudicato della sentenza che ha loro riconosciuto il diritto alle restituzioni ed al risarcimento del danno (Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi), per la persona danneggiata dal reato la possibilità di far valere l'inammissibilità della richiesta di revisione (una domanda cui è certamente legittimata, alla stregua delle disposizioni generali in materia di impugnazioni) si realizza solo allorchè venga introdotta la fase del dibattimento. Con il che dovrà ad essa - ed ovviamente, anche al Pubblico ministero - riconoscersi la legittimazione e l'interesse a sindacare la stessa introduzione della c.d. fase rescissoria e, nel caso in cui ritenga illegittimo il provvedimento reiettivo della eccezione di inammissibilità, pure per violazione - come dedotto nel caso di specie - dell'art. 125 c.p.p., potrà far valere, come del resto si è verificato nella presente vicenda processuale, l'inammissibilità della richiesta con l'impugnazione avverso la sentenza di merito. Una proposizione assolutamente trascurata dal Procuratore Generale ricorrente, il quale ha a lungo censurato la decisione della Corte territoriale proprio sotto il profilo dell'ammissibilità della richiesta.
D'altro canto, concernendo le condizioni di ammissibilità della richiesta al contempo le condizioni per l'ammissibilità della fase in contraddittorio, non potrà che disconoscersi al Pubblico ministero ed alla parte civile l'esercizio di un potere interdittivo all'instaurazione e alla celebrazione del giudizio, ferma restando, salvo il caso di (ipotetica) abnormità del provvedimento reiettivo, che consentirebbe l'immediato esercizio del ricorso per cassazione, la possibilità di impugnare l'ordinanza con la decisione di merito ai sensi dell'art. 586. In un regime, peraltro, solo apparentemente deviante dagli usuali schemi impugnatori, se è vero che - come si è più volte ricordato - l'inammissibilità della richiesta di revisione può essere dichiarata anche di ufficio nel corso o all'esito del giudizio. Con la conseguenza che la questione relativa alla impugnabilità dell'ordinanza viene a coincidere con la possibilità di rilevare in cassazione, in base all'art. 591, comma 4, l'inammissibilità dell'impugnazione.
Circa, infine, l'operatività della rinuncia all'impugnazione (art. 591, comma 1, lettera d), un problema di estrema valenza pure nel tentativo di ricostruire entro un coerente disegno dogmatico l'istituto in esame, considerato il predominante interesse pubblico che è alla base della revisione, se e semprechè la rinuncia sopravvenga all'emissione del decreto di citazione a giudizio, la natura di mezzo (sia pure straordinario) di impugnazione della revisione imporrebbe di non sottrarre al richiedente (al pari di quanto avviene per qualsiasi gravame), la disponibilità della domanda, non potendo, certo, evocarsi un precetto tipico della esclusiva fase cognitoria, quale l'art. 129.
E ciò nonostante che il giudizio di revisione miri a tutelare, non solo l'interesse del singolo ma pure quello generale alla riparazione di eventuali errori giudiziari, privilegiando le esigenze di giustizia rispetto a quelle formali della certezza del giudicato (cfr., ex plurimis, Sez. V, 16 marzo 2000, Ragusa).
La specificità, nei termini che saranno più avanti evidenziati, della causa di inammissibilità costituita dalla manifesta infondatezza della richiesta, peraltro oggetto di specifica doglianza da parte del Pubblico ministero ricorrente, impone di differire l'esame di questo particolare vizio della domanda di revisione.
9.6. Pur dovendo riconoscersi che il giudice a quo (solo) in presenza di una esplicita eccezione formulata dalle parti interessate al fine di dichiarare l'insussistenza dei presupposti per il giudizio rescissorio era tenuto ad argomentare in ordine alla ammissibilità della richiesta, correttamente le doglianze sono state motivatamente disattese con la sentenza che ha accolto la domanda revisione. Il che, ovviamente, non pregiudica la possibilità di introdurre nel giudizio di cassazione censure fondate proprio sulla ritenuta ammissibilità della richiesta.
Deve, dunque, concludersi che, poichè la motivazione del rigetto della eccezione di inammissibilità della richiesta è stata esternata con la detta sentenza, la censura concernente l'assenza di motivazione nel respingere tale doglianza è priva di fondamento.
10. Occorre adesso determinare - una problematica che pare riferibile ai soli casi di revisione di cui all'art. 630, lettera c - se l'assenza di uno dei requisiti di ammissibilità come la novità della prova che concerna non tutti gli elementi dimostrativi su cui si fonda la domanda, ma esclusivamente taluni di essi, incida sull'ammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento di revisione tanto che la corte di appello debba dichiararne l'inammissibilità, ovvero se la verifica del giudice resti circoscritta all'accertamento dell'ammissibilità dell'impugnazione nel suo complesso, fermo restando l'esercizio del potere-dovere di dichiarare l'inammissibilità della prova in sede di ammissione della prova stessa a norma dell'art. 495, nella fase instaurata a seguito della emissione del decreto di citazione a giudizio ai sensi dell'art. 636. Una inammissibilità che va enunciata "ora per allora" così da impedire che una prova non designata dal requisito della novità possa entrare nel patrimonio conoscitivo del giudice della revisione. E'certo, infatti, che la prova così contrassegnata non possa definirsi altrimenti che come prova inutilizzabile nel giudizio di revisione nel quale opera il precetto dell'art. 526, appositamente richiamato dall'art. 637, comma 1, ovviamente da interpretare alla stregua delle prescrizioni contenute negli artt. 630, lettera c, 631, 636, comma 2, 637, comma 2.
L'art. 634, nel disciplinare le ipotesi di inammissibilità, ha, infatti, esclusivo riferimento alla richiesta, quale atto (potenzialmente) introduttivo del giudizio di revisione, richiamando - per la parte riguardante il "caso" previsto dall'art. 634, nei termini che specificamente concernono il regime delle nuove prove - gli artt. 631 (la necessità, cioè, che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 o 531), 633, comma 1 (l'indicazione specifica delle ragioni e delle prove che giustificano la richiesta) e la manifesta infondatezza della richiesta stessa.
Condizioni, dunque, che attengono tutte alla richiesta di revisione nel suo complesso, e tra loro interdipendenti, perchè, mentre l'assenza di novità delle prove rappresenta un dato di qualificazione in certo senso estrinseco alla struttura della richiesta, la sua manifesta infondatezza impone (secondo un canone di verifica da ricollegare direttamente, pur nella sua non discutibile diversa valenza precettiva, al giudizio rescindente previsto dall'abrogato codice di rito, quale tipico vizio riguardante il procedimento in cassazione), un accertamento che assume specifica autonomia, non potendo essere sovrapposto nè alla novità della prova nè alla idoneità degli elementi dimostrativi dedotti al fine di comprovare la sussistenza delle condizioni per il proscioglimento.
Per adesso è sufficiente attestarsi al rilievo della immanenza nel sistema del principio utile per inutile non vitiatur, salvo a verificare se la prova che non sia designata dal carattere della novità condizioni, per la sua valenza esponenziale ovvero per la interdipendenza rispetto agli altri elementi di prova caratterizzati dalla novità, l'intera domanda di revisione.
Un giudizio che la corte di appello è tenuto a compiere nel valutare l'ammissibilità della richiesta, ma che può, anche qui, esternare, re melius perpensa, sia in sede di giudizio sull'ammissibilità della prova, sia all'esito del c.d. giudizio rescissorio, sempre dichiarando l'inammissibilità della richiesta.
Dunque, se la richiesta è l'atto introduttivo del procedimento di revisione, in caso di richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove, l'inammissibilità di talune di esse (proprio per l'assenza del requisito della novità della prova, per essere la stessa non qualificabile tale o per non essere qualificabile come prova, nel senso che sarà fra poco precisato) non compromette necessariamente il giudizio di ammissibilità dell'impugnazione straordinaria. Ciò se e semprechè, nel contesto complessivo, la prova inammissibile non assuma valore decisivo o perchè condizionante il giudizio di rilevanza di prove astrattamente ammissibili o perchè comunque le prove inammissibili e le prove ammissibili risultino fra loro collegate da un tale rapporto di interdipendenza o di complementarità da rendere complessivamente precluso l'accesso al giudizio di revisione. Tutto ciò considerando che, anche in materia di revisione, opera il principio generale del favor impugnationis, pure se condizionato dalla straordinarietà del mezzo, volto a rimuovere una decisione passata in cosa giudicata.
Non può, però, omettersi di rilevare che, coinvolgendo la novità della prova i presupposti per l'instaurazione del giudizio di revisione, se il giudice ravvisi l'assenza di un simile elemento di qualificazione nella fase delibatoria "preliminare", sarà tenuto a dichiararla, escludendo ogni possibilità di utilizzazione di tale prova nel dibattimento.
11.1. Su un'ulteriore problematica deve ora questa Corte soffermare il suo esame. Occorre, cioè, verificare se quale condizione per l'ammissibilità della richiesta di revisione, nell'ipotesi prevista dall'art. 630, lett. c, la legge prescriva l'allegazione di prove nuove ovvero se il carattere della novità possa accedere pure ad elementi di prova.
Va ricordato come - secondo i più recenti approdi dogmatici - il concetto di prova venga utilizzato sul piano teoretico, ma con decisive ricadute in ambito applicativo, con riguardo ad oggetti tra loro differenti; di qui l'esigenza di un'indagine che consenta di individuare ciascuno dei "referenti semantici" convergenti verso una predominante valenza prescrittiva; così da designarli attraverso una ridefinizione in grado di evitare equivoci non soltanto terminologici. Decisivo diviene, allora, il richiamo al concetto di sequenza probatoria, concepita come l'insieme delle componenti, analizzate nella prospettiva della "staticità" che, nella loro successione, intervengono a costituire il fenomeno probatorio.
L'elemento di prova si presenta allora come quel dato che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato dal giudice come fondamento per la successiva attività inferenziale; il soggetto o l'oggetto da cui può derivare al procedimento almeno un elemento di prova è la fonte di prova che, a sua volta, può essere tanto personale (come nel caso del testimone) quanto reale (come nell'ipotesi del documento).
L'attività attraverso la quale viene introdotto nel procedimento almeno un elemento di prova è il mezzo di prova.
Sulla base dell'elemento di prova in tal modo conseguito (o di più elementi di prova), si svolgerà il procedimento intellettivo del giudice, il cui esito sarà rappresentato da una proposizione costituente il vero e proprio risultato della prova; un concetto da distinguere dalla conclusione probatoria, raggiunta solo al termine della valutazione della prova. Sarà allora che, nella fase corrispondente al momento decisorio, potrà effettuarsi il controllo di veridicità dell'iniziale affermazione probatoria confrontando tra loro gli elementi di fatto di cui sono portatori i singoli dati potenzialmente dimostrativi.
L'oggetto di prova potrà considerarsi dimostrato quando si sarà verificata la coincidenza tra l'affermazione probatoria (vale a dire, l'enunciato circa un fatto) ed il risultato della prova, dovendo qui ripetersi che in tal caso potrà concludersi che, in sè e per sè (salva la valutazione dei fatti secondari), la prova è "riuscita", nel senso che ha dato esito positivo, ovvero è "fallita", nel senso che ha dato esito negativo.
11.2. Poste tali premesse, già di per sè significative del perchè nel lessico legislativo l'elemento di prova venga a coincidere ora con lo stesso concetto di prova ora con l'elemento potenzialmente dimostrativo non ancora valutato dal giudice ovvero formatosi al di fuori del processo, resta fermo che, anche alla stregua di - almeno allo stato - collaudate istanze epistemologiche, il concetto di prova attiene al fatto da dimostrare, non attraverso la prova - chè, altrimenti, la proposizione si risolverebbe in un mero paralogismo - ma attraverso la sua fonte, che vale a costituire essa stessa, nella sua proiezione oggettiva, un elemento di prova. Non a caso, del resto, la più convincente dottrina, nel premettere che ogni prova comprende due fatti distinti, enucleabili nel fatto principale (quello, cioè, di cui occorre dimostrare l'esistenza) e nel fatto probatorio (quello che è finalizzato a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza del fatto principale), ha rilevato che il vocabolo prova, nella sua significazione polisemantica, sta ad indicare sia la prova nella sua capacità designativa più specifica sia gli elementi di prova, sia le fonti di prova, salvo espliciti equipollenti quali l'indizio, secondo attribuzioni ora canonizzate nel precetto dell'art. 192.
11.3. Appare opportuno rammentare che l'art. 554, n. 3, del codice abrogato, contemplava fra i casi di revisione la sopravvenienza o la scoperta, dopo la condanna di "nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il condannato deve essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'articolo 479". Un precetto conseguente alla riforma dovuta all'art. 1 della legge 14 maggio 1965, n. 481, richiedendo il testo previgente a tale riforma anche la presenza di "nuovi fatti", espressione (cruciale, ma) ritenuta del tutto pleonastica dalla dottrina, dovendo i nuovi fatti essere giudizialmente accertati, dunque, proprio utilizzando elementi di prova. E'certo, comunque, che nella materia della revisione è un determinato fatto che occorre dimostrare attraverso elementi di prova, derivanti da fonti prova, così da consentire di verificare la capacità di resistenza degli accertamenti compiuti con la sentenza irrevocabile.
Nell'analisi comparativa tra la disposizione del codice vigente e la disposizione del codice abrogato diviene altamente significativo considerare che la diversa possibilità di incidenza della prova nuova rispetto al giudicato proietta decisive conseguenze pure sul concetto di prova quale risultante dal precetto del codice 1988. Tanto più che è la stessa (quasi immancabile) complementarità tra prova nuova e prova già valutata ad imporre, soprattutto verificando i modelli proscioglitivi introdotti dal nuovo codice di rito anche in tema di revisione (insufficienza o contraddittorietà della prova dell'esistenza di una condizione di procedibilità, mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato, che il reato è stato commesso da persona non imputabile; dubbio sull'esistenza di una causa di giustificazione o su una causa personale di non punibilità; dubbio sulla esistenza di una causa di estinzione del reato) la soluzione ora rammentata, peraltro sostenuta dalla pressochè unanime dottrina. Una estensione, quella delle formule proscioglitive adottabili, non solo quali regole di giudizio in esito alla c.d. fase rescissoria, ma anche ai fini della prognosi in ordine all'ammissibilità della richiesta, che rappresenta uno degli snodi cruciali oltre che più innovativi della impugnazione straordinaria delineata dal codice del 1988; così, per un verso, da "affievolire" - in presenza delle condizioni stabilite dalla legge per l'instaurazione del giudizio di revisione - la forza di resistenza della sentenza irrevocabile di condanna e, per un altro verso, da operare una sostanziale equiparazione tra le formule proscioglitive, la cui profonda differenziazione quoad effectum riscontrabile nella previgente disciplina aveva provocato numerosi interventi della Corte costituzionale il più significativo dei quali tradottosi nella dichiarazione di illegittimità del combinato disposto degli artt. 203, 553 e 554 c.p.p. 1930, nella parte in cui non consente che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un condannato possa spiegare l'effetto estensivo nei confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per insufficienza di prove (sentenza n. 236 del 1976); una dichiarazione di illegittimità palesemente incompatibile con il vigente sistema nel quale la formula di proscioglimento per prova insufficiente non rappresenta altro che la risultante di una regola di giudizio diretta a collegare, secondo i modelli assiologici delineati dalle norme del libro III del codice, dedicato alle prove, la valutazione degli elementi dimostrativi alla decisione all'esito del giudizio.
11.4. Nonostante apparenti decisive divaricazioni derivanti dal lessico utilizzato dalle sentenze, ulteriori conferme ad una simile linea interpretativa pervengono dalla giurisprudenza.
Talune decisioni hanno rigorosamente discriminato, ai fini del giudizio di ammissibilità, il concetto di prova nuova da quello di elemento di prova, assegnando solo alla prima la capacità di introdurre il procedimento destinato a vincere la forza di resistenza del giudicato.
Scendendo all'analisi delle singole statuizioni e soprattutto alle tipologie di elementi dimostrativi presi in esame, si è affermato che le "prove nuove" idonee a sostenere una richiesta di revisione, non possono consistere nelle dichiarazioni liberatorie di un coimputato, atteso che tali dichiarazioni soggiacciono alle limitazioni valutative dettate dall'art. 192, commi 3 e 4, che attribuisce ad esse la natura di semplici elementi di prova non suscettibili di valutazione autonoma, potendo le stesse essere prese in considerazione solo unitamente ad altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, senza che, a tal fine, occorra, oltre tutto, distinguere tra dichiarazioni liberatorie e dichiarazioni accusatorie (Sez. I, 4 ottobre 2000, Pietrostefani; Sez. I, 2 maggio 1996, D'Agostino); non mancandosi talora di prospettare - anche nell'area del giudizio di ammissibilità della richiesta di revisione e sempre con riferimento alla disposizione dell'art. 192, commi 3 e 4 - l'esistenza nel sistema positivo di una sorta di predeterminazione gerarchica tra prova ed elemento di prova (Sez. I, 8 aprile 1994, D'Agostino).
Sotto un diverso profilo, ed in una corrispondente diversa proiezione semantica, si è aggiunto che la perizia, acquisita in un processo ancora in corso, non va considerata "prova", ma va definita soltanto "mezzo di prova", soggetta a valutazione per divenire tale; si è aggiunto così che essa non può, allo stato, essere utilizzata, in conformità al dettato della lettera c dell'art. 630, quale "prova nuova" idonea all'instaurazione del giudizio di revisione (Sez. I, 28 marzo 1995, Merluso). In una delle non frequenti decisioni aventi ad oggetto sentenze pronunciate in esito a dibattimento, si è ritenuto che, ai sensi dell'art. 630, lettera c, gli elementi in base ai quali può addivenirsi a un giudizio di revisione della sentenza di condanna divenuta irrevocabile devono rientrare nella categoria delle prove, e non soltanto in quella degli elementi probatori; precisandosi - con una forzatura ermeneutica davvero poco comprensibile - che tale distinzione si desume dalla diversa dizione dell'articolo citato, che parla di nuove prove, rispetto a quella dell'art. 631, che indica i meno pregnanti elementi probatori utili a dimostrare, se positivamente accertati, che il condannato deve essere prosciolto, ai meri fini della ammissibilità della richiesta di revisione (Sez. I, 6 aprile 1994, Lauricella).
Altra parte della giurisprudenza si è però orientata nel senso che la genericità delle previsioni normative di cui all'art. 630, lettera c, induce ad escludere dal vaglio di ammissibilità della richiesta di revisione e salva naturalmente l'applicazione, in sede rescissoria, delle norme del giudizio di primo grado, limitazioni correlate alle modalità di acquisizione degli elementi probatori, e a ritenere, quindi, utilizzabili, ai fini della presentazione della richiesta, anche elementi desumibili da indagini difensive espletate a norma dell'art. 38 norme att. (Sez. VI, 13 febbraio 1998, Pittella). Si è pure statuito che, ai fini della delibazione di ammissibilità del giudizio di revisione, le prove dedotte devono essere sopravvenute e, quindi, necessariamente estranee al precedente giudizio di cognizione, ed acquisibili nell'eventuale giudizio di revisione. La valutazione di ammissibilità è, quindi, riferibile anche ad elementi di prova, rilevandone solo l'esistenza e la persuasività e non il procedimento e le forme della loro avvenuta acquisizione (Sez. V, 22 aprile 1997, Cavazza).
Un quadro giurisprudenziale, dunque, solo apparentemente complesso ed articolato. E ciò perchè, nonostante la divergenza del lessico emergente dalle singole statuizioni, talora, peraltro, alquanto suggestivo proprio avendo di mira il disposto dell'art. 192, commi 3 e 4 - che utilizza, appunto, nel definire i riscontri delle c.d. chiamate in correità, l'espressione "elementi di prova", in un assetto teleologico chiaramente predisposto in funzione esclusiva della valutazione della prova - non è tanto la natura così designata di essi a giustificare l'inammissibilità della domanda di revisione, quanto la loro inefficienza dimostrativa - nell'assetto complessivo del tema di prova - rispetto all'esito proscioglitivo voluto dall'art. 630, lettera c.
Va aggiunto, anzi, che secondo la pressochè costante giurisprudenza di questa Corte Suprema - poichè la chiamata in correità non può essere considerata come un elemento estraneo da verificare e, quindi, come un dato estraneo alla prova, da ritenere, certo, non costituita esclusivamente dai riscontri, nè questi possono essere intesi come prove autonome e dirette dai fatti oggetto dell'imputazione (cfr., ex plurimis, Sez. II, 7 dicembre 1993, Alessandrino) - gli "altri elementi di prova" che, ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p., confermano l'attendibilità della dichiarazione, non debbono provare il fatto-reato e la responsabilità dell'imputato, perchè, in tal caso, una simile disposizione risulterebbe del tutto pleonastica; la funzione processuale dei medesimi è, allora, quella di confermare l'attendibilità delle dichiarazioni in questione, così da porsi in posizione subordinata ed accessoria rispetto alla prova chiamata; altrimenti, in presenza di elementi dimostrativi della responsabilità dell'imputato, non "entra in gioco" la regola dell'art. 192, comma 3, bensì la regola generale in tema di pluralità di prove e di libera valutazione di esse da parte del giudice (Sez. II, 28 febbraio 1994, Badioli). Dal che parrebbe conseguire che, nel sistema del codice, le chiamate di correo convergenti, una volta che ciascuna di esse abbia superato il vaglio di attendibilità intrinseca, divengono concorrenti elementi di prova di valenza dimostrativa più accentuata rispetto alla chiamata in correità corroborata da "altri elementi di prova" di natura oggettiva che esplichino esclusivamente una funzione di conferma.
Sembra, dunque, che le antinomie riscontrabili nei sopra descritti tracciati giurisprudenziali divengano meramente apparenti, derivando esse esclusivamente dalla divergenza dei flussi interpretativi ricollegabili ai modelli di valutazione di dichiarazioni su fatti sfavorevoli (ma, quel che qui maggiormente interessa, favorevoli) in ordine alla responsabilità di terzi.
Il tutto, peraltro, in un quadro nell'ambito del quale, a parte le pronunce sopra ricordate, l'uso promiscuo delle espressioni prova ed elemento di prova segnala una significativa prevalenza riscontrabile dalla motivazione della quasi totalità delle pronunce, ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revisione, dell'utilizzazione dell'espressione prova nuova nel senso (forse dommaticamente non ineccepibile, ma inevitabile sul piano applicativo, solo riflettendo sulle risultanze potenzialmente dimostrative derivanti da indagini difensive) di elemento di prova.
D'altro canto, la soppressione delle acquisizioni "ufficiose", da parte del giudice dell'esecuzione, degli elementi di prova, contemplate dall'art. 557, 3° comma, c.p.p. 1930 (che, nel testo vigente prima della sua sostituzione in forza dell'art. 1 della legge 14 maggio 1965, n. 481, attribuiva al detto giudice la potestà di valutare la fondatezza dell'istanza di ammissione di prove nuove), in un contesto normativo certamente meno informato al principio del favor revisionis e la imprescindibile necessità di utilizzare, soprattutto in caso di prove noviter productae, appunto, le indagini difensive, rendono certa l'interpretazione del significato dell'espressione "prove" adottata dall'art. 630, lettera c, nel senso di elementi di prova, in quanto riferibili a un determinato o a determinati temi di prova.
Senza contare - e la problematica può così dirsi definitivamente risolta - che le censure in proposito avanzate soprattutto dall'avv. Cristiani, finiscono esse stesse per dissolvere la valenza della distinzione, solo considerando che, anzichè fondate su una rappresentazione in chiave assiologica della dicotomia prova-elemento di prova e, quindi su un sistema esclusivamente valutativo basato su presupposti canonizzati da specifici giudizi di valore da ricollegare alla astratta tipologia del dato dimostrativo, le censure stesse risultano incentrate sulla concreta capacità di vincere l'accertamento definitivo derivante da una sentenza passata in cosa giudicata. In tal modo sconfinando - sempre in un contesto circoscritto all'ammissibilità della richiesta di revisione - verso l'ulteriore presupposto (ampiamente ridimensionato anche alla luce delle formule proscioglitive di approdo, quali delineate dall'art. 631) costituito dalla potenzialità della domanda a dimostrare che il condannato debba essere prosciolto con una delle formule indicate dalla norma adesso rammentata.
Un principio che era già stato acutamente enunciato da questa Corte nel sistema del codice abrogato e, dunque, nel pieno vigore della regola di "evidenza" (intesa come palese idoneità degli elementi di prova dedotti a fondamento della richiesta a dimostrare che il condannato "deve essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'art. 479") allorchè, proprio a proposito della tematica da ultimo ricordata - ma con precisi riverberi su quella connaturata alla già rammentata dicotomia - ritenne di distinguere il "mezzo" dall'"elemento" di prova, qualificandosi il primo come lo strumento di cui ci si serve per ottenere la dimostrazione del fatto; il secondo, invece, come parte di un tutto (la prova) su cui è destinata a fondarsi la conoscenza del fatto oggetto di dimostrazione. E poichè il mezzo di prova è solo strumentale a realizzare l'acquisizione dell'elemento di prova, l'oggetto della valutazione del giudice non può che essere l'elemento di prova (Sez. I, 30 gennaio 1989, Carlotto). Così ribadendo stratificazioni giurisprudenziali a fortiori riferibili al vigente sistema, nel quale, scomparso il criterio dell'evidenza, il momento contenutistico assume rilievo assolutamente decisivo, ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revisione, a prescindere dalle tipologie conformative della conoscenza del fatto.
Nel caso di specie, poi, proprio la scomparsa del requisito dell'evidenza richiesto dal codice abrogato dispone le censure in proposito sollevate verso una tematica che non attiene tanto alla dicotomia più volte ricordata quanto agli attributi di qualificazione ai fini della ammissibilità della prova, cioè, alla sua novità e, una volta superata una simile verifica, alla potenzialità della prova stessa a realizzare, da sola o insieme alle prove già valutate nel precedente giudizio, i risultati proscioglitivi di cui all'art. 631.
D'altro canto - un rilievo certo non decisivo, ma comunque di alto valore significante - l'argomentazione secondo cui gli "elementi in base ai quali si chiede la revisione", richiamati dall'art. 631, non sono gli elementi di prova, sconta l'obiezione che talune delle regole di giudizio in tema di revisione sono dettate esclusivamente per l'ipotesi prevista dall'art. 630, lettera c. Infatti, mentre i casi contemplati dalle lettere a, b e d dell'art. 630 si riferiscono tutti ad ipotesi in cui prevale, pur nell'ambito del favor innocentiae, il principio di non contraddizione fra i giudicati, l'ipotesi della prova nuova tende esclusivamente a riparare all'errore giudiziario.
12. Nell'intraprendere l'esame del contrasto interpretativo che ha costituito uno dei motivi dell'assegnazione del ricorso alle Sezioni unite, appare necessario, pure per dar conto delle ragioni di quel falvor revisionis che ha assunto valore davvero esponenziale (anche oltre i limiti del generale favor impugnationis) nella disciplina dell'istituto nel nuovo codice, individuare il fondamento di tale mezzo di impugnazione.
Una delle più penetranti indagini giurisprudenziali sull'argomento ha ravvisato al fondo della normativa sulla revisione il conflitto tra esigenze di natura formale ed esigenze di giustizia sostanziale, che, nella tensione dialettica finalizzata alla ricerca della verità, accompagna l'intero corso del processo e ne segue i passaggi più salienti. Una puntualizzazione, quella ora ricordata, che si ricollega proprio al fondamento del giudicato, derivante dalla necessità di fissare definitivamente l'accertamento giudiziale e di cristallizzare su determinati risultati la ricerca della verità compiuta nel processo, solo constatando che, nelle vicende umane, il vero e il giusto possono essere rimessi sempre in discussione e che esiste un momento in cui la dinamica processuale deve comunque arrestarsi e cedere il posto all'esigenza di certezza e di stabilità delle decisioni giurisdizionali quali fonti regolatrici di relazioni giuridiche e sociali.
Mutuando dalla più autorevole dottrina, si è così affermato che la base giustificativa della res iudicata non è di ordine teorico ma di natura eminentemente pratica. Da tale peculiare carattere scaturisce che l'ordinamento, con precise scelte di politica legislativa, ben può sacrificare il valore del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l'espressione di valori superiori. E, rispetto alla regola della intangibilità del giudicato, uno dei valori fondamentali, cui la legge attribuisce priorità è costituito proprio dalla necessità dell'eliminazione dell'errore giudiziario, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pratica - quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti - per impedire la riapertura del processo allorchè sia riscontrata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario e dell'ingiustizia della sentenza irrevocabile di condanna. Di qui il richiamo, quanto mai significativo, alla disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 24 della Costituzione, che - come è stato espressamente riconosciuto dalla Corte costituzionale con riferimento all'assetto normativo disciplinato dal codice abrogato - riflette il principio di giustizia sostanziale rispondente alla "esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente, nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità" (sentenza n. 28 del 1969). Non mancandosi di rimarcare come in tale medesima prospettiva si sia collocata la giurisprudenza di legittimità che identifica la precipua funzione della revisione nella necessità di sacrificare il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale; così da ribadire che essa non è ricollegabile tanto all'interesse del singolo ma piuttosto all'interesse pubblico e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia sostanziale sulla giustizia formale. Viene in tal modo evidenziato - un argomento la cui significatività è stata già segnalata da queste Sezioni unite nell'affrontare la tematica concernente, ai fini della revisione, la distinzione tra prova ed elemento di prova - come nel codice vigente la predetta funzione risulti notevolmente rafforzata e ampliata considerando che l'art. 631 stabilisce - a differenza di quanto previsto dagli artt. 554, n. 3, 555 e 566, comma 2, del codice del 1930 - che la revisione è ammessa anche se l'esito del giudizio possa condurre al proscioglimento per insufficienza di prove. Ciò in forza sia del "trasparente tenore letterale dell'art. 631, che esplicitamente richiama tutte le formule di proscioglimento prefigurate dall'art. 530, compresa quella di cui al secondo comma (assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova), sia" delle puntuali indicazioni contenute nella Relazione al progetto preliminare (p. 137), sia, infine", delle "espresse posizioni assunte dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 311 del 1991)". E'proprio la specifica funzione di superamento del giudicato, da cui consegue il carattere straordinario dell'impugnazione per revisione, a spiegare i precisi limiti posti dalla legge processuale, la cui ratio è quella di realizzare un equilibrato bilanciamento tra opposti interessi mediante soluzioni normative dalle quali traspare che "la revisione è necessariamente subordinata a condizioni, limitazioni e cautele, nell'intento di contemperarne le finalità con l'interesse fondamentale in ogni ordinamento alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all'intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato" (sentenza costituzionale n. 28 del 1969). Il compito essenziale dell'interprete consiste, perciò, nel porre in luce i termini di tale bilanciamento e nel ricostruire le linee portanti della normativa vigente, solo riflettendo che queste ultime sottendono precise scelte di valore tra gli interessi in conflitto, tradottesi nelle particolari configurazioni attribuite alle forme del procedimento e, soprattutto, nell'elencazione tassativa dei casi che autorizzano la presentazione della richiesta di revisione: a quest'ultimo riguardo - si aggiunge - deve osservarsi che essi rappresentano la tipicizzazione legale di specifiche situazioni alle quali lo stesso ordinamento collega la probabilità di una condanna ingiusta e implicano il perentorio divieto di dissolvere ab intrinseco - in mancanza di nuovi elementi rimasti estranei ai precedenti giudizi - l'efficacia formale e sostanziale del giudicato sulla base di una diversa valutazione delle identiche prove esaminate nella sentenza divenuta irrevocabile (Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi).
Una statuizione, quella ora ricordata, pienamente da condividere solo considerando che, sin dagli albori degli interventi della Corte costituzionale sull'art. 24, quarto comma, della Costituzione, è apparso subito chiaro come tale norma, nel demandare al legislatore la disciplina della riparazione degli errori giudiziari, non può non prescrivergli implicitamente anche di prevedere i mezzi di accertamento di tali errori, conseguentemente costituzionalizzando pure l'istituto della revisione delle decisioni penali di condanna.
Con la sentenza n. 1 del 1969 la Corte ebbe, infatti, a puntualizzare come l'art. 24, quarto comma, della Costituzione enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale, da ricollegare direttamente, quale suo coerente sviluppo, al più generale principio di tutela dei "diritti inviolabili dell'uomo", assunti in Costituzione "tra quelli che stanno a fondamento dell'intero ordinamento repubblicano, e specificantesi a sua volta nelle garanzie costituzionalmente apprestate ai singoli diritti individuali di libertà, ed, anzi tutto, e con più spiccata accentuazione, a quelli tra essi che sono immediata e diretta espressione della personalità umana"; così rimarcando la funzione innovatrice della disposizione in parola "rispetto alla preesistente legislazione italiana, nella quale tale riparazione finiva per ridursi alla sola revisione della sentenza irrevocabile di condanna, posteriormente riconosciuta ingiusta, cui poteva tutt'al più accompagnarsi in una ristretta serie di casi (che neppure coprivano l'intera area delle ipotesi di revisione), una ‘riparazione pecuniaria a titolo di soccorso'".
12.1. Non può, inoltre, trascurarsi - a sostegno di un sistema informato, in attuazione del più volte richiamato precetto costituzionale, al principio del favor revisionis - come nel sistema del nuovo codice, i rimedi revocatori del giudicato siano stati consistentemente dilatati.
A parte la facoltà di attivazione e individuazione della pena contemplate dall'art. 657, comma 3, va considerato il precetto dell'art. 673 - di valenza così esponenziale da precludere anche la, altrimenti necessaria, pronuncia di inammissibilità, per l'inidoneità dell'impugnazione ad accedere alla fase relativa (cfr. Sez. un., 22 novembre 2000, De Luca) - che, prevedendo la revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis ovvero per dichiarazione di illegittimità costituzionale della noma incriminatrice, rappresenta una delle più decise innovazioni - soprattutto nel caso di abrogazione del reato - rispetto al precedente assetto normativo; più in particolare, oltre che con riferimento alle prescrizioni dell'art. 2, 2° comma, c.p., anche con riguardo alla regola generale dell'intangibilità del giudicato. Si legittima, infatti, l'attivazione del procedimento di esecuzione per conseguire una decisione ampiamente proscioglitiva (cfr. la sentenza costituzionale n. 96 del 1996). Valore altrettanto significativo pare derivare, in proposito, dall'art. 671 che, per i casi di concorso formale e di continuazione, consente la riduzione della pena irrogata purchè nè concorso formale nè continuazione siano stati esclusi nel giudizio di cognizione.
Un sistema, dunque, di strumenti (totalmente o parzialmente) revocatori del giudicato di cui si sono ricordati soltanto gli istituti più significativi, che consente di collocare l'irrevocabilità della sentenza in numerosi casi condizionato dall'esigenza di una pronta affermazione di una pronuncia di favore, anche oltre i limiti della sopravvenienza di precetti che estirpino (o ridimensionino) il disvalore del fatto in ordine al quale è intervenuta condanna definitiva.
12.2. Su un altro versante, quello relativo alla c.d. pregiudizialità penale, il sistema appare diretto a rafforzare gli strumenti di incidenza sul giudicato, proprio entro l'ambito dell'istituto della revisione, pure se con riguardo a "casi", almeno di norma, non direttamente riferibili a quello previsto dall'art. 630, lettera c, ma - come di vedrà - in talune ipotesi in larga misura interagenti con il precetto adesso ricordato.
Nel vigore del codice del 1930, costituendo la pregiudizialità di cui all'art. 18 nulla più che una forma qualificata di connessione (donde il carattere del tutto residuale della soprassessoria), il collegamento da istituire tra le regiudicande restava decisamente svincolato dalla sospensione del processo, profilandosi il fenomeno come diretto a prevenire la possibilità dell'insorgere di antinomie nel sistema. Antinomie non meramente apparenti, potendo diversamente giustificarsi un contrasto di giudicati nell'ambitro dei rapporti tra giudicato penale e giudicato civile (o amministrativo) tutte le volte in cui l'antinomia (qui davvero solo apparente) derivasse dalla necessità di proteggere posizioni giuridiche costituzionalmente presidiate.
L'assenza di ogni efficacia vincolante della decisione pregiudiziale veniva ricavata dalla mancanza nell'art. 21 c.p.p. 1930 di ogni riferimento alla sentenza penale e dalla possibilità di utilizzare proprio l'istituto della revisione nel caso di contraddittorietà tra la decisione sul procedimento pregiudiziale e la decisione sul procedimento pregiudicato: una soluzione, peraltro, di dubbio rigore giacchè l'esperibilità della revisione sembrerebbe proprio confermare l'efficacia vincolante della sentenza irrevocabile pronunciata sulla questione pregiudiziale; tanto più che, ove nessun effetto dovesse derivare dalla sospensione del processo pregiudicato, un simile strumento si sarebbe rivelato davvero esorbitante rispetto al risultato conseguibile mediante la sua utilizzazione.
In effetti, però, non soltanto il momento applicativo della pregiudizialità penale, ma anche l'esigenza logica alla base di tale rapporto - la creazione, cioè, di uno strumento volto a precludere ogni conflitto teorico fra giudicati - sembra incentrarsi nonostante l'assenza sul punto di ogni previsione nell'art. 21 c.p.p. 1930, nella nozione di giudicato che resta, in certo senso, la chiave per comprendere la stessa utilizzazione della soprassessoria penale. E ciò anche quando si afferma che, trovando giustificazione il "rinvio" previsto dall'art. 18 in un rapporto di necessaria dipendenza logica tra i procedimenti, la stasi della questione principale deve comportare, quanto meno, per il giudice di quest'ultima la possibilità di utilizzare l'assetto probatorio già vagliato dal giudice del primo, con l'obbligo di motivare il suo contrario avviso rispetto alla decisione pregiudiziale.
Nonostante le non sempre chiare conclusioni ricavabili, in proposito, dall'esame della dottrina e della giurisprudenza, il sistema congegnato dall'art. 18 c.p.p. 1930 rivela una intrinseca ragionevolezza. Nulla disponendosi circa l'efficacia nel processo principale della sentenza che avesse deciso, dopo la sospensione del processo "pregiudicato", una questione a questo pregiudiziale, si veniva a ribadire una regola di principio anch'essa codificata: che, cioè, la cosa giudicata si forma non sull'accertamento, ma esclusivamente sul decisum (art. 90 c.p.p. 1930). Pure se non va trascurato che le linee interpretative da ultimo ricordate paiono svalutare l'aspetto tipico del giudicato "esterno" - coincidente con il vincolo ultra rem - per riproporre, riducendone l'efficacia, la soluzione, di evidente matrice dogmatica, che, a tali fini, configura (davvero significativamente, ove si considerino gli approdi cui sarebbe pervenuto il c.p.p. 1988) la sentenza irrevocabile come mezzo di prova.
In realtà, il non avere assegnato forza vincolante alla decisione pronunciata del procedimento pregiudiziale rappresenta la logica conseguenza della necessità di demandare l'accertamento della questione principale alla cognizione del giudice della relativa causa, con la previsione, però, di una verifica di conformità fra le rispettive regiudicande che, postulando una ricognizione dell'accertamento compiuto nel procedimento pregiudiziale, venisse affidata, in via esclusiva, al giudice del procedimento pregiudicato.
Il tutto proprio per impedire che il giudice della causa principale potesse decidere incidenter tantum una questione già devoluta (o devolvibile) alla cognizione del giudice del procedimento pregiudiziale, derivandone altrimenti un'efficacia eccedente dagli schemi dell'art. 90 c.p.p. 1930, per formarsi il giudicato sul decisum e non sull'accertamento dei fatti.
L'avere "storicizzato" il fenomeno della pregiudizialità penale rende ora più agevole - ai fini che qui direttamente interessano - l'esame dell'assetto predisposto dal codice 1988.
Come risulta confermato dalla rimozione dal lessico normativo dell'espressione "pregiudizialità penale", nonchè dal ruolo di autonomo criterio di determinazione della competenza assegnato all'istituto della connessione, il panorama introdotto sul tema dal nuovo codice di procedura penale appare profondamente diverso dalle previsioni dell'abrogato codice di rito.
La pregiudizialità penale trova così la sua disciplina (ovvero il riconoscimento della sua irrilevanza) nell'art. 2 il quale prescrive, per un verso, che il giudice penale, salvo che sia diversamente stabilito, risolve ogni questione da cui dipende la decisione (comma 1) e, per un altro verso, che la decisione del giudice penale che risolve incidentalmente una questione (anche penale) non ha efficacia in nessun altro processo.
Dalla lettura di tali disposizioni emerge, dunque, un vero e proprio capovolgimento di regime, rispetto alle previsioni del codice abrogato, dell'intera disciplina dei rapporti pregiudizialità penale-giudicato e degli effetti della decisione sulla questione pregiudiziale.
A parte la soppressione dell'istituto della sospensione del processo, la novità di maggior rilievo sembra esprimersi nel superamento di una normazione dalla quale scaturiva l'esclusione per il giudice penale del potere di decidere incidentalmente la questione penale pregiudiziale (un potere, invece, conferitogli con riferimento alle pregiudiziali civili o amministrative, con la sola eccezione della pregiudiziale di stato), restando come uniche vie da percorrere o il simultaneus processus ovvero la sospensione del processo penale sulla questione pregiudicata fino al passaggio in giudicato della sentenza che ha deciso sulla questione pregiudiziale.
L'assoluta refrattarietà della rilevanza di questioni pregiudiziali penali trova, poi, una significativa conferma nel precetto dell'art. 479 che consente la sospensione del processo per pregiudizialità solo per il caso di controversie civili o amministrative e non anche per le ipotesi di pregiudizialità penale.
La scomparsa della pregiudizialità omogenea dal sistema del nuovo codice di rito si pone, dunque, in linea con la tendenza al favor separationis che caratterizza l'assetto complessivo del codice del 1988 e risulta avvalorata dalla drastica riduzione delle ipotesi di soprassessoria giudiziale anche nella materia extra penale.
Ed è agevole comprendere come, una volta esautorati quei modelli processuali in grado - almeno virtualmente - di prevenire le antinomie, ogni potenzialità di vincere il conflitto logico tra giudicati resta affidata alla fase del post giudicato, attraverso una maggiore possibilità di utilizzazione - ancora una volta in omaggio al principio del favor revisionis - dell'impugnazione straordinaria.
Una regola che trova conferma nel vigente rapporto tra c.d. pregiudizialità eterogenea ed istituto della revisione, solo confrontando gli artt. 19, 20, 21 e 554, n. 2 c.p.p. 1930, da un lato, e gli artt. 2, 3 e 630 del codice vigente, dall'altro.
12.3. Ma, quel che più importa, al regime dell'accertamento incidentale del giudice penale deroga proprio il sistema dei "casi" di revisione volti a comporre il conflitto logico fra giudicati. Una constatazione che parrebbe l'ovvia conseguenza di un mezzo di impugnazione che presuppone la proposizione di una richiesta volta a rimuovere una decisione definitiva. Sennonchè in taluni casi - non iscrivibili, peraltro, nella nozione di pregiudizialità in senso tecnico - un potere di accertamento incidentale compete anche al giudice della revisione, una volta che la resistenza della decisione di condanna debba essere vagliata pure verificando le effettive antinomie ricavabili da essa, ove agli elementi utilizzati per superare il giudicato fondati sulla prospettazione di nuove prove, si aggiunga, a corollario, la rilevanza di un fatto estraneo all'addebito scrutinato nel giudizio di cognizione e che coinvolga soggetti che in tale giudizio non avevano assunto la qualità di imputato. Sintomatica la previsione dell'art. 630, lettera d, che annovera tra i casi di revisione quello in cui sia "dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato". Un caso che, se legittima la richiesta di revisione solo nell'ipotesi di accertamento con efficacia di giudicato del fatto del terzo costituente reato, non preclude al giudice della revisione - con singolare ma inevitabile interferenza con la previsione di cui all'art. 630, lettera c - di delibare incidentalmente, sia in sede di ammissibilità della prova sia in sede di giudizio rescissorio, in ordine alla mera ipotizzabilità della sussistenza di elementi per procedere nei confronti del terzo autore del falso giudiziale (o di altro reato), pur rimanendo un simile assetto accusatorio tutto intrinseco alla sentenza di revisione.
13.1. Nell'analizzare il contrasto giurisprudenziale circa il concetto di "prova nuova" ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revisione si rende necessario, ancora una volta, "storicizzare" gli approdi ai quali questa Corte Suprema è pervenuta, pure considerando le sequenze interpretative che hanno designato la giurisprudenza nel vigore del codice di procedura penale del 1930.
Per restare alle sequenze più recenti, il punto di partenza può essere rappresentato da una decisione delle Sezioni unite (Sez. un., 26 febbraio 1988, Macinanti) che, in epoca prossima allo spirare dell'abrogato codice di rito, in presenza, peraltro, di una disposizione, quella dell'art. 554, n. 3, in base alla quale "se dopo la condanna sono sopravvenuti o si scoprono nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il condannato deve essere assolto ai sensi della prima parte o del primo capoverso dell'art. 479", ebbero a distinguere nella nozione di giudicato due diversi concetti. L'uno che designa la definitività, l'irrevocabilità di quanto deciso, l'altro il tema, la materia del giudizio conclusosi con decisione irrevocabile. La conseguenza è una nozione di giudicato che non coincide con la nozione di decisione irrevocabile ma implica una statuizione adottata all'esito di un processo su una determinata fattispecie. La statuizione assume valore ampiamente significante perchè conduce, ancora una volta, ad individuare il punto di rilevanza interpretativa dell'istituto stesso della revisione, non mancandosi di precisare che, se tale istituto presuppone un giudicato, "esso non è diretto a contraddirlo, a negarne la validità, a negarne la correttezza in quanto atto conclusivo di ‘quel giudizio', del giudizio conclusosi con la decisione adottata".
Le Sezioni unite, dunque, mentre hanno di mira la salvaguardia del rigore formale della decisione, anche se essa ha dato vita all'errore giudiziario, rendono chiaro come un simile rigore ha la sua fonte esclusiva nella definitività dell'accertamento che la finalità pratica che ne è alla base impone di rendere incontrovertibile, sottraendolo ad ogni mezzo di impugnazione diverso dalla revisione.
Al contempo, il sistema a "procedimento di revisione" giustifica l'assoluta compatibilità dell'esclusione dal catalogo di "casi" previsti dall'art. 554 c.p.p. 1930 (ora dall'art. 630) di ipotesi di violazioni, anche macroscopiche, di norme processuali. Pure se - sembra necessario ricordarlo - è talora proprio dalla violazione di una simile tipologia di precetti e cioè delle regole che disciplinano il procedimento probatorio, fra le quali rientrano anche quelle concernenti la valutazione della prova (certo, soltanto nella chiave riduttiva che sarà più avanti analizzata) che può scaturire un'erronea affermazione di responsabilità che il legislatore ha il compito costituzionalmente imposto ed in parte anche obbligato, di riparare, predisponendo i meccanismi adeguati a rimuovere quella statuizione.
Si spiega in tale quadro la rigidità degli enunciati espressi dalle Sezioni unite e che si traducono nell'affermazione che il giudizio di revisione è diretto a far sì "che al giudicato sia sostituita una nuova, diversa pronuncia all'esito di un nuovo, diverso giudizio"; e, conseguentemente, che tale mezzo di impugnazione deve fondarsi su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo conclusosi con il giudizio precedente." Il giudicato, si afferma ancora, "copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile"; cosicchè la revisione "per poter essere ammessa, deve dar luogo ad un nuovo, diverso processo (iudicium rescissorium)." La decisione deve, dunque, fondarsi su elementi propri del nuovo processo, non su quelli del processo precedente, definitivamente conclusosi. Il giudizio di revisione, in quanto fondato sui medesimi elementi processuali, non sarebbe un nuovo giudizio, non sarebbe un mezzo straordinario di impugnazione, ma diverrebbe la prosecuzione del medesimo giudizio, con una dilatazione processuale non prevista, anzi, non consentita, dall'ordinamento vigente. Di qui la conclusione - mai però divenuta un motivo talmente ricorrente nelle statuizioni di questa Corte da rappresentare l'espressione di un vero e proprio diritto vivente - che occorre differenziare il procedimento di revisione, mezzo straordinario di impugnazione, solo in quanto consentito dopo il giudicato, e nonostante il giudicato, da una mera impugnazione tardiva, che consentirebbe di dedurre, in ogni tempo, "ciò che, nel processo definitivamente concluso, non era stato rilevato o non era stato dedotto, nonostante che già sussistessero, nel processo, tutti gli elementi da porre a base della deduzione stessa" (Sez. un., 26 febbraio 1988, Macinanti).
Non ci si può esimere però dal rilevare che, col richiamo al "dedotto ed al deducibile", ci si pone in un'ottica proiettata più alla fisionomia dogmatica del giudicato che alla sua intrinseca potenzialità a divenire - in presenza di una richiesta di revisione - momento sintomatico di una condanna che potrebbe essere ingiusta; e ciò non in base a valutazioni metagiuridiche, ma secondo modelli canonizzati dalla stessa disciplina codicistica ed entro un quadro, oltre tutto, estraneo - anche per la derivazione della regola, talora utilizzata con finalità esorbitanti per il suo inscindibile, esclusivo collegamento con il principio ne bis in idem - all'istituto della revisione. Senza contare che resterebbe comunque ai margini l'ineludibile constatazione che la funzione esclusiva, costituzionalmente tutelata, di un simile mezzo di impugnazione, è, almeno per l'ipotesi prevista dall'art. 630, lettera c, la riparazione dell'errore giudiziario.
Ma, quel che più rileva, soltanto due aspetti, che non incidono, se non parzialmente sul concetto di novità della prova, paiono enucleati dalla statuizione adesso esaminata.
Il primo concerne la regola di giudizio da adottare all'esito della fase rescissoria e che risultava espressa dall'art. 566, 1° comma (che ha il suo omologo nell'art. 637, comma 3, c.p.p. 1988) in base al quale il giudice non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio ed è profilo non coincidente con la regola della novità della prova quale requisito che, una volta valutato positivamente, consente l'accesso al giudizio di revisione.
Il secondo riguarda il tema della deducibilità della prova che avrebbe potuto dedursi e non è stata dedotta; ma è evidente che si tratta di una problematica - anche per le ragioni sopra accennate - non assolutamente omologa al concetto di novità della prova, trovando essa, questa volta sì, la sua base nella capacità dell'istanza ad accedere al giudizio di revisione, in un contesto che restituisca a questo mezzo straordinario di impugnazione la idoneità ad instaurare il nuovo processo e sempre avendo riferimento proprio alle modalità del procedimento probatorio, ancora una volta, secondo criteri che allontanino il dubbio che, con la revisione, venga concretamente a celebrarsi (un principio profondamente diverso da quello prima enunciato) un ulteriore grado di giudizio.
13.2. Per il momento è sufficiente rammentare come, sempre nel vigore dell'abrogato codice di rito, a meno di un anno di distanza, le premesse e l'intero ordito della sentenza delle Sezioni unite siano stati ribaltati da una decisione che, nell'evidenziare lo sforzo di ridimensionare la nozione di giudicato di fronte al pericolo che non venga dato accesso alla possibilità di rimuovere, per malintese ragioni di ordine formale, una condanna caratterizzata da una potenziale ingiustizia, proprio seguendo i "casi" canonizzati dall'art. 554, n. 3, ha precisato che se la motivazione della sentenza, che rappresenta la manifestazione esterna del libero convincimento del giudice, risulta fondata su un elemento di fatto acquisito e valutato solo parzialmente, quest'ultimo, per la parte non esaminata, deve considerarsi rimasto estraneo al giudizio e, in quanto tale, noviter productum, ove dedotto a fondamento della domanda di revisione (Sez. I, 30 gennaio 1989, Carlotto).
13.3. Nonostante la situazione di contrasto riemergesse proprio in prossimità dell'abrogazione del codice del 1930, la medesima linea interpretativa seguita dalle Sezioni unite è stata, peraltro acriticamente, battuta da questa Corte nella sua massima composizione nella prima decisione in tema di revisione pronunciata nel regime del nuovo codice di rito, allorchè si è affermato che deve escludersi che la disciplina dell'istituto prevista dal c.p.p. 1988 consenta di rilevare cause di estinzione del reato già risultanti dagli atti e "sfuggite" al controllo della Corte di cassazione, non potendosi intendere la "novità" della prova diretta a dimostrare la causa estintiva nel senso di ricomprendere anche gli elementi probatori già acquisiti agli atti ma non valutati dal giudice prima del giudicato; infatti, si ribadisce, l'istituto della revisione è diretto a che al giudicato sia sostituita una nuova diversa pronuncia all'esito del diverso giudizio, ma perchè il giudizio sia "nuovo", esso deve necessariamente fondarsi su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo conclusosi con il giudizio precedente (Sez. un., 11 maggio 1993, Ligresti).
Come è agevole rilevare, dalla pronuncia ora riportata emergono due fondamentali divaricazioni interpretative: per la prima non può considerarsi prova nuova la prova non acquisita nel processo di cognizione; per la seconda, è prova nuova tanto quella che non sia stata acquisita (e, dunque neppure valutata) in sede cognitoria tanto quella che in tale giudizio, anche se acquisita, non sia stata valutata dal giudice; ferme restando ulteriori divergenze, a seconda che la mancata acquisizione o la mancata valutazione sia imputabile o no alle parti.
L'indagine sui predetti tracciati giurisprudenziali deve essere allora particolarmente accurata, ai fini della scelta interpretativa cui queste Sezioni unite dovranno pervenire, per sondare le ragioni dell'una e dell'altra linea ermeneutica, talora condizionate, non soltanto dalle vicende concrete del processo di cognizione, ma anche, e soprattutto, dalla tipologia delle singole prove dedotte come nuove.
13.4. La linea maggiormente restrittiva, aperta dalla decisione delle Sezioni unite adesso rammentata, è quella seguita da talune pronunce per le quali solo la prova non acquisita nel processo di cognizione può qualificarsi idonea, in quanto prova nuova, ad introdurre il giudizio di revisione.
Seguendo le successioni temporali delle singole pronunce non è difficile riscontrare come i primi approdi interpretativi si limitino al richiamo alla sentenza Ligresti, ribadendosi che, poichè l'istituto della revisione è diretto a che al giudicato sia sostituita una nuova e diversa pronuncia, all'esito di un nuovo, diverso giudizio, e poichè anche quest'ultimo deve essere nuovo, esso va necessariamente fondato su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo precedente; pur riconoscendosi che è da considerare prova nuova anche quella che, esistente al tempo del giudizio, non sia stata portata a conoscenza del giudice; il tutto con un'interessante precisazione: che, cioè, ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revisione, deve prescindersi dall'imputabilità della mancata acquisizione alla negligenza della parte interessata (Sez. III, 23 febbraio 1994, Valsecchi); un argomento - come si vedrà - davvero "trasversale" rispetto alle divergenze sulle tematiche di base.
Altre volte il concetto di prova nuova pare sovrapporsi a quello della novità del tema di indagine (o, forse, più correttamente, del tema di prova); affermandosi l'irrilevanza di un tema così designato nel processo conclusosi con il giudizio precedente, tanto più se detta irrilevanza sia stata oggetto di impugnazione e, quindi, della successiva decisione passata in giudicato (Sez. VI, 2 maggio 1995, Di Salvo).
Ancor più perentoriamente si è escluso che nella nozione di "novità" della prova possano essere ricompresi elementi probatori già acquisiti agli atti, ma non valutati dal giudice prima del giudicato; l'istituto della revisione, infatti, si ribadisce, è diretto a che al giudicato sia sostituita una nuova e diversa pronuncia, all'esito di nuovo e diverso giudizio e, perchè il giudizio sia nuovo esso deve necessariamente fondarsi su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo precedente. E se è pur vero, prosegue la decisione - manifestando così una qualche incongruità nell'approccio alle specifiche situazioni di fatto, introducendo, inoltre, una non proprio rigorosa giustapposizione tra "novità" e "diversità" della prova (cfr. l'art. 630, lettera c, con l'art. 637, comma 3) - che la prova deve considerarsi nuova quando, pur esistendo all'epoca del giudizio di cognizione, non sia stata portata a conoscenza del giudice, è pure vero che se questi l'abbia conosciuta dandone una valutazione anche parziale, nel senso della legittima scelta degli elementi di sostegno della motivazione, non è possibile una sua riconsiderazione, perchè verrebbe pur sempre a mancare il carattere della novità. Una decisione, dunque, in cui l'ordito motivazionale appare, pure qui, oscillante, anche se nel sincretismo utilizzato nella valutazione della novità della prova, un dato emerge con particolare nitidezza dall'affermazione che una prova, pure se solo parzialmente valutata, è comunque una prova valutata, non iscrivibile, come tale, nella categoria delle prove nuove (Sez. I, 21 gennaio 1995, Ciancabilla).
Un puntuale allineamento alla sentenza Ligresti si avverte in un'altra decisione che, sempre riproponendo il leit motiv secondo cui la revisione non ha ad oggetto un riesame critico della sentenza passata in giudicato, ma è diretta a sostituire la pronuncia irrevocabile con una decisione emessa a seguito di un nuovo giudizio, che deve necessariamente fondarsi su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel precedente processo, perchè, se così non fosse, la revisione si risolverebbe inevitabilmente in una impugnazione tardiva, ha concluso nel senso che le nuove prove, ai fini previsti dall'art. 630, lettera C, non possono che essere costituite da elementi estranei e diversi da quelli del processo definito con la sentenza irrevocabile; con la conseguenza che non è ammissibile la revisione fondata su elementi già esistenti negli atti processuali che, per mancata deduzione o per omesso esercizio dei poteri di ufficio, non furono conosciuti o valutati dal giudice. Peraltro è significativo constatare come l'effettiva ratio decidendi che ha determinato la Corte a rigettare il ricorso avverso il provvedimento con il quale era stata dichiarata inammissibile la richiesta di revisione è nella constatazione della sostanziale inidoneità degli elementi di prova addotti dal ricorrente a vincere la resistenza del giudicato, profilandosi i detti elementi, dunque, come irrilevanti al fine di instaurare il giudizio di revisione (Sez. I, 30 gennaio 1997, Morabito); così, ancora una volta, evidenziando i sintomi di una qualche incertezza, non infrequente negli enunciati giurisprudenziali - e non soltanto per ragioni linguistiche - nel tracciare un'esatta linea di demarcazione fra novità e rilevanza della prova.
Con chiaro, ulteriore allineamento al decisum della sentenza Ligresti, si è escluso che la disciplina della revisione consenta di rilevare cause di estinzione del reato risultanti dagli atti e "sfuggite" al controllo del giudice, non potendo la "novità" della prova essere individuata in alcun elemento già acquisito agli atti, valutabile di ufficio e non tenuto in considerazione dal giudice prima del verificarsi dell'effetto del giudicato; ciò sempre facendo richiamo alla regola per la quale l'istituto della revisione è diretto a che al giudicato sia sostituita una nuova, diversa pronuncia, all'esito di un nuovo giudizio fondato su elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo conclusosi con il giudizio precedente (Sez. III, 4 luglio 1997, Rossi).
Al dedotto ed al deducibile come preclusione derivante dal giudicato si richiama una più recente sentenza, nella quale si è affermato che l'efficacia risolutiva del giudicato non può avere come presupposto una diversa valutazione del dedotto o un'inedita disamina del deducibile, bensì deve essere fondato sull'emergenza di nuovi elementi estranei e diversi da quelli del definito processo (Sez. II, 2 dicembre 1998, Lucidi).
Una ricostruzione ermeneutica di più ampio respiro è stata tentata allorchè, dopo essersi correttamente definita la revisione mezzo non eccezionale ma soltanto straordinario di impugnazione, nel coniugare il testo della disposizione che prevede la revisione di cui all'art. 630, lettera C, con gli approdi giurisprudenziali di diverso avviso, si è sottolineato come la norma adesso ricordata ha enucleato soltanto due specifiche categorie in relazione alle quali la prova è da qualificarsi "nuova", categorie non suscettibili di analogia o di interpretazione estensiva e rappresentate dalle fattispecie in cui la prova sia "sopravvenuta" ovvero sia "scoperta", per tale intendendosi "l'inatteso incontro tra una cosa di cui l'esistenza non è a costei nota e la persona fisica che per la prima volta ne ha la percezione". Solo in tale ambito che, per giunta, il richiedente ha l'onere di documentare, è pienamente applicabile il principio secondo cui non rileva la causa della mancata scoperta al tempo del procedimento, neppure quando essa sia addebitabile all'imputato e dipenda da errore, negligenza o semplice inerzia da parte di costui. Una diversa interpretazione, infatti, renderebbe del tutto priva di senso giuridico la peculiare e razionale enucleazione delle due categorie sostanzialmente equiparabili, sostituendola con la generica previsione che nuova debba ritenersi qualsiasi prova non valutata nel precedente giudizio di condanna; il che trasformerebbe l'istituto in uno strumento volto a consentire la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale al di fuori dei limiti indicati dall'art. 603, il quale significativamente postula e ribadisce che le nuove prove devono essere "sopravvenute" o "scoperte" dopo il giudizio di primo grado (Sez. III, 25 novembre 1998, Guareschi Marusi). Il che, peraltro, appare la risultante della utilizzazione di un modello di raffronto non proprio rigoroso, perchè frutto della comparazione fra istituti profondamente diversificati tanto sul piano strutturale tanto sul piano teleologico, non foss'altro per il contenuto dell'indagine verificatoria demandata al giudizio di ammissibilità della revisione che, oltre a richiedere il vaglio della capacità di resistenza di una condanna passata in cosa giudicata, postula l'emergenza di processi cognitivi diversi, e ben più complessi ed articolati, rispetto al canone indicato dall'art. 603, comma 2.
Sulla medesima linea "restrittiva", si è, infine, precisato - ancor più di recente, a conferma dell'immanenza di un grave contrasto giurisprudenziale sul punto - che per "prove nuove" devono intendersi le prove costituite da elementi estranei e diversi rispetto a quelli del processo definito con la sentenza irrevocabile, sicchè non è ammissibile la richiesta di revisione fondata su elementi già esistenti negli atti processuali, ma eventualmente non valutati dal giudice (Sez. V, 6 maggio 1999, Percoco).
La silloge giurisprudenziale sopra riportata fa subito comprendere come le forti perplessità sulla correttezza giuridica della linea interpretativa adesso ricordata derivino, anzi tutto, dalla considerazione che il dibattito, che pure era stato particolarmente acceso nel vigore del codice del 1930, circa la nozione di novità degli elementi di prova, sia stato, in effetti, trascurato, nonostante i mutamenti del lessico legislativo nella definizione della nozione di nuova prova, soprattutto con riguardo al contributo derivante dall'ampliamento delle formule proscioglitive condizionanti l'accesso al giudizio di revisione. Donde la necessità di un approfondito esame del contrapposto versante giurisprudenziale.
13.5. Appare significativo rammentare come, prima ancora della sentenza Ligresti, la giurisprudenza avesse già battuto una diversa strada nella definizione del concetto di novità della prova, subito osservando che, poichè il favor revisionis rilevabile dal contesto complessivo dell'art. 630, lettera C, una norma che non richiede più che le nuove prove debbano rendere "evidente" che il condannato deve essere assolto, ma semplicemente che siano idonee a condurre ad una simile conclusione, prove nuove sono anche quelle che non sono state conosciute e apprezzate dal giudice, perchè tali prove, lungi dal consentire una inammissibile rivalutazione delle acquisizioni probatorie del giudizio di cognizione, concorreranno alla dimostrazione della innocenza dell'imputato insieme alle prove già valutate (Sez. I, 20 gennaio 1992, Castaldo). Una linea proseguita da numerose pronunce le quali hanno osservato che il fenomeno della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove si realizza quando ci si trovi in presenza di elementi che, per qualsiasi ragione, non abbiano formato oggetto di valutazione da parte dei giudici e che, qualora apprezzati, da soli o insieme agli altri già emersi, avrebbero reso evidente l'innocenza del condannato (Sez. I, 19 dicembre 1995, Galeazzi; Sez. I, 16 marzo 1998, Papale).
A parte l'anacronismo scaturente (peraltro in modo apparentemente inconsapevole) dalla reintroduzione del concetto di "evidenza", bandito dal codice del 1988, la ratio decidendi di tali sentenze sembra collegarsi alla linea maggiormente permissiva che indica quale condizione minima perchè venga integrato il requisito della novità la mancata valutazione della prova da parte del giudice della cognizione.
Le progressioni interpretative della giurisprudenza di questa Corte ricevono un organico apporto da una statuizione che ha puntualizzato - ma in una proiezione non inscindibilmente collegata al giudizio di ammissibilità - che il disposto dell'art. 637, comma 3, il quale, nel vietare la pronuncia di proscioglimento - in sede di giudizio rescissorio - sulla sola base di una "diversa valutazione" delle prove assunte nel precedente giudizio" perchè la loro contestazione non può trovare il naturale sbocco se non nell'ordinaria impugnazione, lascia intendere che le prove assunte ma non valutate possano dare ingresso al giudizio di revisione, sempre che siano tali da dimostrare che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631; e ha, in più, ritenuto irrilevante la circostanza che il condannato abbia potuto dare causa - per dolo o per colpa - alla sentenza revocata; precisando come l'esclusione, in tale ipotesi, della riparazione dell'errore giudiziario, a favore del prosciolto in sede di revisione (art. 643, comma 1) rivela implicitamente come il legislatore abbia voluto comunque liberare l'operatività della revisione dalla preclusione derivante dal comportamento processuale negligente, o addirittura doloso, della parte quanto alla mancata produzione della prova esistente e conosciuta (Sez. V, 28 maggio 1996, Di Fabio).
Nonostante qualche dubbio espresso in dottrina, ritiene il Collegio che la soluzione giurisprudenziale che individua la prova nuova anche nella prova non valutata divenga complementare alla tematica relativa alla riferibilità della omessa valutazione a fatto dell'imputato. E ciò, non (sol)tanto alla stregua del disposto dell'art. 643, comma 1, quanto perchè alla dilatazione del concetto di prova nuova non può conseguire se non una corrispondente presa d'atto della ratio a base dell'istituto della revisione, alla sua valenza costituzionale, all'esigenza primaria avuta di mira dal Costituente che l'errore giudiziario sia riparato, prima ancora che attraverso il pagamento di una somma di danaro (art. 643, comma 2), consentendo al condannato di introdurre strumenti costituzionalmente adeguati perchè, all'esito della procedura di revisione, possa essere affermata la sua innocenza.
La linea interpretativa ora ricordata viene proseguita col riconoscimento che la forza espansiva all'espressione "prove nuove", di cui all'art. 630, lettera C, deriva da alcune differenze lessicali esistenti in detto precetto, nel quale l'aspetto valutativo viene maggiormente posto in luce dalle Relazioni all'attuale codice ed al Progetto del 1978, da una sistematica lettura di alcune disposizioni del codice di rito (art. 629, con riferimento al decreto penale di condanna, artt. 643 e 637), dall'interesse pubblico al prevalere della realtà sostanziale sull'accertamento erroneo cristallizzato nel giudicato ed al permanere del principio del perseguimento di un risultato di conoscenza dei fatti (art. 507) rispetto ad un rigido formalismo ed a regole poste per salvaguardare "il gioco delle parti"; pertanto, l'ampia nozione di prova nuova consente di relazionare anche tale attributo di qualificazione nel caso in cui il giudice non abbia valutato neppure implicitamente e non abbia conosciuto una prova, sempre che non si tratti di una prova dichiarata inammissibile o ritenuta superflua, pure per tardiva proposizione, giacchè in queste ipotesi la prova è stata valutata ed avverso un simile provvedimento sono esperibili soltanto le impugnazioni ordinarie. Quindi, per prove nuove devono intendersi quelle che, anche se preesistenti alla sentenza di condanna, risultanti o no dagli atti, non hanno formato oggetto di valutazione, espressa o implicita, da parte del giudice investito della cognizione, prescindendosi, anche qui, da ogni giudizio circa l'imputabilità alla parte interessata dell'omessa conoscenza giudiziale; con la conseguenza che l'estinzione del reato verificatasi prima della sentenza di condanna può farsi valere in sede di revisione quando sia rilevabile in base ad elementi probatori non risultanti dagli atti del precedente giudizio, anche se l'omessa loro produzione sia ascrivibile a negligenza dell'istante (Sez. III, 10 giugno 1996, Galli).
Un'articolata ricostruzione sistematica del concetto di prova nuova emerge dalla linea interpretativa secondo cui, ai fini della revisione, deve essere riconosciuto il carattere della novità anche alle prove che comunque non abbiano formato oggetto di valutazione, siano entrate o no a far parte del materiale probatorio acquisito al precedente giudizio di cognizione. Poichè - si afferma - ciò che ne qualifica la reale essenza è l'impossibilità giuridica di una sentenza di proscioglimento fondata esclusivamente su una diversa valutazione delle medesime prove assunte nel giudizio (art. 637, comma 3, c.p.p.), agli effetti dell'art. 630, lettera C, il requisito della novità dipende unicamente dal fatto che le prove abbiano o no formato oggetto di un precedente apprezzamento giudiziale, restando irrilevante la loro avvenuta acquisizione agli atti del processo. Anche in quest'ultimo caso - al pari di quanto avviene per le prove mai prima dedotte - l'eventuale eliminazione della sentenza di condanna divenuta irrevocabile trae origine non da un riesame critico delle identiche risultanze probatorie, interno al giudizio contenuto nel giudicato, ma da una ricostruzione che muove da ciò che il giudice non aveva inizialmente valutato. Il che corrisponde, appunto, all'essenziale requisito distintivo dell'istituto della revisione, qualificato proprio dal fatto che la condanna irrevocabile è sostituita da una decisione di proscioglimento all'esito del giudizio fondato, in tutto o in parte, su prove diverse da quelle precedentemente valutate (Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi).
Un approdo interpretativo, quello ora rammentato, che innesta una problematica di estrema complessità, per una duplice serie di motivi.
In primo luogo, perchè attraverso la prova nuova - così come qualificata - si sembrerebbe rendere possibile introdurre in sede di revisione il "travisamento del fatto", ma solo quando esso si traduca in una omessa valutazione e non in una errata valutazione della prova, con margini di incertezza di assoluta evidenza. Salvo a ritenere, ma il punto sarà approfondito più avanti, che l'erronea valutazione possa tradursi in una omessa valutazione tutte le volte in cui essa derivi da un vero e proprio errore ostativo, non deducibile ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettera C.
Il problema, rimanda, è evidente, alla logica di un giudizio che si sovrappone a quello già delibato con la sentenza divenuta irrevocabile. Ma il tema diviene di maggiore complessità negli ambiti assegnati alla cognizione di questa Corte, solo considerando i limiti fissati dall'art. 606, comma 1, lettera E. Una tematica che pare non infrequentemente emergere sia nei ricorsi del Procuratore Generale e delle parti civili, sia nelle deduzioni del Pisano.
E'agevole, però, argomentare che la regola stabilita dall'art. 606, comma 1, lettera C, non è oggetto di eccezioni di sorta. Se è vero che la revisione è infatti un modello impugnatorio designato dalla sua capacità di vincere la resistenza della prova così come valutata dal giudice di merito, è anche vero che i compiti affidati a questa Corte, pure nel post giudicato, non eccedono - a parte il giudizio di ammissibilità fondato su un summatim cognoscere - l'esigenza che si sia dato correttamente luogo al giudizio di revisione e che si siano osservate le regole, quanto alla dimostrazione della incapacità di resistenza della sentenza su cui incide la richiesta, puntualmente individuate nei limiti che a questa Corte sono connaturati.
La problematica, è vero, proietta itinerari interpretativi davvero poco esplorati almeno sul piano giurisprudenziale perchè la stessa limitazione del sindacato della Corte di cassazione potrebbe imporre un più incisivo controllo nell'ambito del ricorso in materia di revisione ove non sembrerebbe oggetto di verifica la sentenza in quanto tale, ma le ragioni stesse della sua incapacità a resistere alle prove addotte da chi si proclami portatore di una condanna ingiusta.
In secondo luogo, perchè l'art. 546, comma 1, lettera e, annovera fra i requisiti della sentenza "l'indicazione delle prove poste a base della decisione...e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie"; con conseguenti dubbi, per l'ipotesi di omessa valutazione della prova di innocenza non dedotta in sede di impugnazione di merito o in cassazione a norma dell'art. 606, comma 1, lettera e. Pure se l'art. 643, stabilendo che "Chi è stato prosciolto in sede di revisione, se non ha dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario, ha diritto" alla conseguente riparazione, lascia intendere che, anche se il vizio non sia stato dedotto (e avrebbe potuto e dovuto essere dedotto in sede di cognizione), non è esclusa la possibilità del proscioglimento a seguito del giudizio di revisione; tanto più che è ravvisabile una evidente derivazione causale tra la prova nuova e la insufficienza o la contraddittorietà delle prove, una volta espunto il requisito dell'evidenza ed inserite, prima ancora che come regole di giudizio, quali condizioni in grado di introdurre il giudizio di revisione, le formule proscioglitive più volte ricordate.
13.6. Nel rimandare una più esaustiva riflessione sulle problematiche ora solo accennate, occorre analizzare gli ulteriori approdi giurispudenziali a proposito di un particolare mezzo di prova, la perizia o la consulenza tecnica, su cui hanno a lungo insistito sia il Pubblico ministero ricorrente sia i difensori delle parti civili e del Pisano. Una problematica che, peraltro, si presenta tutta intrinseca al detto mezzo di prova, considerate le peculiarità di esso che si sostanzia in un vero e proprio giudizio formulato secondo i canoni descritti dall'art. 220.
Sul punto, le sequenze interpretative di questa Corte appaiono uniformemente orientate nel senso che non costituisce prova nuova una diversa valutazione tecnico-scientifica degli elementi fattuali già noti ai periti e al giudice; in una simile situazione, infatti, consentire la revisione significa ammettere la reiterazione di apprezzamenti critici in ordine a dati oggettivi già esaminati e, conseguentemente, aprire la strada ad ulteriori prospettazioni di elementi di giudizio già valutati (Sez. I, 23 febbraio 1998, Nappi; Sez. II, 12 dicembre 1994, Muffari; Sez. V, 22 aprile 1997, Cavazza). Va sottolineato tuttavia che più recenti prese di posizione giurisprudenziali - da ricollegare, peraltro, anche quanto a ratio decidendi, a ben più remote conclusioni ermeneutiche - hanno attenuato il rigore derivante dalla generalizzata e indiscriminata adesione ad un simile orientamento, affermando che la richiesta di revisione deve considerarsi ammissibile, oltre che nel caso di nuove emergenze di fatto sull'oggetto dell'indagine peritale, pure quando l'accertamento sia fondato su nuove metodologie tecniche e scientifiche (Sez. I, 6 ottobre 1998, Bompressi). Inoltre, assegnandosi alla corte di appello un limitato potere-dovere di valutazione, pure nel merito, dell'oggettiva potenzialità degli elementi addotti dal richiedente, ancorchè costituiti da "prove" formalmente qualificabili come "nuove", a dar luogo ad una necessaria pronuncia di proscioglimento, si è ritenuta ammissibile l'istanza di revisione della sentenza di condanna fondata su nuove scoperte scientifiche in tema di ricerca del DNA, ritenute in grado di far escludere la compatibilità del sangue dell'istante con quello ritrovato sul luogo dell'omicidio attribuitogli, affermandosi l'idoneità del mezzo probatorio indicato ad inficiare la pregressa affermazione della sua responsabilità (Sez. I, 23 febbraio 1998, Nappi; cfr. anche la già citata Sez. V, 22 aprile 1997, Cavazza). Fino a sancire il principio, sempre sulla premessa insita nei limiti assegnati alla delibazione di ammissibilità del giudizio di revisione, che la detta valutazione è riferibile anche ad elementi di prova, rilevandone solo l'esistenza e la persuasività e non il procedimento e le forme della loro avvenuta acquisizione; così da ritenere ammissibile la richiesta fondata su una consulenza tecnica ematologica disposta dal pubblico ministero in altro processo (Sez. V, 22 aprile 1997, Cavazza).
14. Ritengono queste Sezioni unite che per rinvenire nel sistema l'esatto concetto di prova nuova ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione occorre incentrare, in primo luogo, l'operazione interpretativa sull'esame del testo delle disposizioni contenute nel titolo IV del libro VIII del nuovo codice, raffrontandole con le corrispondenti prescrizioni del codice abrogato.
Ciò, non solo considerando che la revisione è quello fra i mezzi di impugnazione che più è stato oggetto di modifiche procedimentali da parte del codice del 1988, ma anche riflettendo sulla decisiva valenza dei moduli proscioglitivi rilevanti sia in sede di giudizio di ammissibilità, sia, conseguentemente, all'esito del giudizio di revisione.
E'significativo rimarcare come, fra i "casi" in cui la revisione può essere richiesta, il più volte richiamato art. 630 annoveri (lettera c) l'ipotesi in cui "dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631".
Una norma profondamente diversa nella sua valenza precettiva dall'art. 554, n. 3, del codice abrogato, che, a sua volta, indicava come condizione di ammissibilità della richiesta la sopravvenienza o la scoperta di "nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il condannato deve essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'articolo 479".
La dottrina prevalente prima della nuova codificazione riteneva, sul prepupposto che la finalità dell'istituto è quella di predisporre un rimedio all'eventuale ingiustizia di una condanna inflitta per errore, che la novità degli elementi di prova dovesse essere intesa in senso lato, assegnando valore esponenziale non solo all'insorgenza del fatto oggetto di prova (noviter reperta), ma anche alla sua produzione e valutazione (noviter producta). Conseguentemente considerando irrilevante che la prova preesistesse alla sentenza di merito di cui si domandava la revisione e che la prova stessa non fosse stata acquisita per negligenza del giudice, ovvero per la mancata deduzione - dovuta anche a dolo o colpa - della parte o del suo difensore. Tanto da inferirne che devono considerarsi nuovi anche gli elementi di prova che siano stati prodotti nel precedente procedimento, ma che non siano stati valutati dal giudice, rimanendo così estranei alla decisione sottoposta a revisione.
L'interpretazione giurisprudenziale era, dal suo canto, prevalente - ma con significative oscillazioni - sulla linea interpretativa secondo cui le prove preesistenti sono da considerare nuove quando non siano mai state portate a conoscenza del giudice; così escludendo il carattere della novità agli elementi di prova preesistenti che non siano stati dedotti per negligenza o non siano stati rilevati per errore. Pur evidenziandosi l'esigenza di recuperare, attraverso il giudizio di revisione, anche le circostanze non esaminate dal giudice della cognizione, comprendendo fra i nuovi elementi di prova quelli già esistenti agli atti ma non conosciuti nè valutati, purchè idonei ad influenzare in senso favorevole l'apprezzamento di quelli già raccolti nel precedente processo (cfr. Sez. V, 19 febbraio 1987, Avogaro; Sez. I, 16 novembre 1984, Savelli; Sez. I, 29 ottobre 1984, Trencia).
Poichè, peraltro, il tema era stato oggetto di risultati ermeneutici contrastanti, la più volte ricordata sentenza delle Sezioni unite (Sez. un., 26 febbraio 1988, Macinanti), nella sua adesione alla tesi restrittiva, ha costituito la base per l'insorgere di ulteriori contrasti interpretativi, non solo nel sistema del codice abrogato (si sono ricordate le argomentate prese di posizione di Sez. I, 30 gennaio 1989, Carlotto), ma anche nel nuovo assetto normativo, contrasti, certo, non ricomposti dalla sentenza Ligresti, mai assunta al ruolo di decisione comprovante l'esistenza di un diritto vivente in tema di prova nuova.
Ritengono queste Sezioni unite, anzitutto, di richiamare, nella loro pressochè integrale valenza interpretativa, i rilievi avanzati in proposito della linea maggiormente "permissiva", la quale è in grado di rivelare l'esistenza di un assetto ermeneutico, talora esplicitamente, talora solo implicitamente, incentrato su valori di ordine costituzionale.
Ne consegue che il concetto di prova nuova va ricostruito sotto un profilo strutturale e sotto un profilo teleologico, sempre avendo di mira l'oggetto che essa deve introdurre nel processo di revisione e che si sostanzia comunque nella rappresentazione di una fatto (fondato "eventualmente" sugli elementi potenzialmente idonei a dimostrarlo, secondo il modello precedentemente a lungo esaminato) in grado di vincere - nel contesto tipico della procedura di ammissibilità - la resistenza del giudicato.
Sotto il primo profilo, il richiamo alla valutazione della prova innesta un inscindibile raccordo con il procedimento gnoseologico necessario per pervenire alla decisione, il cui strumento di controllo non può che incentrarsi nella motivazione secondo una regola ormai canonizzata dal precetto dell'art. 192 c.p.p. Nel senso, cioè, che il giudizio di ammissibilità deve essere formulato sulla base di quello che - come si preciserà tra poco - va definito il rapporto di complementarità tra la prova nuova e la prova già valutata, tanto che se la prova non sia stata valutata dal giudice deve essere qualificata, per ciò solo, nuova. E, poichè la prova non valutata è quella che, pur essendo stata acquisita, non è stata oggetto del procedimento gnoseologico esternato nella motivazione della sentenza, risulta evidente che una simile nozione prescinde, non soltanto dalla acquisizione della prova, ma anche dalla imputabilità della mancata acquisizione.
Un approdo cui agevolmente si perviene soltanto riflettendo che - a parte i vizi di ordine processuale, che non si ricolleghino, ma solo entro ristretti limiti, alla valutazione della prova - possono assumere rilievo nel giudizio di revisione, con il quale non si realizza certo un nuovo grado di giudizio, quelle prove che - acquisite o non acquisite - non essendo state comunque valutate, entrano a comporre il novum proprio del giudizio di revisione. Il lessico adottato dall'art. 630, lettera c, appare, sul punto, assolutamente perentorio, soprattutto se riferito alle tipologie di sindacato azionabili sulla motivazione davanti alla Corte di cassazione. Cosicchè, se è pur vero che l'intepretazione letterale non può esaurire l'ambito delle opzioni ermeneutiche in una materia così complessa da postulare necessariamente l'utilizzazione di criteri di raccordo con l'intero sistema, è anche vero che proprio da una simile utilizzazione emerge come la mancata valutazione della prova (acquisita e, a fortiori, non acquisita) costituisce il limite invalicabile alla ammissibilità del giudizio di revisione.
D'altro canto, la valenza costituzionale dell'istituto non può consentire, perseguendosi con la revisione la rimozione di una condanna ingiusta, che l'esperibilità di tale mezzo straordinario di impugnazione resti condizionata, pur nel quadro di un assetto normativo informato ai principi del processo accusatorio il cui cardine è rappresentato - ai fini che qui assumono un incondizionato rilevo - dalle regole che sanciscono l'esercizio del diritto alla prova, all'osservanza, ad opera delle parti, delle regole concernenti l'ammissione e l'acquisizione della prova stessa.
Quel che sembra, dunque, essere stato trascurato, dalle decisioni che - proprio in forza del regime di "disponibilità della prova" - ritengono che sussista una naturale interferenza, tra l'esercizio del diritto alla prova e l'ammissibilità del giudizio di revisione fondato su una prova che avrebbe potuto essere dedotta (e quindi valutata) è, oltre che la protezione costituzionale dell'istituto della revisione, derivante dall'art. 24, quarto comma, della Costituzione, anche il rilievo che la revisione non costituisce mezzo di impugnazione ordinario proprio in quanto destinato a rimuovere, sulla base di prove nuove, un giudicato ingiusto.
Tra il giudizio di cognizione ed il giudizio di revisione non può, infatti, essere istituito un vero e proprio rapporto di continuità; l'irrilevanza dei vizi del procedimento di cognizione ne costituisce la conferma più significativa, ma al contempo lo stesso limite, considerato che nei casi di omessa valutazione della prova acquisita, l'addebito, pur incentrandosi esclusivamente sul risultato del processo cognitivo e, dunque, sulla condanna che si afferma erronea (e, quindi, ingiusta) presuppone comunque la violazione delle regole di inferenza canonizzate dal codice di rito.
Per il resto, il giudizio di revisione non può, senza precludere la possibilità di un'effettiva rimozione di una condanna ingiusta, ricollegarsi - se non nei limiti derivanti dalle tipizzazioni delle vie di accesso al mezzo straordinario di impugnazione - alla decisione da cui è scaturita la statuizione ed alla motivazione giustificativa della relativa condanna. Cosicchè parrebbe davvero esorbitante ricondurre l'ammissibilità del giudizio di revisione entro le regole proprie del giudizio di cognizione. Derivandone, fra l'altro, la mancata applicazione di uno dei principi fondamentali che legittimano l'instaurazione del nuovo giudizio e che si sostanzia nella assoluta irrilevanza del mancato rispetto di oneri formali ad opera delle parti e di violazioni della legge processuale ad opera del giudice.
Sotto il secondo profilo, quello che va individuato in una proiezione teleologica, l'estensione degli epiloghi cui può approdare il rimedio della revisione rappresenta un varco che - proprio in funzione della scomparsa di regole di giudizio rigorosamente canonizzate, la sostituzione dell'"evidenza" con la "dimostrazione" - dispone, ancora una volta, per l'utilizzazione di tutti gli strumenti volti ad infrangere la capacità di resistenza del giudicato. Al contempo, la caratterizzazione della prova nuova, in quanto tesa alla rimozione della sentenza irrevocabile, non può che imporre l'utilizzazione di metodologie di controllo sulla novità che possano pervenire anche a conclusioni attestative non della piena innocenza dell'imputato, come, invece, il codice del 1930 mostrava chiaramente di predendere.
Poste tali premesse, il determinare se la mancata valutazione (o la mancata acquisizione) debba prescindere dal comportamento delle parti, ovvero se la riferibilità di tale lacuna alla parte valga a qualificare non nuova la prova allegata alla domanda di revisione si risolve nella soluzione di un falso problema.
Fermo restando il rilievo che viene in considerazione la prova di un fatto incompatibile con le enunciazioni della sentenza di condanna, non valutato dal giudice, il disposto dell'art. 647, comma 1, c.p.p., a norma del quale la revisione può essere pronunciata anche se la parte abbia dato causa con dolo o colpa grave all'errore giudiziario - derivandone, in tal caso, la mancata insorgenza del diritto alla riparazione - su cui una cospicua tendenza giurisprudenziale fonda la tesi dell'irrilevanza ai fini dell'ammissibilità della revisione, dell'imputatibilità alle parti della mancata acquisizione (e valutazione) della prova rimane, infatti, un dato conseguente all'applicazione dei principi sopra enunciati; più in particolare, di quello dell'assoluta autonomia del giudizio di revisione in quanto, nel caso previsto dall'art. 630, lettera c, al quale, soltanto, l'art. art. 643, comma 1, sembrerebbe fare riferimento, svincolato, ai fini dell'ammissibilità, dal giudizio di cognizione, sempre purchè sussistano le condizioni indicate dalla prima delle norme ora ricordate; anzi tutto, cioè, che la prova non sia stata valutata.
15.1. Rimane ora da esaminare il tema concernente la manifesta infondatezza della richiesta di revisione, un vizio a cui fa esplicito riferimento il ricorso del Procuratore Generale, che sembra individuarlo nella complessiva inidoneità della domanda, che ha introdotto il giudizio di impugnazione straordinaria - in quanto basata esclusivamente su elementi possibilistici - a consentire la formulazione di una prognosi quanto all'esito positivo del giudizio di revisione.
Se si esamina la giurisprudenza di questa Corte sul punto è agevole trarne la conclusione che la nozione in esame rimanda ad una visione complessiva della richiesta in stretta correlazione con le ragioni e le prove che l'art. 633, comma 1, impone di indicare specificamente a pena di inammissibilità, secondo la lettura congiunta degli artt. 663 e 634, quasi a significare il nesso di derivazione fra la prova nuova e la capacità dell'assetto complessivo su cui si basa la domanda di revisione a pervenire all'approdo proscioglitivo. Secondo presupposti che sembrano diversificarsi da quelli a base della dichiarazione di manifesta infondatezza prevista dall'art. 588, 3° comma, del codice abrogato, non foss'altro perchè, diversamente da quanto avveniva nel sistema previgente, il carico della domanda è divenuto più gravoso, sia per l'assenza delle acquisizioni previste dall'art. 557 sia perchè nella fase "preliminare" non è contemplata la possibilità di disporre "le indagini e gli atti...utili" che l'art. 588, 2° comma, riservava alla Corte di cassazione quale giudice della fase rescindente.
Ne è così scaturita la linea interpretativa secondo cui la verifica della manifesta infondatezza della domanda di revisione impone alla corte di appello di compiere una delibazione preliminare di merito intesa a verificare che la "nuova prova" sia intrinsecamente idonea a determinare, da sola o congiuntamente alle prove già valutate, il proscioglimento dell'imputato, rimanendo preclusa, in questa sede, qualsiasi valutazione di elementi estranei alla stessa (Sez. I, 10 ottobre 2000, Tarantino). Ciò sempre nei limiti una verifica sommaria dei nuovi elementi di prova addotti e della loro astratta idoneità, sia pure attraverso una necessaria disamina del loro grado di affidabilità e di conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione alla loro efficacia ad incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e sul connesso giudizio di colpevolezza; essendo invece preclusa, in tale stadio, un'approfondita valutazione che comporti un'anticipazione del giudizio di merito, avulsa dal contraddittorio fra le parti e fondata su prove non ancora compiutamente acquisite (Sez. I, 1° aprile 1999, Cavazza). Così da caratterizzarsi in modo tale da dar luogo alla sua immediata rilevabilità in base ad un semplice e sommario esame delibativo, senza necessità di un approfondito e completo esame di merito, che va svolto soltanto nel vero e proprio giudizio di revisione (Sez. IV, 13 ottobre 1999, Di Blasi). Altre volte si è richiamata l'affidabilità dell'assetto probatorio prospettato con la domanda, sempre verificando se gli elementi di prova siano astrattamente idonei, da soli o insieme agli altri già raccolti, a condurre al proscioglimento del condannato; così gravando il giudice del compito di effettuare un'indagine diretta a verificare, oltre che la sufficiente affidabilità delle nuove circostanze, anche la persuasività della fonte e del contenuto della prova (Sez. I, 7 aprile 1999, Makram).
Una statuizione, che ha approfondito con articolato esame tale tematica, ha introdotto una vera e propria sequenza tra la valutazione imposta dall'art. 631 e quella relativa alla manifesta infondatezza della richiesta di revisione.
Si è precisato perciò che i due momenti risultano concatenati, sul piano concettuale, dalla previsione dell'art. 634 c.p.p., che ricollega esplicitamente la dichiarazione di inammissibilità alla inosservanza della disposizione di cui all'art. 631 "ovvero" alla manifesta infondatezza della richiesta. Stando, dunque, a tale decisione, i due profili rappresentano i passaggi necessari dell'indagine di ammissibilità, tra loro strettamente coordinati, e sono caratterizzati da contenuti diversi, in quanto la verifica della condizione della manifesta infondatezza - a differenza del controllo ex art. 631 - ha carattere non astratto ma concreto, in diretta immediata correlazione col tema di indagine proposto dalla richiesta di revisione; così da incentrarsi in una valutazione di merito, che, nell'ipotesi di prospettazione di prove nuove, si traduce nel riscontro della persuasività e della congruenza dei risultati probatori posti a base dell'impugnazione straordinaria. Un tema di estrema delicatezza, che sembrerebbe contraddire i tracciati giurisprudenziali che individuano esclusivamente secondo modelli astratti il giudizio di ammissibilità. Ma gli argomenti davvero nuovi rinvenibili in tale statuizione risultano dall'indicazione dei criteri metodologici cui il giudice è tenuto ad uniformarsi nello scrutinare l'esistenza di un simile vizio. Si è precisato così che la valutazione, anche se non sommaria, ma diffusamente argomentata, non può comportare un approfondimento valutativo tale da dar luogo ad un'anticipazione del giudizio di merito proprio della fase rescissoria, dato che essa finirebbe per risultare inevitabilmente superficiale ed illogica, in quanto avulsa dal contraddittorio tra le parti e fondata su una prova non ancora compiutamente acquisita"; che la valutazione degli elementi addotti come prova - da effettuarsi nei termini in cui essi sono prospettati - anche ove non sia meramente astratta, può rilevarne eventuali segni di inconferenza, inaffidabilità o non persuasività solo nei limiti in cui essi siano constatabili ictu oculi; aggiungendosi che le differenze di orientamenti giurisprudenziali, talora enfatizzate, sono più apparenti che reali ed investono più la forma che la sostanza del giudizio di ammissibilità. Tanto da concludere che nella giurisprudenza è riscontrabile "l'uniforme affermazione della regola secondo cui il controllo preliminare della manifesta infondatezza della richiesta non può mai consistere in una penetrante anticipazione dell'apprezzamento di merito riservato al giudizio di revisione, destinato all'assunzione ed alla valutazione delle nuove prove nel contraddittorio delle parti. Una conclusione confermata dalla lettera dell'art. 634 c.p.p., che, prevedendo l'inammissibilità della richiesta "manifestamente infondata", comprova, senza possibilità di plausibili dubbi, che l'infondatezza deve risultare evidente, palese, chiaramente non controvertibile e percepibile immediatamente, senza la necessità di alcun particolare approfondimento, come è proprio, appunto, di una delibazione preliminare. Così da istituire una sorta di parallelismo rispetto all'analoga previsione riguardante l'inammissibilità del ricorso per cassazione nel caso di motivi manifestamente infondati (art. 606, comma 3, c.p.p.) e da considerare conforme all'esatta interpretazione dell'art. 634 c.p.p. la soluzione secondo cui la fase dell'accertamento dell'inammissibilità della richiesta di revisione implica una sommaria delibazione degli elementi di prova addotti, dato che, dovendo essere manifesta, l'infondatezza dell'istanza può giustificare la pronuncia di inammissibilità e può precludere l'inizio del giudizio di revisione soltanto quando sia rilevabile ictu oculi all'esito di un semplice esame delibativo sulla base di non controvertibili criteri di valutazione e, soprattutto, senza necessità di un approfondito esame di merito effettuato mediante il confronto dei nuovi mezzi di prova con le risultanze probatorie poste a fondamento del giudizio di condanna o con altri dati aliunde acquisiti (Sez.I, 6 ottobre 1998, Bompressi; ma v. anche Sez. VI, 16 ottobre 1997, De Murtas; nonchè Sez. V, 22 aprile 1997, Cavazza).
Altra decisione ha incentrato la valutazione preliminare circa l'inammissibilità della richiesta, in quanto manifestamente infondata, prevista dall'art. 634, nell'area di una verifica che abbia ad oggetto non solo l'affidabilità della prova nuova, ma anche la sua persuasività e la sua congruenza nel contesto già acquisito in sede di cognizione. Un giudizio che, diversamente da quello di cui all'art. 637, implica che i criteri di ragione in base ai quali svolgere valutazioni di affidabilità, persuasività e congruenza, sia della fonte sia del contenuto della prova, non penetrano in profondità nel giudizio di rivisitazione della vicenda processuale, ma consentono di pervenire a conclusioni decisorie in via immediata e diretta. Peraltro, in parte giustapponendo una simile verifica a quella tipicamente contemplata in ordine alla novità della prova (Sez. I, 28 maggio 1996, Caporosso; cfr. anche Sez. IV, 12 gennaio 1996, Tufo).
Non si è mancato, poi, talora di rimarcare come l'espressa previsione nell'art. 634 come autonoma causa di inammissibilità della richiesta, della "manifesta infondatezza" della medesima, con attribuzione, quindi, alla corte di appello di un limitato potere dovere di valutazione, anche nel merito, della oggettiva potenzialità degli elementi addotti, ancorchè costituiti da "prove" formalmente qualificabili come "nuove", a dar luogo a una necessaria pronuncia di proscioglimento, faccia sì che non sia, di per sè, contraddittoria la motivazione sulla base della quale la corte di appello, pur riconoscendo il carattere di novità delle "prove" proposte dal richiedente, dichiari inammissibile, per manifesta infondatezza, la richiesta (Sez. I. 18 giugno 1996, Garofalo; Sez. I, 30 novembre 1995, Suarez).
15.2. Rilevano queste Sezioni unite che nel sistema del codice del 1930 la dichiarazione di inammissibilità o di rigetto dell'istanza, poteva, a norma dell'art. 558, 3° comma, essere pronunciata "Quando l'istanza di revisione è inammissibile o appare manifestamente infondata". Stando alla giurisprudenza ed alla dottrina, nell'ambito di tale nozione erano da annoverare gli aspetti della delibazione attinenti all'oggetto della richiesta, secondo un regime parallelo a quello previsto per il ricorso per cassazione dall'art. 524, 2° comma, in quanto tipico del giudizio di legittimità, ma avente un ambito contenutistico in parte diverso, solo riflettendo sulla competenza "atipica" riservata alla Corte di cassazione in sede di revisione.
Nel nuovo sistema, come si è visto, la valutazione quanto alla manifesta infondatezza della richiesta (art. 634, comma 1, "ovvero risulta manifestamente infondata") ed il cui accertamento comporta necessariamente la dichiarazione di inammissibilità della domanda di revisione, appartiene alla Corte di appello, ferma restando la cognizione della Corte di cassazione a dichiarare inammissibile (ma ai sensi dell'art. 606, comma 3, e, dunque, ovviamente, entro l'ambito della sua cognizione di legittimità) il ricorso nel confronti dell'ordinanza di inammissibilità (art. 634, comma 2) ovvero della sentenza pronunciata all'esito del giudizio di revisione (art. 640) quando ritenga il ricorso manifestamente infondato.
La permanenza di un simile requisito potrebbe apparire il frutto di una "disattenzione" del legislatore, il quale avrebbe trascurato che il nuovo modello di revisione si caratterizza rispetto al sistema preordinato dall'abrogato codice di rito dall'assenza di un vero e proprio giudizio rescindente, e che l'apprezzamento della capacità della richiesta a vincere il giudicato, è, per di più, riservato al giudice di merito, pur essendo quella sulla "manifesta infondatezza" delibazione riservata al giudice di legittimità.
Se però si riflette più approfonditamente sulla tipologia del rimedio, teso a rimuovere una decisione passata in giudicato, ci si avvede che esso si collega direttamente al regime della specificità delle ragioni della richiesta ai fini del giudizio di ammissibilità della domanda di revisione. E se è vero che, come è stato rilevato in dottrina, il vizio in esame resta designato dalla necessità di operare una verifica circa la capacità delle prove addotte ad introdurre nel processo elementi che implichino l'inferenza di un risultato che conduca all'accertamento dell'affermazione iniziale, è anche vero che il tema rimanda, in una prospettiva caratterizzata da aspetti piuttosto suggestivi, entro sequenze che rivelano la particolare complessità del giudizio delibativo preliminare.
L'attributo "manifesta" che contrassegna l'infondatezza della richiesta di revisione si ricollega, dunque, se - come è necessario - occorre dare un senso alla disposizione dell'art. 634, alla capacità delle ragioni poste a base della richiesta, a consentire una verifica circa l'esito del giudizio. Si tratta, cioè, di un requisito, tutto intrinseco alla domanda, ai rapporti di inferenza collegati ai motivi dell'introduzione del mezzo di impugnazione, rispetto ai quali gli elementi di prova addotti assumono un rilievo indiretto; il tutto è, dunque, da ricollegare alla forza persuasiva della richiesta, secondo canoni che, per l'avvertita incapacità di essa di travolgere il giudicato, implicano il raffronto con modelli di verifica di valore estremamente più riduttivo rispetto agli altri posti a base del giudizio di inammissibilità.
Non pare, dunque, da enfatizzare la concreta valenza di una simile causa di inammissibilità del giudizio di revisione, solo riflettendo sulle connessioni che la legano, e davvero secondo modelli contrassegnati da una maggiore tipicità, alla prognosi sulla conclusione del giudizio, che relegano, allora, l'esigenza di una simile valutazione ai casi, per qualche verso legati alla previsione dell'art. 606, comma 3, c.p.p., ma secondo un modello di verifica strettamente inicidente sul meritum causae (non è inutile rammentare che il giudizio in ordine alla manifesta infondatezza era previsto anche per il giudizio di appello dal Progetto preliminare del 1978); in tal modo il vizio appare designare l'evidente inidoneità della domanda ad accedere al giudizio di revisione. Senza che possano assumere rilevanza - se non nei rigorosi ambiti adesso ricordati - regole di giudizio appartenenti alla fase del merito, altrimenti derivandone un'indebita sovrapposizione tra momenti procedimentali che il legislatore ha inteso categoricamente differenziare. Con la conseguenza che non può trovare ingresso nella verifica di ammissibilità per manifesta infondatezza il richiamo a regole di giudizio riferibili alla sola fase c.d. "rescissoria", quale, ancora una volta, quella imposta dall'art. 637, comma 3.
Ne deriva che la causa di inammissibilità della manifesta infondatezza resta relegata ai margini del giudizio "preliminare", secondo canoni di inferenza tipicamente collegati alla domanda ed assunti in funzione "servente" rispetto alle altre ipotesi tipiche di inammissibilità della richiesta di revisione.
Tutto ciò, come si vedrà fra poco, comporta l'assoluta inconferenza del richiamo a tale causa di inammissibilità, in ordine alla quale, peraltro, il giudizio di questa Corte rimame, ovviamente, attestato ad una accertamento di esclusiva legittimità.
16. Poste tali premesse, va rilevato che il tema di prova sul quale si sono essenzialmente sviluppate le argomentazioni della sentenza impugnata concerne l'attendibilità dell'alibi del Pisano cui si ricollegano una variegata serie di sequenze probatorie volte a dimostrare, come novum, nella complementare valutazione con le altre prove già valutate, che il Pisano non possa essere stato l'autore del delitto o comunque - una verifica che il giudice dell'ammissibilità è tenuto a compiere di ufficio - che le prove a carico del condannato, in presenza del nuovo assetto dimostrativo prodotto o scoperto, attestano una situazione di insufficienza o di contraddittorietà delle prove che ha determinato la pronuncia della sentenza di condanna.
In proposito occorre avvertire come il fatto che tale tema sia stato preso in esame dalle sentenze sia di primo grado sia di secondo grado non appare impeditivo della qualificazione delle prove indicate nella richiesta di revisione come prove nuove, concernendo il requisito della novità non il tema di prova (nel caso di specie, la prova d'alibi) ma gli elementi dimostrativi addotti come noviter reperti (si allude a talune prove testimoniali mai acquisite perchè non conosciute dalla difesa del Pisano) ovvero noviter producti, assumendosi l'omessa valutazione da parte dei giudici di merito degli elementi dimostrativi che, nonostante fossero stati sottoposti alla loro valutazione, non furono assolutamente valutati.
Sotto tale profilo, non può essere seriamente contestato - sempre nei limitati confini di una delibazione attenta esclusivamente all'ammissibilità della domanda - come le deposizioni degli impiegati del catasto Rosso, Giacomoni, Mangosi e del teste la cui identità è stata scoperta dopo il giudizio di merito, Brunettini, assumano il rilievo di vere e proprie prove nuove, di alto valore dimostrativo perchè volte ad asseverare - sia pure per via indiretta - la presenza del Pisano negli uffici del nuovo catasto urbano di Roma; un dato, come si vedrà più avanti, incompatibile, se confermato, con la contemporanea presenza del condannato a Riano.
Sul punto la Corte territoriale ha avuto cura di rimarcare come occorresse distinguere, sempre ai fini della ammissibilità della prova, in quanto qualificabile come nuova - così puntualmente dimostrando l'inconsistenza delle doglianze avanzate dalle parti civili - che l'assetto probatorio avente ad oggetto la pratica "Monari" costituiva un segmento del complessivo tema della prova d'alibi assolutamente non valutato nei giudizi di cognizione, precisando - un dato che parrebbe pacifico anche alla stregua di tutti gli atti di impugnazione - che questa pratica si differenziava dalla pratica Trappetti per le modalità di presentazione, dato che i numeri di protocollo, oltre tutto caratterizzati da sequenze differenti, venivano annotati in registri diversi; nel giudizio di cognizione era, invece, stato inserito nel fascicolo del pubblico ministero esclusivamente il registro di protocollo delle nuove iscrizioni, quello, cioè cui si riferiva la pratica Trappetti, e non anche il registro di protocollo delle variazioni catastali, vale a dire, quello cui si riferiva la pratica Monari. Alla diversità delle predette procedure si ricollega, dunque, la qualificazione di prova nuova designata dalla forza dimostrativa indicata dall'art. 630, lettera c, della testimonianza della Rosso, nome e firma della quale risultavano su entrambe le pratiche e sulle ricevute provvisorie, esaminata dal Pubblico ministero ex art. 430, e mai escussa in dibattimento con riferimento alla pratica Monari. Ed è indubbio - sempre nell'ambito della distinzione tipologica delle pratiche - che costituiscano prove nuove l'acquisizione della valigetta 24 ore del Pisano, recante entrambe le pratiche, al fine di confrontarle con quelle acquisite dalla difesa del Pisano presso l'Ufficio del Territorio (ex catasto di Roma), della pratica "Primavera", registrata con il numero precedente a quello del protocollo della pratica "Monari", presentata dal geometra Antonio Brunettini per conto del geometra Gianfranco Sili, secondo quanto dichiarato per iscritto dal Brunettini al difensore del Pisano.
Per concludere su questo punto, risulta evidente che la presenza del Pisano al catasto, con riferimento alla presentazione della pratica di "frazionamento" Monari, mai presa in considerazione nel giudizio di cognizione, se non nei limiti di un'affrettata e del tutto aspecifica delibazione sulla "caducità dell'alibi" (una presenza avvalorata dalla indicazione di testimonianze volte a comprovare, per la descrizione della situazione esistente negli uffici del catasto - personale cui si rivolse, pubblico presente, accadimenti ai quali assistette la mattina del delitto - e per l'indiretta conferma che, a causa dell'assenza della De Giovanni, il Pisano fu costretto a redigere seduta stante la ricevuta provvisoria della pratica di frazionamento Monari) non possa essere considerato diversamente da un fatto sorretto da prove nuove ai fini del giudizio preliminare di ammissibilità.
Del resto, la teste Emilia Maria Rosso non venne mai esaminata nel giudizio di cognizione nè sul presentatore della pratica Monari nè sulle modalità di compilazione e rilascio dei modelli di ricevuta. Anche la deposizione di Antonio Brunettini costituisce, in base ai principi di diritto sopra enunciati, prova nuova in grado di instaurare il giudizio di revisione. Ed in tale prospettiva, non devono certo considerarsi prove acquisite in violazione del precetto dell'art. 634 c.p.p., l'assunzione di Mario Pisano (circa la sua presenza in luogo diverso dal catasto, nel giorno ed ora in questione, proprio per le ragioni acriticamente esposte dalle sentenze di merito, che rivelano una vera e propria omessa valutazione), del consulente grafico Francesco Greco (mai esaminato nel giudizio di cognizione), correttamente ritenuto elemento di prova tale da corroborare la domanda di revisione) e di Lucia Mangosi.
Non può, ancora, sempre ai fini della ammissibilità della richiesta, negarsi la qualificazione in termini di novità, ai sensi dell'art. 630, lettera c, alla documentazione prodotta dal Pisano proveniente dagli uffici del catasto: vale a dire, la ricevuta provvisoria della pratica "Monari", il registro di protocollo delle variazioni catastali, la pratica "Primavera" recante il numero di protocollo precedente a quella della pratica "Monari", presentata dal Brunettini.
Un requisito che - sempre ai fini del giudizio sulla novità e conferenza della prova - va riconosciuto alla consulenza grafica Greco, che risulta imperniata, anche qui sulla base di precise verifiche, sulla presenza del Pisano negli uffici del catasto.
Pure le deposizioni del Bocci, in ordine alla, peraltro, alquanto enfatizzata, data di acquisto dell'anello, del geometra Giammattei - al contrario, di rilevantissima forza dimostrativa - sui tempi di percorrenza del tratto della S.S. "Flaminia" interessato (teste mai sentito in dibattimento), va assegnato secondo il corretto argomentare della Corte territoriale, il carattere della novità, e, dunque, la conseguente valenza ai fini dell'ammissibilità della richiesta.
17.1. Si è contestata pure l'ammissibilità di talune deposizioni (più in particolare, di Daniele Tommasini, di Ivana Gentili e di Aniello Agresta) in quanto volte a comprovare la responsabilità di persona diversa dal Pisano che coadiuvò Silvana Agresta nell'esecuzione dell'omicidio.
Il tema, per quanto non ampiamente approfondito dai ricorrenti, è di estremo rilievo ai fini di tracciare un'esatta demarcazione tra i vari casi di revisione e, nello specifico, tra quello previsto dalla lettera c e quello previsto dalla lettera d dell'art. 630.
Tutto ciò considerando che la Corte di appello di Perugia ha ipotizzato, trasmettendo gli atti al Procuratore della Repubblica di Roma "per quanto di competenza", nei confronti di Silvana Agresta il reato di calunnia ai danni del Pisano per la falsa chiamata in correità, nei confronti di Sabatino Gigante sempre il reato di calunnia in danno del Pisano, per avere simulato a suo carico le tracce del reato di omicidio.
17.2 L'art. 630, lettera d, stabilisce che la revisione può essere richiesta "se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o di un altro fatto previsto dalla legge come reato". Una disposizione che va integrata, peraltro, con i successivi artt. 633, comma 3, e 634, comma 1, dai quali si ricava che tra le condizioni di ammissibilità della domanda proposta adducendo un simile caso di revisione è prevista l'allegazione di "copia autentica della sentenza irrevocabile di condanna per il reato ivi indicato".
Sennonchè risulta evidente che una disposizione di tal genere, apparendo diretta ad evitare il conflitto logico tra giudicati, in tanto è operante in quanto sia passata in cosa giudicata la sentenza per il fatto incidente, in via immediata e diretta, sul soggetto coinvolto nel fatto per il quale è già intervenuta condanna. In caso, contrario, non potendo operare, in sede di revisione, per le ragioni già indicate, il principio della cognizione incidentale del giudice penale e prevedendo la legge come condizione della stessa proponibilità della domanda il passaggio in giudicato della sentenza di cui all'art. 630, lettera d, pur esistendo potenzialmente un conflitto di giudicati, il condannato sarebbe privato da ogni forma di tutela in palese violazione dell'art. 27, 4° comma, della Costituzione.
Questa Corte, del resto, ha già avuto occasione di osservare che, in materia di revisione, occorre distinguere tra la prova intesa a contrastare direttamente l'accusa, negando i medesimi fatti che essa afferma, e la prova intesa a negarla solo indirettamente mediante l'affermazione di un fatto con essa incompatibile. E solo quando l'asserzione del fatto incompatibile con l'ipotesi di accusa consiste nell'indicare altre persone come colpevoli del delitto, trova applicazione l'art. 630, lettera a (il principio è applicabile anche all'ipotesi prevista dall'art. 630, lettera d, per l'identica ratio a base dei due casi di revisione); con la conseguenza che è possibile il ricorso all'ipotesi di cui alla lettera c quando la nuova prova dedotta, oltre a sostenere un'ipotesi di accusa alternativa, sia anche di per sè idonea ad inficiare l'accusa posta a fondamento della sentenza definitiva impugnata (Sez. V, 27 novembre 1995,Mulè).
D'altro canto, nel caso di specie, l'esame del punto relativo alla eventuale responsabilità di terzi ed ai provvedimenti "conseguenziali" alla revoca della sentenza di condanna (trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica di Roma quale notitia criminis nei confronti della Agresta, di Sabatino Gigante, di Aniello Agresta, di Walter Gigante e di Mario Cantoni) era da considerare indispensabile in relazione alle statuizioni delle due decisioni di merito che, da un lato, avevano ritenuto che l'azione omicidiaria era stata posta in essere necessariamente da due persone e, dall'altro lato, aveva escluso la riferibilità del delitto a soggetti appartenenti all'entourage dell'Agresta.
18. Deve, invece, affermarsi l'inammissibilità dell'elemento di prova dedotto a sostegno della richiesta di revisione costituito dalla consulenza tecnica Furnari.
Il consulente tecnico ha riferito che, poichè le compresse di "Pleigine" fatte ingerire alla Bruno furono 20-30, fosse necessario un arco temporale non inferiore ad una, due ore (più prossimo a due ore) per assorbire le dette compresse così da pervenire ai valori riscontrati nel sangue della vittima. Ha precisato inoltre che lo smaltimento della codeina nel sangue comprova che l'unica spiegazione scientifica possibile è che il tempo trascorso ammontava a due ore.
Sennonchè una prova di tal genere si rivela ictu oculi inammissibile per non costituire una prova nuova, ma esclusivamente una rivalutazione critica della consulenza tecnica del Pubblico ministero. Senza che di essa si possa, peraltro, tenere ugualmente conto quale elemento di riscontro delle prove nuove (quelle testimoniali, etc.) una volta introdotta la richiesta di revisione (tendendo il giudizio di ammissibilità pure a precludere l'allegazione di prove "grimaldello"). E senza che abbia alcun valore giuridico l'assunto, implicitamente ricavabile dall'impugnata sentenza, secondo cui la consulenza tecnica si sarebbe resa necessaria perchè il giudice della cognizione non aveva considerato che la problematica concernente i tempi di assorbimento era stata esaminata dal consulente tecnico della parte civile.
E'opportuno rammentare che in sede di cognizione venne proposto il seguente quesito: "Esperito ogni opportuno accertamento, accerti il consulente tecnico la natura delle pasticche rinvenute nel cadavere di Cinzia Bruno".
Il quesito proposto dalla difesa del Pisano, quale prova nuova ai fini della revisione, è del seguente tenore: "Valutare, sotto l'aspetto tossicologico-forense, i risultati qualitativi e quantitativi ottenuti dalle analisi chimiche dei fluidi biologici prelevati dal cadavere di Cinzia Bruno, con particolare riferimento alle modalità di assunzione ed ai tempi di assorbimento ed eliminazione delle sostanze rinvenute".
Secondo la sentenza ora impugnata, nè il consulente tecnico del Pubblico ministero nè i giudici della cognizione avrebbero mai esaminato e valutato i valori di concentrazione di fendimetrazina nel sangue e nelle urine della vittima. Tuttavia, su questioni pressochè identiche alle specifiche proposizioni contenute nel quesito formulato al prof. Furnari sia il consulente tecnico del Pubblico ministero, dott. Alessandro Palmeri, sia il consulente tecnico della parte civile, prof. Chiarotti, erano stati esaminati nel corso del giudizio di primo grado, come risulta dalla lettura dei resoconti stenografici di udienza cui a questa Corte è consentito accedere, trattandosi non di esprimere un giudizio di merito, ma di operare una verifica dei presupposti di ammissibilità del giudizio di revisione.
Ma, come si è già avuto occasione di precisare, l'immanenza nel sistema del principio utile per inutile non vitiatur, conduce a ritenere che tale prova, non designata dal carattere della novità, non coinvolge - sulla base di una lettura complessiva della decisione impugnata - l'ammissibilità della richiesta di revisione non assumendo valenza esponenziale, mentre la sua interdipendenza rispetto agli altri elementi di prova caratterizzati dalla novità è soltanto apparente, evidenziandosi con assoluta chiarezza, tanto alla stregua delle decisioni della Corte di assise di primo grado e della Corte di assise di appello, tanto alla stregua della sentenza impugnata, l'ora della morte di Cinzia Bruno che rendeva comunque problematica, in base alle nuove prove ed alle prove già valutate, la partecipazione del Pisano all'azione omicidiaria pure a prescindere dalla sua effettiva durata (con scarti temporali, comunque, non così decisivi, da rendere "caduca" la prova d'alibi).
Tanto che da un'attenta analisi sia della decisione in ordine all'ammissibilità della domanda di revisione sia della sentenza di merito una prova come quella ora ricordata si rivela pressochè priva di rilevanza.
E ciò perchè tanto dalle sentenze della cognizione tanto dalla sentenza di revisione appare chiaro come il decesso della Bruno si è verificato intorno a mezzogiorno. Con la conseguenza che gli elementi di prova concernenti i tempi di percorrenza del tragitto e la presenza del Pisano al catasto assumono valore dimostrativo ai fini richiesti dall'art. 630, lettera c, se confrontati con l'erronea dichiarata insussistenza della prova d'alibi, posto che in ogni caso il Pisano non sarebbe mai potuto rientrare in Istituto, alla stregua delle stesse perizie necroscopica e tossicologica nonchè delle fondamentali dichiarazioni dei testi Elisa Marronaro e Giacinto Santella, intorno alle 11,30, come emerge dalla relazione del sovraintendente Donato e dalle dichiarazioni degli altri testimoni che lo videro, appunto, fare ritorno in via Piero della Francesca intorno a quell'ora, dopo l'acquisto delle chiavi.
19. Ritiene, dunque, questa Corte che tutte le prove inerenti alla presenza del Pisano la mattina del giorno del delitto presso in catasto siano da qualificare prove nuove o perchè non valutate o perchè scoperte successivamente.
Ciò, peraltro, in un quadro di sicuro rilievo prognostico sia pure entro i limiti conoscitivi indicati dall'art. 630, lettera c, proprio se proiettati in uno schema gnoseologico nel quale la valenza degli elementi già valutati assume carattere di altissimo rilievo complementare.
Il punto va adeguatamente approfondito alla stregua della norma adesso ricordata e, dunque, rimanendo nei rigorosi limiti connessi alla procedura di ammissibilità della richiesta di revisione.
Il fatto che l'art. 630, lettera c, richieda, ai fini della detta ammissibilità, che "dopo la condanna" sopravvengano o si scoprano "nuove prove che sole o unite a quelle già valutate dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631", postula comunque l'utilizzazione di un procedimento logico, che - proprio perchè teso ad accertare l'esistenza degli astratti presupposti per sostituire una pronuncia del tutto contrastante con la precedente - richiede, almeno di norma, una concomitante operazione di verifica e di falsificazione.
La disposizione in esame, è vero, richiama anche il caso che le nuove prove siano da sole idonee a dimostrare che l'imputato deve essere prosciolto; così da delineare una situazione in cui la prova nuova è da sola in grado di far soccombere l'intero assetto probatorio su cui si fondava la sentenza di condanna. In tal caso si prospetta un contesto di assoluta incompatibilità tra la prova nuova e le prove valutate che si inseriscono come elementi dimostrativi da estirpare all'esito del giudizio di revisione.
Il più delle volte, però, le nuove prove, acquistano valore dimostrativo ai fini del giudizio di ammissibilità "unite a quelle già valutate", nel senso che dal complessivo contesto probatorio e non dalla sola prova nuova può emergere l'asserzione dimostrativa dell'innocenza del condannato.
In tal caso, allora, il procedimento logico è - secondo i canoni rigorosamente espressi dall'art. 630, lettera c - estremamente più complesso, perchè esso si traduce, da un lato, nella verifica della effettiva novità della prova e, dall'altro lato, in una opera di vera e propria falsificazione - nell'ambito dei modelli riservati dalla legge al controllo di ammissibilità - dei dati valutati dal giudice della cognizione, ma attraverso indiretti processi di inferenza, in grado di dimostrare, appunto, la capacità falsificante della prova nuova. Di qui la valenza complementare delle prove già valutate (e che assumerà una funzione contenutistica all'esito del giudizio di revisione) ma che può rendere ammissibile un simile giudizio richiamando esclusivamente il procedimento conoscitivo che ha condotto alla sentenza di condanna; legittimando il giudizio solo in forza di prove acquisite e non valutate nel loro rapporto di complementarità con prove non necessariamente valutate in modo erroneo, ma comunque da confutare attraverso i nuovi rapporti di inferenza ricavabili dalla richiesta.
20. Il Procuratore generale ricorrente ha dedotto come ulteriore motivo di inammissibilità della richiesta di revisione il fatto che le ragioni della domanda erano dirette, in primo luogo, a dimostrare l'insussistenza della circostanza aggravante della premeditazione; una ragione non consentita, essendo la revisione funzionale solo al proscioglimento del condannato.
Ma appare evidente come una simile ragione della richiesta risulti preordinata esclusivamente alla dimostrazione che le prove nuove unite a quelle già valutate comprovano l'innocenza del Pisano, il dato riguardante la premeditazione, costituendo, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici della cognizione, un momento dell'accertamento in ordine all'addebitalità dei fatti stessi al condannato.
Non sembra dunque, che una tale verifica - che pare, peraltro, incidere più sulla sentenza di merito che sul giudizio di ammissibilità - resti preclusa al giudice della revisione, inserendosi come momento decisivo dell'intero assetto motivazionale, fondato sulle prove già valutate, la cui valenza è stata in gran parte confutata, e sulle prove noviter repertae e noviter productae.
21. Passando alle censure rivolte nei confronti della decisione di merito - talora, sia pure implicitamente, coinvolgenti anche l'ammissibilità della richiesta - è necessario un esame accurato di ciascuna di esse, tutte peraltro, almeno in apparenza, incentrate sulla motivazione.
Si contesta, in primo luogo, l'argomento che la Bruno sia spontanemente giunta a Riano, col seguire la tesi esposta dalle decisioni di merito secondo cui la vittima, persona timida e riservata, mai si sarebbe recata a casa dell'amante del marito se non da lei richiesta. Ribadendosi, in tal modo, il teorema dell'"invito-trappola", confermato anche dal fatto che era intendimento della Bruno recarsi a Riano accompagnata da un'amica, e che il viaggio era stato differito solo perchè l'autovettura di costei era in riparazione. D'altro canto, la circostanza che la vittima avesse usufruito di un giorno di permesso dall'ufficio e che avesse ingiunto alle colleghe di non rivelare la sua assenza al marito ove questi avesse telefonato, non avrebbe potuto spiegarsi diversamente se non con un incontro concordato con la rivale e, per giunta, urgente e non rinviabile; tanto più che quella stessa mattina la Bruno aveva rinvenuto, proprio a seguito di una telefonata del Pisano, il mod. 740, nel quale era contenuto il bollettino del pagamento dell'ICI effettuato dal Pisano presso l'Ufficio postale di Riano (ricorso del Procuratore Generale e dell'avv. Cristiani).
Inoltre, non sarebbe stato assolutamente dimostrato il fatto che il Pisano, il quale faceva un uso smodato del suo telefono cellulare proprio con la Agresta, si sarebbe astenuto dal chiamare l'amante solo perchè questa si era recata per i lavori di pulizia presso l'abitazione per prefetto Rossi, così da eliminare ogni sospetto che il mancato impiego del telefono rivelasse la sua presenza a Riano insieme all'Agresta. E ciò perchè la figlia del prefetto aveva dichiarato che, durante la sua permanenza a casa per i lavori di pulizia, l'Agresta aveva altre volte ricevuto telefonate da un uomo che lei stessa aveva affermato chiamarsi Massimo; un elemento confortato dall'esame dei tabulati relativi al traffico in partenza dal cellulare del Pisano che attestano una chiamata in casa Rossi - il cui numero telefonico risultava annotato sulla sua agenda - il 9 luglio 1993 (ricorsi del Procuratore Generale e dell'avv. Cristiani).
Arbitraria e congetturale sarebbe, poi, la ricostruzione dell'incontro tra le due donne, soprattutto con riferimento ad una prima fase in cui l'Agresta sarebbe stata sovrastata dalla Bruno, tanto da decidersi ad utilizzare un corpo contundente ed a somministrare dei farmaci alla rivale al fine di simularne il suicidio. Così come arbitraria ed intrinsecamente illogica sarebbe la ritenuta estemporaneità della decisione di prelevare i medicinali dall'abitazione della madre, di coinvolgere un terzo e di individuarlo all'istante, al fine di vincere la resistenza della Bruno (ricorsi del Procuratore Generale e dell'avv. Cristiani).
Ancora, un'illogicità che rasenterebbe la "bizzarria" sarebbe ravvisabile laddove la sentenza impugnata, al fine di giustificare la dinamica dei fatti così come arbitrariamente ricostruita, giustifica la telefonata dell'Agresta al Pisano verso le 11, 30 (quando, cioè, costui, secondo la tesi della decisione denunciata, si accingeva ad uscire dagli uffici del catasto) per il timore che l'amante potesse improvvisamente sopraggiungere a Riano; a parte che sarebbe del tutto illogica una telefonata nel pieno della cruenta azione omicidiaria, di tale colloquio non vi è traccia agli atti essendo stati acquisiti esclusivamente i tabulati delle chiamate in uscita; ma, quel che più importa, il Pisano aveva affermato, sì, di aver avuto un colloquio con l'amante, ma aveva anche precisato che era stato lui a chiamarla (ricorsi del Procuratore Generale e dell'avv. Cristiani).
La circostanza, poi, che a collaborare nell'azione omicidiaria potesse essere stato Sabatino Gigante risulterebbe smentita dal fatto che la segretaria comunale Ivana Gentili ha dichiarato che il Gigante la raggiunse nel suo ufficio tra le 11 e le 12, dunque nel momento più cruento dell'omicidio.
Viene, ancora, dedotta illogicità della motivazione con riferimento alla prova d'alibi.
Sarebbero state valorizzate deposizioni di testimoni nessuno dei quali ha riferito della presenza del Pisano negli uffici del catasto il mattino del delitto, mentre entrambe le sentenze avevano dato per pacifico che, per evitare file ed attese, il Pisano si serviva della collaborazione di impiegati ai quali consegnava previamente le pratiche già compilate; al contempo, i riferimenti a persone ed a situazioni non implicano una diretta conoscenza dei fatti, che il Pisano potrebbe avere appreso da terze persone, recatesi in sua vece in detto ufficio; tanto più che era suo interesse precostituirsi un alibi convincente. Inoltre, simili precisazioni furono fornite solo nell'interrogatorio dell'8 novembre 1993, quando il condannato trovavasi detenuto da oltre tre mesi, sia pure in isolamento. Senza contare la non esatta coincidenza tra i fatti riferiti dal Pisano e quelli risultanti dalle deposizioni dei testimoni presenti negli uffici del catasto. D'altro canto, che il Pisano si sia recato personalmente in tale ufficio non potrebbe neppure ricavarsi dall'assenza di chiamate in uscita dal telefono cellulare: ben avrebbe potuto utilizzare altro telefono o giungere al catasto prima di recarsi al lavoro (ricorsi del Procuratore Generale, dell'avv. Taormina e dell'avv. Cristiani, i quali ultimi, stigmatizzano, punto per punto, i nove asseriti riscontri della prova d'alibi).
Entro simile quadro non sarebbe esente da illogicità pure la vicenda relativa all'acquisto delle chiavi presso il negozio di ferramenta. L'impugnata sentenza argomenta che dalla "strisciata" delle battute di cassa risulterebbe provato l'acquisto sia delle chiavi sia degli arnesi da giardino; sennonchè il Pisano, dopo il fatto, descrisse minuziosamente gli acquisti effettuati ed il prezzo non corrisponde a quello dichiarato in sede di revisione (ricorsi del Procuratore generale e degli avvocati Taormina e Cristiani).
Sul punto concernente la tardività della denuncia si addebita tale comportamento al Pisano, risultando una sua chiamata alla Agresta alle 22,24 del 4 agosto, proprio nella fase dell'occultamento del cadavere della Bruno, così da lasciar chiaramente intendere che il Pisano avesse atteso l'adempimento dell'incombente prima di denunciare la scomparsa della moglie: un dato puntualmente risultante da entrambe le sentenze pronunciate in sede di cognizione (ricorsi del Procuratore Generale e dell'avv. Cristiani).
Un altro addebito concerne l'interpretazione della telefonata della Agresta al fratello di Massimo Pisano. La sentenza sostiene che il racconto relativo al responso della cartomante era stato riferito alla sua amante dallo stesso Pisano, così da argomentare che la chiamata era stata di iniziativa della sola Agresta. Trascurando però che il Pisano era perfettamente a conoscenza di tale circostanza, e senza dare alcun rilievo al fatto che l'imputato telefonò alla Agresta alle 18, 57 certamente per parlare con lei di tale colloquio, con inevitabili, conseguenti sospetti che sarebbero dovuti insorgere a carico di costei. Donde la conclusione che la telefonata al fratello fu concordata tra i due così come correttamente ritenuto dai giudici della cognizione. In più il Pisano, nel parlare della telefonata con la Soricelli, ebbe a riferirle - circostanza che secondo lo stesso Mario Pisano non sarebbe stata svelata dall'ignota interlocutrice - che il presunto amante della moglie era un postino; un dato di estremo rilievo, perchè i resti della povera Cinzia erano stati avvolti in sacchi della posta.
Ulteriori, articolate deduzioni vengono svolte relativamente alla data dell'acquisto dell'anello, alla causale all'esclusione dell'incontro il pomeriggio del 5 agosto ed alla irrilevanza delle ecchimosi rilevate sul corpo del Pisano, nonchè ai tempi di percorrenza del tratto da via Pier della francesca e Riano.
22. Ritengono queste Sezioni unite che tali censure, una volta superato il vaglio di ammissibilità della richiesta, rivelano, sotto un duplice, ma complementare, ordine di profili, una diretta irruzione nel meritum causae, secondo un'operazione non consentita in sede di legittimità.
22.1. Sotto un primo profilo, la problematica risulta soprattutto incentrata, proprio per il valore esponenziale assegnato (in positivo o in negativo) al rapporto tra controllo della Corte ed esame degli atti processuali, sul c.d. travisamento del fatto - sul quale, peraltro, questa Corte dovrà approfondire il suo esame, sia per essere stato dedotto un tale tipo di vizio da pressochè tutti i ricorrenti sia alla stregua dei rilievi avanzati proprio dalla difesa del Pisano - che, secondo l'interpretazione giurisprudenziale formatasi nel vigore dell'abrogato codice di rito, era ravvisabile quando il giudice del merito avesse ammesso un fatto manifestamente escluso dagli atti del procedimento ovvero avesse escluso un fatto manifestamente risultante dagli atti stessi; esso veniva, infatti, definito come uno dei modi di manifestarsi del vizio della motivazione, determinando la pronuncia di una decisione avente per oggetto un fatto non provato, ma, in se stesso, del tutto diverso da quello effettivamente e processualmente provato.
Il travisamento del fatto era, perciò, strettamente collegato, fino ad identificarsi, con la problematica relativa al sindacato della Corte di cassazione in ordine alla valutazione della prova, censurabile, appunto, solo nel caso di illogicità della motivazione o di travisamento dei fatti. Il vizio veniva prevalentemente configurato come motivo di ricorso quando la pronuncia fosse stata adottata sul presupposto (ritenuto di rilevanza decisiva) dell'esistenza o dell'inesistenza di fatti che, invece, dagli atti risultassero inesistenti o esistenti; nel senso, quindi, che la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di merito non potesse trovare alcun riferimento negli atti di causa o quando non fossero con certezza provate determinate circostanze poste a base della decisione. Ovvero anche quando il giudice avesse trascurato di sottoporre al proprio esame fatti decisivi ai fini del giudizio, nel senso che se fossero stati convenientemente valutati, avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata.
Ci si trovava in presenza, dunque, di una situazione patologica coinvolgente la motivazione, risolvendosi in un vizio logico giuridico della ratio decidendi, così da determinare mancanza o contraddittorietà dell'apparato argomentativo, e che, per essere configurabile, non presupponeva che il giudice avesse soltanto ammesso un fatto manifestamente escluso dagli atti processuali o avesse escluso un fatto manifestamente risultante dagli atti stessi, essendo necessario che il fatto medesimo avesse avuto incidenza su un punto decisivo per il giudizio, nel senso che l'ammissione o l'esclusione del fatto, rispettivamente escluso o ammesso, avrebbe determinato una diversa decisione. Il vizio in parola poteva essere fatto valere come motivo di ricorso, determinando la nullità della sentenza, solo, quindi, nel concorso di due condizioni: l'ammissione da parte del giudice di merito di un fatto manifestamente escluso dagli elementi probatori ritualmente acquisiti, ovvero l'esclusione di una situazione emergente in modo evidente dagli atti processuali; l'incidenza dell'erronea ammissione od esclusione sul decisum, nel senso che, in caso contrario, il giudice sarebbe pervenuto ad una diversa decisione.
Si parlava anche di deviazione assoluta, percepibile ictu oculi, tra le emergenze del processo e la ricostruzione del fatto operata dal giudice, nel senso che il fatto preso in considerazione e ritenuto non dovesse trovare un corrispondente negli atti di causa, ma dovesse apparire piuttosto come una ricostruzione obiettiva diversa da quella effettiva oppure carente di elementi decisivi per la ricostruzione giuridica del fatto; comportando così il venir meno della motivazione sul fatto vero.
Si era, in tal modo, affermata l'ipotizzabile del travisamento del fatto quando il giudice avesse posto a base del suo ragionamento un presupposto falso o inesistente ovvero avesse valutato un avvenimento in contrasto con la comune elementare logica umana.
Quel che è significativo ancora notare - ai fini di un'indagine comparativa con l'interpretazione seguita nel sistema del codice vigente - è che talune pronunce sembravano precludere, ai fini dell'accertamento del travisamento del fatto, l'esame degli atti.
Premesso che i limiti istituzionali del sindacato sul fatto da parte della Corte di cassazione non possono essere valicati laddove ci si avvalga della denuncia di un difetto di motivazione per richiedere in realtà un terzo giudizio di merito, difforme da quello già operato nei primi due gradi della giurisdizione e che la Corte può e deve limitarsi al controllo della validità intrinseca ed estrinseca dei provvedimenti impugnati, non potendo sindacare, in quanto tali, i giudizi di merito, si è affermato che, presa in esame la motivazione della sentenza impugnata, in relazione a quelli che erano stati i motivi di appello, la Corte deve limitarsi a considerare se alle censure contenute nei motivi di gravame il giudice abbia dato congrua e adeguata risposta, se tale risposta sia esente da quei vizi di costruzione che da tempo la dottrina e la giurisprudenza hanno schematizzato sotto i paradigmi dell'omissione, del travisamento, dell'apoditticità e della contraddittorietà.
Sulla stessa linea si era ritenuto che, in tema di ricorso per cassazione, la non corrispondenza tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata potesse essere dedotta qualora riguardasse l'erronea qualificazione giuridica del fatto, percepibile in modo manifesto dal provvedimento impugnato, senza alcun esame degli atti e senza alcun diverso apprezzamento degli elementi di fatto, non consentito in sede di legittimità.
Si ritenevano, invece, al di fuori dall'area del travisamento del fatto i casi di interpretazione e di apprezzamento della prova acquisita al processo. Ovvero quelli in cui, nell'esercizio del suo potere discrezionale, il giudice avesse, attraverso la valutazione delle prove, ricostruito il fatto sulla base di elementi risultanti dal processo, pur se discordanti e suscettibili di una diversa interpretazione; precisandosi che in tal caso ci si trova in presenza di apprezzamenti di merito sottratti al sindacato della Corte di cassazione se logicamente e congruamente motivati. Ancora, non veniva ravvisata la sussistenza del travisamento nell'ipotesi in cui il giudice, interpretando le risultanze processuali nell'esercizio del suo potere discrezionale, avesse accettato come rispondente alla verità obiettiva l'una piuttosto che l'altra delle descrizioni del fatto che gli erano state prospettate, valutando le risultanze in senso diverso da quello proposto dalla parte interessata, senza incorrere, nello spiegare le ragioni della scelta, in vizi logici di ragionamento, vizi che avrebbero reso la pronuncia censurabile per illogicità e non per travisamento del fatto.
In tale quadro ermeneutico le Sezioni unite ebbero a statuire che non è deducibile quale travisamento la scelta che, sotto l'aspetto dell'apprezzamento e dell'interpretazione del fatto, viene espressa dal giudice di merito in ordine a specifiche situazioni che emergono dal processo e che appaiono tra di loro, in tutto o in parte, di segno diverso, essendo tale attività di scelta la manifestazione più tipica della "discrezionalità vincolata" propria del giudizio di merito; sotto il profilo del travisamento, l'esame in fatto di circostanze è sottratto come tale al sindacato della Corte di cassazione, in quanto introdurrebbe surrettiziamente un terzo grado di giudizio di merito.
Questa breve silloge delle posizioni della giurisprudenza in tema di travisamento del fatto sta a comprovare come, nonostante l'estrema varietà delle fattispecie esaminate dalla Corte e la corrispondente varietà degli enunciati, l'esperienza giurisprudenziale avesse, non di rado, inteso tale vizio in senso assai ampio, così da giustificare di frequente una revisione dell'assetto probatorio ad opera della Corte per controllare l'esattezza della verifica effettuata dal giudice di merito, con in più il sindacato sul se agli atti di cui il ricorrente aveva sollecitato il controllo dovesse o no riconoscersi il significato attribuito dal giudice di merito. Con conseguenti riverberi, non soltanto quanto al ruolo della Corte di cassazione, ma anche quanto agli strumenti di cui la Corte può disporre per il riesame dei verbali di causa.
22.2. Secondo la pressochè costante giurisprudenza della Corte di cassazione, alla stregua del precetto dell'art. 606 c.p.p. 1988, il controllo di legittimità è volto ad accertare che a base della pronuncia del giudice di merito esista un concreto apprezzamento delle risultanze processuali e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici, restando escluse da tale controllo, non soltanto le deduzioni che riguardano l'interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova nonchè la scelta di quelli ritenuti determinanti, ma anche le incongruenze logiche che non siano manifeste, ossia macroscopiche, eclatanti, assolutamente incompatibili con le conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi utilizzati dai giudici; cosicchè - si è detto - non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti nè su altre spiegazioni fornite dalla difesa, per quanto plausibili e logicamente sostenibili (Sez. VI, 4 dicembre 1995, Ficarra). Dal che sembrerebbe ricavarsi che, purchè il giudice di merito abbia enunciato i criteri adottati per la valutazione della prova, seguendo itinerari interpretativi plausibili e si sia informato al principio di completezza, valutando tutti i dati dimostrativi, la motivazione è da ritenere corretta pure se possa dirsi verosimile un'alternativa ricostruzione dei fatti posta a fondamento della statuizione. Prescegliendosi talora, nella verifica della correttezza e della logicità della motivazione, l'argomentazione che non si fondi sulla certezza della ricostruzione operata, ma sulla metodologia adottata. E ciò proprio per la natura di vitium in procedendo che contrassegna l'ipotesi prevista dall'art. 606 lettera e.
Con la conseguenza che sarebbe incensurabile quella decisione (conforme o difforme rispetto all'ipotesi) che sia rispondente ai criteri di valutazione della prova stabiliti dalla legge. Anche se, forse, fra le scelte possibili nella ricostruzione dei fatti sottoposti all'esame del giudice di merito debba risultare quella più probabile, tanto da far soccombere l'alternativa altrettanto logica, purchè prospettata e confutata. In caso contrario, finirebbe per accreditarsi la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che, come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.
Si vuol dire, cioè, che una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad un diversa lettura o interpretazione (Sez. un., 27 novembre 1995, Mannino). Proprio tale criterio di verifica "esterna" è stato ribadito come il solo compatibile con il sistema dalle Sezioni unite; nel senso che il giudizio del giudice di merito, purchè risponda ai criteri di correttezza, completezza e logicità, non è necessario che si prospetti (in assoluto) come il migliore dei giudizi possibile, perchè compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato i criteri della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a differenza di altre (Sez. un, 13 dicembre 1995, Clarke; in termini analoghi Sez. un., 31 maggio 2000, Jakani). Il tutto purchè il tasso di probabilità logica dell'assetto ricostruttivo sia da ritenere, alla stregua delle regole di valutazione della prova indicate nell'art. 192, comma 1, plausibile, persuasivo, non smentito dall'omesso esame di dati probatori di segno contrario in grado di attribuire al fatto una diversa (ma vincente) valutazione sul piano logico.
Alla base di una tale linea interpretativa sembrerebbe imporsi il postulato dogmatico (ma ricavabile dall'art. 619, comma 1) in base al quale la Corte di cassazione è giudice del procedimento probatorio e non del risultato della prova. Cosicchè apparirerebbe esorbitante attribuire al giudice della legittimità il compito di verificare la rispondenza a giustizia della decisione pur in assenza di lacune e di aporie motivazionali e la presenza di un apparato argomentativo logicamente incensurabile perchè conforme alle regole di inferenza espresse nel paradigma costituito dal sillogismo probatorio e che può esprimersi nella sequenza: massima di esperienza (premessa maggiore), dato probatorio (premessa minore), conseguenza (il fatto provato). Senza contare che moduli "correttivi" della motivazione in fatto che sia solo "insufficiente" sono espressamente contemplati dal combinato disposto degli artt. 547 e 130.
Su tali rilievi occorrerà attentamente soffermarsi più avanti. Sin da ora è opportuno precisare come diverrebbe argomento davvero riduttivo assegnare una valenza "neutrale" al principio che impone al giudice di valutare la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. Così da impedire ogni possibilità di verificare se dall'integrale contesto probatorio quale risultante dall'impiego del metodo inferenziale (i "criteri adottati") sia stato acquisito quel risultato, definibile in termini di certezza ipotetica, che ha determinato la decisione. Ne deriva allora che il controllo della Corte di cassazione sulla motivazione in fatto della sentenza deve necessariamente esaurirsi in questa verifica. Alla quale, peraltro, non è estranea l'analisi della massima di esperienza impiegata, al solo scopo di accertare se tale massima possa così definirsi.
La motivazione, dunque, per essere inattaccabile in cassazione, deve rivelare che il processo formativo del libero convincimento del giudice non ha subito il condizionamento di una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti, altrettanto negativi, di un'imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Sez. un., 23 novembre 1995, Fachini); anche qui nel senso della esternata correttezza dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. Tutto ciò dando implicitamente (ma talora anche esplicitamente) rilievo all'attributo "manifesta" che deve contrassegnare l'illogicità e che comporta una più debole verifica delle diverse ricostruzioni prospettate alla stregua dei mezzi di prova la cui incidenza sia stata disattesa.
Nonostante tali premesse, le linee dell'interpretazione giurisprudenziale sull'effettivo contenuto precettivo da assegnare all'art. 606, lettera e, appaiono tuttora contrassegnate, non di rado, da oscillazioni.
Una prima tendenza è assolutamente categorica nell'escludere qualsivoglia opera di controllo del giudice di legittimità che ecceda l'esame del provvedimento denunciato, al fine di verificare la sussistenza di vizi concernenti la motivazione.
Si è così puntualizzato che, nel nuovo ordinamento processuale l'indagine sulla struttura razionale della motivazione, e cioè sul modo di costruire il discorso giustificativo della decisione, deve essere orientato entro un perimetro rigorosamente circoscritto; il sindacato demandato alla Corte di cassazione, infatti, per espressa disposizione normativa, deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza alcuna possibilità di spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice del merito si è servito per sostanziare il suo convincimento. Il vizio logico della motivazione, nelle sue varie espressioni - contraddittorietà, illogicità, omessa considerazione di circostanze decisive e, pur anche, il travisamento del fatto deve, perciò, essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali: non vi è, dunque, più spazio - si è affermato - per quell'operazione interpretativa che, sotto l'egida delle precedenti norme regolatrici del processo penale, aveva reso possibile scivolare dalla contraddittorietà, intesa come contrasto analitico tra le varie proposizioni, alla illogicità, concepita come contrasto tra le argomentazioni del contesto motivazionale e la realtà processuale o, addirittura, la comune esperienza ovvero il comune modo di "sentire" un fatto; i due unici vizi di legittimità inerenti alla motivazione dei provvedimenti di merito sono ora la mancanza - che vuol dire difetto assoluto di argomentazioni su uno qualsiasi dei momenti applicativi della decisione - e la illogicità evidente, risultante dallo stesso testo della motivazione (ex plurimis, Sez. I. 30 gennaio 1991, Levante).
Si è osservato così che la misura ed il limite della cognizione della Corte di cassazione sulla legittimità della decisione del giudice di merito sono individuabili dal catalogo dei motivi di ricorso di cui all'art. 606, i quali escludono la deducibilità di ragioni attinenti la individuazione, la cernita, la valutazione dei fatti processuali; in particolare, il vizio (non risolvendosi in mancanza assoluta) di motivazione è circoscritto alla manifesta illogicità che risulti "dal testo del provvedimento impugnato" ed il potere-dovere di cognizione della Corte è limitato all'esame della struttura logica del documento, con esclusione di verifiche negli atti del procedimento; negandosi che possa ritenersi sussistente un "contrasto con le risultanze processuali" come vizio di motivazione, sostenuto dalla deduzione di circostanze di fatto non risultanti dal provvedimento impugnato, del quale si contestava completezza e razionalità interna (Sez. V, 20 agosto 1991, Iermanò).
Se il ricorrente, perciò, deduca la mancanza di motivazione in ordine all'allegazione di elementi, che si assumono decisivi, il giudice di legittimità deve prendere in esame esclusivamente il testo del provvedimento impugnato e non anche gli atti o i verbali di causa; con la conseguenza che la Corte potrà annullare il provvedimento soltanto nel caso di totale difetto di motivazione o nell'ipotesi in cui detta carenza emerga dal raffronto tra i motivi di appello ed il testo della decisione di secondo grado (Sez. III, 27 marzo 1990, Castaldi).
In una diversa prospettiva, una decisione di estremo interesse, penetrando direttamente nel rapporto tra contenuto della motivazione, intesa come concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è fondata, ricollega, expressis verbis, alla motivazione, non soltanto l'indicazione delle prove poste a base della decisione, ma anche l'enunciazione delle ragioni per cui il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie. Precisando come le argomentazioni che specificamente riguardano le ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove a favore dell'imputato devono avere lo stesso spessore di adeguatezza e coerenza richiesto per la motivazione delle prove a carico; e nella comparazione delle scelte operate e del privilegio accordato agli uni o agli altri elementi acquisiti va data congrua dimostrazione, senza salti logici. Analogamente, si è affermato in ordine alla motivazione che non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti rivolte dalle parti, relativamente ad una prova cui la parte aveva attribuito un rilevante valore dimostrativo (Sez. IV., 15 novembre 1996, Izzi).
Enunciati, questi, dai quali, dunque, sembrerebbe cogliersi il principio che il giudice prospetta una motivazione illogica (o, forse, soltanto apparente) nell'esternare il suo convincimento quando l'assetto complessivo del suo argomentare non riveli una compiuta analisi critica di ogni elemento portato al suo esame, omettendo di indicare i criteri adottati in relazione sia alle prove a carico sia alle prove a favore dell'imputato.
Sempre nel perimetro del vizio della motivazione, un'altra decisione ha ritenuto illogica una motivazione che, pur riconoscendo la possibilità di acquisire una prova che dimostri in modo diretto la sussistenza o no di un reato o anche di un solo elemento della fattispecie criminosa dedotta in contestazione, ne ha escluso l'ammissibilità sul presupposto della sua non indispensabilità o necessità, dovuta alla presenza di prove indiziarie o logiche ritenute sufficienti per la decisione in ordine al reato nel suo complesso o ad un elemento di esso; il tutto - prosegue la decisione - in omaggio ad un principio di gerarchia delle prove, implicito nel nostro sistema processuale, in virtù del quale la prova diretta prevale su quella indiziaria e logica, in quanto idonea più di questa a dimostrare il thema probandum ed a costituire, pertanto, fondamento della certezza morale e giuridica che è presupposto indispensabile di una sentenza di condanna (Sez. II, 12 marzo 1995, Ghiani). Da tale statuizione, che meriterebbe di essere meglio decifrata, non è difficile far scaturire, oltre che la prefigurazione di un sistema attestato su una sorta di gerarchia delle fonti probatorie più consona ad un regime informato alle regole della prova legale, soprattutto una non lineare sovrapposizione del vizio consistente nella illogicità della motivazione e l'altro caso di ricorso previsto dalla lettera d, dell'art. 606.
Si è ritenuto, inoltre, ravvisabile, il vizio di motivazione inesistente quando la motivazione, formalmente esistente, sia del tutto avulsa e dissociata dalle risultanze processuali o si avvalga di affermazioni di puro genere o di asserzioni apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa dell'assunto, vale a dire, in tutti quei casi nei quali il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Sez. II, 8 febbraio 1992, Maiale). Dunque, si è ancora detto, la motivazione è da ritenere mancante, non solo quando vi sia un difetto grafico della stessa, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall'interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; il che impone una verifica da parte della Corte di cassazione dei motivi di appello al fine di accertare la congruità e la completezza dell'apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado, con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Corte di cassazione la disamina della specificità delle censure formulate con l'atto di appello quale necessario presupposto dell'ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte. Una tematica, quella ora ricordata, circa l'estensione dei limiti del controllo della Corte in rapporto agli atti difensivi, purchè questi contengano specifiche censure, che autorizza una verifica - sia pure indiretta - del contenuto empirico della decisione, soprattutto sotto il profilo del deficit motivazionale. In tal modo consentendosi l'annullamento della sentenza impugnata a prescindere dal contenuto delle doglianze, ma soltanto in funzione di tale deficit, riguardante tutti gli atti ai quali alla Corte è consentito accedere.
La tematica si pone in una prospettiva che, dietro il dato letterale emergente dall'art. 606, lettera e ("quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato"), nasconde una scelta di più ampio respiro circa il ruolo della Corte di cassazione, per l'insinuarsi di quella cruciale alternativa volta a configurare le funzioni della Corte ora come prevalentemente dirette a realizzare l'uniformità interpretativa anche nell'ermeneusi delle norme che disciplinano il controllo sulla motivazione in fatto, ora come fondamentalmente preordinate a perseguire esigenze di giustizia, verificando pure il giudizio sul risultato della prova.
E'chiaro, infatti, che nella misura in cui l'una delle due funzioni finisca per rivelarsi vincente, varia anche la carica ermeneutica destinata a consentire un'interpretazione dell'art. 606 nel suo integrale contesto, conforme alle effettive soluzioni legislative, analizzate nel loro insieme.
Non pare, peraltro, inutile rimarcare come la minuziosa previsione dei "casi" di ricorso e l'irruzione di vizi della sentenza prima non contemplati (o contemplati non come vizi di carattere generale: si allude, soprattutto, alla generale rilevanza dell'inutilizzabilità), tutti incentrati sulla prova, pare dar conto di un qualche disorientamento nelle analisi giurisprudenziali; tanto più che il nuovo processo, come enuncia il preambolo della legge di delegazione, deve uniformarsi ai principi del sistema accusatorio; una enunciazione alla quale, se pure fa da contrappunto l'"alternativa inquisitoria", costituita dall'introduzione dei riti di deflazione dei dibattimenti (che possono, perciò, definirsi l'"altra faccia" del processo accusatorio), rimane come principio base dell'attuale sistema: come è dimostrato dalla regola espressa dall'art. 526, in base al quale il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle acquisite nel dibattimento. Così il contraddittorio tra le parti proprio della fase dibattimentale fa comunque del dibattimento il luogo destinato all'assunzione della prova ed alla valutazione di essa.
Con ciò si vuol dire che alla pienezza del contraddittorio sulla prova non possa fare da riscontro se non un corrispondente indebolimento degli strumenti di gravame di merito; lo comprova, fra l'altro, la previsione del procedimento c.d. "abbreviato" in appello ed una riduzione dei poteri di verifica del giudizio di legittimità che non attengano alla violazione della legge processuale o del diritto alla prova.
22.3. Tornando alla più specifica - anche se complementare - problematica riguardante il travisamento del fatto, una prima linea di tendenza, rilevato che tale vizio non può che essere ricondotto nel quadro delle censure concernenti la motivazione, quale caso di ricorso previsto dall'art. 606, lettera e (diversa è l'ipotesi di utilizzazione di prove non utilizzabili, pur accostata dalla giurisprudenza nel vigore del codice abrogato - in un'ottica in cui l'inutilizzabilità rivestiva un ruolo davvero marginale - al travisamento del fatto), la previsione che il vizio debba risultare dal testo del provvedimento impugnato ha creato un ostacolo apparso subito insormontabile alla deduzione di una simile censura.
Secondo le impostazioni più radicali, il travisamento del fatto è stato espunto dall'ordinamento, perchè altrimenti il giudice della legittimità, che è giudice della motivazione, diverrebbe giudice del contenuto della prova, così da assolvere un compito estraneo a quello devolutogli, essendo richiesto dalla legge che eventuali contrasti siano interni alla motivazione, tanto da escludere la comparazione fra un dato della motivazione e un dato ad essa esterno (Sez. I, 21 dicembre 1992, Zuncheddu). Il tutto in una prospettiva che conduce a non ravvisare nel travisamento del fatto un vizio della motivazione (Sez. III, 11 giugno 1993, Cesco), perchè esso implica, ai fini della sua riconoscibilità, un esame comparativo tra quanto ritenuto in ordine a quel fatto e quanto rilevabile, in termini di palese evidenza dagli atti del procedimento.
Ad un ancor più accentuato rigorismo interpretativo si ispira quella tendenza giurisprudenziale la quale, dopo aver affermato che la cognizione della Corte di cassazione è stata drasticamente ridimensionata dalla previsione che il vizio di mancanza e di illogicità della motivazione debba essere "manifesto" e che il vizio stesso debba risultare dal testo del provvedimento impugnato ha, ancora una volta, escluso che il travisamento del fatto possa più trovare ingresso nel giudizio di legittimità.
In una di queste pronunce, particolarmente elaborata - e fors'anche alquanto suggestiva - la Cassazione (Sez. III, 11 giugno 1993, Tacus), affronta tre temi, costituenti altrettanti ordini di censure: in primo luogo, il controllo giuridico della motivazione da parte della Corte anche nel vigore del codice abrogato; in secondo luogo, il travisamento del fatto; infine, la denuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 606, lettera e, così come interpretato dalla giurisprudenza prevalente, per contrasto con il principio di ragionevolezza.
Sul primo punto la Corte è assolutamente categorica. Sia nel vigore del codice del 1930 sia, ancor di più, nel sistema del codice del 1988, il giudizio ricostruttivo dei fatti ed il giudizio valutativo degli stessi spettano al solo giudice di merito. Alla Corte di cassazione compete effettuare un controllo di logicità esclusivamente ab extrinseco; essa non può sindacare, quindi, il contenuto del convincimento del giudice del merito, ma può soltanto controllare la correttezza degli enunciati, la logicità dei passaggi fra premesse e conseguenze. In sintesi, perchè sussista mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione è necessario che nella sentenza non si rinvengano le argomentazioni capaci di dar ragione delle statuizioni conclusive contenute nel dictum finale. L'ordinamento processuale non prevede, infatti, il giudizio di cassazione come terzo grado di merito.
Sul punto concernente il dedotto travisamento del fatto la sentenza è ancor più perentoria: esso non è compatibile nè con il precedente nè con l'attuale ordinamento processuale.
Nel sistema nel nuovo codice, poi, ancor più che in quello del codice abrogato, il controllo sulla motivazione da parte della Corte deve restare circoscritto all'ambito della pura legittimità. Il che risulterebbe a chiare lettere soprattutto dall'inciso "quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato", figurante nell'art. 606, lettera e: l'inciso non può prestarsi ad equivoci di sorta; esso sta univocamente a significare che la Corte di cassazione non può "risalire dalla sentenza impugnata agli atti del processo dalla sentenza presi in considerazione" perchè ciò significherebbe invadere la competenza dei giudici di merito. Il sindacato della cassazione sulla motivazione deve, dunque, "essere limitato al riscontro dell'esistenza di una motivazione logica in ordine ai vari punti del provvedimento impugnato, senza alcuna possibilità di verifica dell'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è servito per supportare il suo convincimento". Il vizio logico della motivazione deve allora essere riscontrato esclusivamente tra le varie proposizioni inserite nella motivazione.
Infine, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 606, lettera e, nella parte in cui non consente l'esame degli atti quando venga denunciato il travisamento del fatto, è manifestamente infondata perchè la scelta del legislatore "è la più ragionevole possibile", ammettendosi soltanto due gradi di giurisdizione di merito, delle cui decisioni si presume l'esattezza, "col mantenere la Corte di cassazione come istanza di mera legittimità", così da "contrastare l'ipertrofia decisionale non produttiva di migliore giustizia" (cfr. anche Sez. I, 13 novembre 1995, Kanoute).
Un simile, necessario self restraint deriva dall'intera impalcatura del codice riformato che può sintetizzarsi nell'introduzione del principio accusatorio, dal quale dovrebbe discendere "il privilegio del giudizio dibattimentale di primo grado". E ciò perchè se la corretta valutazione della prova si forma davanti al giudice di primo grado, l'appello stesso dovrebbe essere contenuto in precisi limiti. E, pur non essendosi il legislatore mosso in questa direzione, ha però tentato di contenere gli sconfinamenti nel merito della Corte di cassazione.
Ne viene fuori una Corte prevalentemente proiettata verso una funzione nomofilattica, il cui compito di garanzia resta rigorosamente circoscritto proprio allo scopo di scongiurare qualsivoglia sconfinamento nel meritum causae; una logica cui risultano essersi ispirati i conditores e che ha il punto cruciale di rilevanza interpretativa proprio nel regime delle censure concernenti la motivazione.
Resta però nell'ombra il valore da assegnare all'art. 546, comma 3, lettera e, con riferimento alla mancata enunciazione delle ragioni per le quali il giudice di merito abbia ritenuto inattendibili le prove contrarie; ma la scelta della Corte, tutta protesa ad una verifica interna al testo del provvedimento impugnato non lascia spazi a soluzioni diverse - quando si verifichi un deficit motivazionale di questo tipo - da quella di restringere al contesto dimostrativo risultante dalla sentenza di merito la verifica del giudice di legittimità.
Al quesito sembra dare risposta un'ulteriore decisione che trattando, ex professo, del vizio di travisamento del fatto, ha precisato che esso, in tanto può essere sindacabile in sede di legittimità, in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi, tassativamente previste, della "mancanza" o della "manifesta illogicità" della motivazione; il che richiede (essendo fuori dei compiti istituzionali della Corte di cassazione l'esame diretto degli atti del procedimento, ai fini del giudizio in ordine alla correttezza o meno della loro valutazione da parte del giudice), la dimostrazione, ad opera del ricorrente, dell'avvenuta rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sì che la Corte di cassazione possa, a sua volta, verificare dal "testo del provvedimento impugnato" (come previsto dall'art. 606, lettera e), se e come quegli elementi siano stati valutati (Sez. I, 1° giugno 1992, De Santis). Con il che sembra che il travisamento del fatto venga più correttamente definito come vizio incidente in modo diretto sulla motivazione, quale espressione della mancanza (ovvero della incompletezza decisiva per essere la statuizione priva delle ragioni per le quali il giudice ha ritenuto non attendibili le prove contrarie) o della illogicità della stessa.
Seguendo i medesimi tracciati interpretativi, si è statuito che, in virtù del disposto dell'art. 606, lettera e, è inibito al giudice di legittimità, in tema di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, una disamina degli atti di causa, anche quando venga prospettato il vizio di travisamento del fatto, perchè il legislatore ha voluto restringere ed individuare con precisione i poteri del giudice nei singoli gradi di giudizio; il tutto con un'importante precisazione: che, cioè, a tal fine, è però indispensabile che il giudice di merito indichi con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione, per consentire all'interessato di formulare le più appropriate censure ed alla Corte di cassazione di esercitare la funzione di controllo, che le è propria (Sez. II, 4 aprile 1992, Vari).
Ne consegue, allora, che le restrizioni interpretative risultano solo apparentemente indebolite da quelle decisioni che, pur affermando la sussumibilità del travisamento del fatto nell'area del vizio della motivazione, ne ammettono la rilevanza solo a condizione che il ricorrente dimostri l'avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento. Così, per un verso, da introdurre nella valutazione del giudice gli atti difensivi (oltre che, ovviamente, la sentenza di primo grado) e, per un altro verso, da riversare sul giudice di merito il compito di precludere che possa insorgere anche il solo sospetto che la motivazione non corrisponda alla realtà dei fatti.
E'questo, un punto su cui occorre attentamente soffermarsi perchè la linea interpretativa seguita dalla giurisprudenza ormai decisamente prevalente, se non consolidata, che ritiene impercorribile un'irruzione della Corte negli atti del processo, anche quando la motivazione contenga l'indizio che è stato ritenuto esistente un atto inesistente o inesistente un atto esistente - conduce ad estremizzare la nozione di completezza della motivazione allo scopo proprio di evitare che venga surrettiziamente introdotto quel vizio ormai cancellato dall'ordinamento. Il tutto solo in apparente contrasto con il disposto dell'art. 546, lettera e, che non attiene, dunque, al quantum del contesto motivazionale, ma al quomodo delle argomentazioni.
Si spiega allora perchè si riscontrino statuizioni le quali prospettano la necessità che il giudice di merito indichi con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto sui quali fonda la propria decisione, per consentire all'interessato di formulare le sue censure ed alla Corte di cassazione di esercitare il controllo che le è proprio; così da imporre al detto giudice il dovere di una più diffusa motivazione e comunque di indicare, almeno per sommi capi, gli elementi dai quali risulta la sussistenza del reato. Fino ad affermarsi che il giudice di merito deve assolvere l'obbligo di esporre gli elementi di fatto ritenuti e posti a fondamento del giudizio, perchè alla ricostruzione storica della vicenda processuale il giudice di legittimità deve affidarsi nella valutazione dell'adeguatezza, congruità e logicità della motivazione del provvedimento impugnato, secondo la regola posta dall'art. 606, lettera c; con la conseguenza che la completezza della cognizione del fatto si pone come conditio sine qua non perchè la Corte di cassazione possa esercitare il suo ruolo di giudice di legittimità, sicchè ove tale ricostruzione manchi o risulti frammentaria, s'impone l'annullamento con rinvio del provvedimento medesimo.
Ne scaturisce, dunque, la compatibilità del travisamento del fatto anche con il nuovo sistema, ma la sua rilevabilità rimane circoscritta ai casi in cui il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato, cui accedono anche, come elementi indicativi delle lacune della decisione, le doglianze dell'interessato alle quali il giudice del merito non abbia dato risposta. Ferma restando l'impossibilità di riscontrare la denuncia alla stregua degli atti processuali in ordine ai quali si contesti l'assenza di verifica o l'illogicità della verifica stessa.
Le Sezioni unite (Sez. un., 30 aprile 1997, Dessimone), chiamate a pronunciarsi su censure concernenti la dedotta illogicità della motivazione, hanno enunciato due ordini di principi che coinvolgono direttamente la problematica sulla quale si registrano le maggiori tendenze difformi sia della dottrina sia della giurisprudenza.
Hanno ritenuto, in primo luogo, che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento e la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Cosicchè esula dai poteri della Suprema Corte quella "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera proposizione di una diversa e per il ricorrente più adeguata valutazione delle risultanze processuali. Il nuovo legislatore, infatti - proseguono le Sezioni unite, battendo un leit motiv, derivante da un assestamento ermeneutico che talora pare più semantico che concettuale - ha voluto evitare che il controllo sulla motivazione si eserciti sul contenuto della decisione, all'uopo circoscrivendo l'opera di controllo alla mancanza e alla manifesta illogicità della motivazione; in più stabilendo che tali vizi devono risultare dal testo del provvedimento impugnato e non da una diversa prospettiva ricostruttiva. La dizione dell'art. 606, lettera e, non lascia, dunque, equivoci quanto al fatto che il sindacato della Corte si estende alla logicità della motivazione, ma non può giustificare la sostituzione dei criteri e delle massime di esperienza adottati dal giudice di merito con altri, invece, prescelti dal giudice di legittimità. E, precisano ancora le Sezioni unite, la illogicità per essere denunciabile in cassazione deve essere evidente, cioè di tale spessore da divenire percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento.
Conseguente, se non addirittura complementare, il secondo principio affermato. E cioè che il travisamento del fatto, in tanto può essere sindacabile in sede di legittimità in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi tassativamente indicate dall'art. 606, lettera e; richiedendosi, da parte del ricorrente, la dimostrazione della avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase d'impugnazione, degli elementi dai quali quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicchè la Corte possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi siano stati valutati (cfr., sulla stessa linea, più di recente, Sez. un., 24 novembre 1999, Spina).
La decisione, a ben vedere, segue solo apparentemente una linea di estremo rigore. La sentenza denunciata in cassazione - si afferma - è congrua (vale a dire, si è uniformata al criterio di completezza) e logica nei suoi passaggi argomentativi che rispondono in modo corretto a tutte le censure; d'altro canto, non è compito della Corte verificare se le argomentazioni della sentenza impugnata siano adeguate al fine di pervenire al suo convincimento o se esse rispondano agli atti del processo. L'apparato argomentativo - si afferma - è logicamente incensurabile di per sè perchè le conclusioni corrispondono alle premesse; non è consentito alla Corte "rileggere" gli elementi di fatto posti a base della decisione, mentre, sul piano della "completezza", non è necessario che venga confutata ogni singola censura, occorrendo che ciascun argomento sia logicamente incompatibile con la decisione che è stata pronunciata.
Laddove, però, la sentenza in esame mostra talune incertezze è nell'ammettere che, anche nel sistema del nuovo codice, il vizio di travisamento del fatto assume rilevanza, pur non consentendo la legge l'accesso all'esame degli atti, così da ricondurre tale vizio alla manifesta illogicità della motivazione quando il vizio risulti dal provvedimento impugnato. Tanto da trascurare come, secondo la giurisprudenza prevalente nel regime del codice abrogato, che riteneva censurabile la sentenza per travisamento del fatto, come vizio ravvisabile quando il giudice del merito avesse ammesso un fatto manifestamente escluso dagli atti del procedimento ovvero avesse escluso un fatto manifestamente risultante dagli atti stessi, il vizio venisse costruito nell'area delle censure concernenti la motivazione in quanto determinante la pronuncia di una decisione avente per oggetto un fatto non provato, ma, in se stesso, del tutto diverso da quello effettivamente e processualmente provato.
Come sia possibile, dunque, rilevare il travisamento del fatto dal testo del provvedimento impugnato resta davvero di difficile comprensione, a parte l'ipotesi, da ritenere quasi del tutto teorica, di un fatto affermato o negato nella parte narrativa e corrispondentemente negato o affermato nella motivazione in diritto; nel qual caso ci troveremmo, però, di fronte ad una motivazione affetta da manifesta illogicità perchè manifestamente contraddittoria.
In una posizione diametralmente opposta si pongono quelle statuizioni le quali ritengono che il travisamento del fatto, non soltanto sia denunciabile per cassazione, ma consenta alla Corte di rilevare il vizio denunciato attraverso l'incursione negli atti processuali.
Punto di partenza di talune decisioni è, peraltro, la configurazione del travisamento del fatto come vizio della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, lettera e. Questa norma, si è affermato, nel prevedere come motivo di ricorso per cassazione la "mancanza o manifesta illogicità della motivazione" solo a condizione che il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato, ha inteso stabilire un limite unicamente alla deducibilità del vizio stesso e non anche ai poteri di accertamento del giudice di legittimità che vanno, invece, desunti dall'oggetto della pronuncia, da emettersi con l'osservanza degli artt. 620, 621 e 623, in base ai quali non solo non è escluso, ma in alcuni casi addirittura richiesto, l'esame degli atti. Ne consegue che il travisamento del fatto, costituendo vizio della motivazione, a norma del richiamato art. 606, comma 1, lettera e, e quindi causa di nullità della sentenza ai sensi dell'art. 546, comma 3, quando emerge dal testo del provvedimento impugnato consente, per il compiuto accertamento in sede di legittimità, l'esame degli atti (Sez. II, 13 luglio 1993, Sgrò).
Ha puntualizzato, ancora, la Corte che la valutazione della prova indiziaria segue un procedimento analogo a quello della prova rappresentativa giacchè anch'essa implica il riferimento a massime di esperienza ed il rispetto di un rigoroso ragionamento logico. Ne consegue che il legislatore ha richiesto soltanto una maggiore cautela per quel che concerne l'obbligo della motivazione, dovendo il giudice di merito essere più preciso nell'indicazione della ragioni che stanno alla base della sua valutazione positiva quanto alla sussistenza dei requisiti di gravità precisione e concordanza degli indizi, richiesta dall'art. 192. Per ciò che attiene ai poteri della Corte, il sindacato in ordine al rispetto da parte del giudice di merito di tali parametri comporta che il controllo sulla logicità e completezza della motivazione, se non può realizzarsi attraverso una rivalutazione del materiale probatorio, non esime il giudice di legittimità dal verificare se la motivazione sia esauriente e coerente. Spetta però alla Corte un sindacato sulle massime di esperienza utilizzate nella valutazione degli indizi, la verifica sulla correttezza logico-razionale del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l'elemento indiziario. Ed in tale opera di controllo il giudice di legittimità deve verificare la capacità del fatto noto di dimostrare il fatto ignoto, anche se non pure il modo in cui il fatto è stato ritenuto noto, salvo che vengano dedotti vizi motivazionali in specifica relazione con la ricostruzione del fatto. Un principio che finisce con il coincidere con il controllo sulla utilizzabilità di determinati atti.
La natura di mezzo di impugnazione del ricorso e l'esigenza, dunque, che gli strumenti apprestati dall'ordinamento non restino confinati, con riferimento all'ipotesi in cui si deduca mancanza o manifesta illogicità della motivazione, ad un tipo di censura comunque incongruo rispetto alle finalità di tutela che sono alla base della previsione di tali categorie di denunce, induce a talune riflessioni, aventi la sola finalità di evidenziare se l'interpretazione dell'art. 606, lettera e, esposta nella Relazione al progetto preliminare, condivisa da una giurisprudenza ormai consolidata, sia da superare sul piano ermeneutico, altrimenti potendone derivare - così come ipotizzato da una parte della dottrina - dubbi quanto alla conformità alla Costituzione della previsione di un vizio così come strutturato ovvero se la norma in tal modo vivente sia in grado di delineare un assetto armonicamente coordinato al fine di prevenire qualsivoglia irruzione della Corte di cassazione nell'area della valutazione della prova, valutazione demandata in via esclusiva al giudice di merito.
L'obiezione di fondo di ordine generale sta nella constatazione che la Corte di cassazione dovrebbe saggiare la plausibilità argomentativa della decisione sulla base delle sole informazioni che il giudice di merito ha inserito nella motivazione, secondo le sue incensurabili scelte argomentative. Donde la conclusione che l'aver espunto dai vizi della motivazione (o, forse, meglio dalle ipotesi di sindacato davanti alla Corte di cassazione) il vizio di travisamento del fatto (dato che questo si presenta come un vizio della prova che viene travisata) significa aver assegnato al controllo del giudizio di legittimità la mera adeguatezza formale della motivazione disancorandola da ogni verifica sulla sua conformità al processo.
E'certo però che la linea giurisprudenziale "permissiva" non sembra recare un utile contributo alla soluzione del problema.
Non può, infatti, ricavarsi dalle disposizioni degli artt. 620, 621 e 623 una regola da cui discende l'attribuzione alla Corte del potere di accedere all'esame degli atti del procedimento. La tesi, pur autorevolmente sostenuta anche in dottrina, secondo cui il divieto di cognitio facti ex actis circoscritto al vizio di cui all'art. 606, lettera e, risulterebbe del tutto irragionevole, considerando i poteri di verifica del fatto demandati alla cognizione della Corte a norma degli artt. 129, 620, lettere a ed f, nonchè il complessivo sistema dei casi di ricorso enunciati dall'art. 606, si rivela, dunque, non convincente.
La prima argomentazione, quella che fa leva sul disposto dell'art. 129, concernente l'immediata declaratoria, di ufficio, di cause di non punibilità (fatto non sussiste, l'imputato non l'ha commesso, fatto non costituente reato o non preveduto dalla legge come reato, reato estinto, mancanza di una condizione di procedibilità) in ogni stato e grado del processo (compreso, dunque, il giudizio di cassazione), presuppone che la causa di non punibilità "risulti" alla Corte di cassazione, secondo i modelli derivanti dall'art. 606. Il che potrà verificarsi solo alla stregua dell'esame delle sentenze di primo e di secondo grado, dell'imputazione, nonchè degli atti difensivi che abbiano eventualmente invocato l'applicazione immediata di una causa di non punibilità. Nè, soprattutto, appare contestabile che, risultando l'epilogo connesso all'applicazione dell'art. 129, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con applicazione della causa di non punibilità, l'ipotesi risulta addirittura agli antipodi con la previsione dell'art. 606, lettera e, potendo in tal caso prospettarsi il solo annullamento con rinvio, contraddetto proprio dall'art. 129.
Il richiamo all'art. 620, lettera a, a norma del quale la Corte pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio "se il fatto non è previsto come reato, se il reato è estinto o se l'azione penale non doveva essere iniziata o proseguita", riguarda un'ipotesi, anche qui, da verificare alla stregua dei poteri conferiti alla Corte di cassazione al di fuori del contesto normativo di cui all'art. 606, lettera e. In realtà, a parte le cause di non punibilità, per così dire, "di merito", l'unico problema che può correttamente proporsi è quello della individuazione del tempus commissi delicti nei casi in cui venga invocata l'applicazione di una causa estintiva. Ove una tale situazione abbia a verificarsi, o si è al di fuori del vizio di omessa o manifesta illogicità della motivazione, potendo, al più, profilarsi un'ipotesi eclatante di violazione della legge penale, vizio previsto dall'art. 606, lettera b, così da non precludere decisamente alla Corte di cassazione - senza che ne risulti destabilizzata l'organicità del sistema - un acritico accesso agli atti processuali, volto a verificare se la causa estintiva sia effettivamente venuta in essere; o si realizza un vizio della motivazione, nel qual caso la Corte potrà censurare la sentenza ove le argomentazioni concernenti il tempo del commesso reato risultino mancanti o illogiche, alla stregua delle proposte censure.
Infine, la norma di "chiusura" in tema di annullamento senza rinvio, e cioè, l'art. 620, lettera f (in base al quale la Corte pronuncia annullamento senza rinvio "in ogni altro caso in cui ... ritiene superfluo il rinvio ovvero può essa medesima procedere alla determinazione della pena o dare i provvedimenti necessari") non sembra eccedere l'ambito delle prescrizioni volte a prevenire, ove non risulti necessaria, l'instaurazione della fase rescissoria, ma sempre nell'orbita dei poteri conferiti alla Corte di cassazione.
Gli unici problemi derivano, semmai, dalla considerazione - di ordine generale - che, una volta ritenuto ammissibile il sindacato sulla mancanza e sulla manifesta illogicità della motivazione, restringere la verifica al mero esame del testo del provvedimento impugnato potrebbe apparire strumento eccedente, ma per difetto, la funzione stessa del sindacato. Fino a prospettare l'evenienza di una decisione dialetticamente ineccepibile nei suoi passaggi argomentativi, ma fondata su premesse del tutto erronee, cui accedono conseguenze che, per essere coerenti con le premesse, non possono essere se non altrettanto erronee.
Decisamente più puntuali appaiono, allora, le critiche con cui si contesta l'esistenza della stessa rigida preclusione all'esame degli atti processuali proprio nel caso in cui venga denunciata mancanza o manifesta illogicità della motivazione, così da ricondurre davvero in medias res la problematica dei moduli di rilevabilità di tale vizio e l'ambito dei poteri conferiti alla Corte di cassazione.
Pertinente (ed, almeno in apparenza, anche persuasiva) risulta, anzi tutto, la prospettiva che la motivazione di una sentenza di condanna possa essere "pienamente sintonica con il dispositivo ma in tutto o in parte smentita dagli atti processuali"; censurandosi così che, stando alla communis opinio, nessun sindacato la Corte possa compiere essendole precluso l'esame degli atti processuali. In particolare, pure considerando il ruolo cruciale dell'art. 546, lettera e, relativo al dovere per il giudice di indicare le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie, si è subito ipotizzata una sentenza di condanna conseguente ad una prova non risultante dagli atti del processo, osservandosi che in tal caso si potrebbe ovviare all'impossibilità di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 606, lettera e, evocando la violazione della lettera c, dello stesso articolo, per essersi utilizzata una prova non acquisita al processo. Il tutto facendo leva sul disposto sia dell'art. 191, comma 1, che rende inutilizzabili le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge sia dell'art. 526 che ribadisce per il dibattimento l'inutilizzabilità di prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel corso dell'istruzione dibattimentale. Di qui la conclusione che una prova di cui non vi sia traccia negli atti processuali, non potendo ritenersi legittimamente acquisita, è da qualificare inutilizzabile.
Si è anche ipotizzata la pronuncia di una decisione di condanna conseguente al travisamento di una prova, non suscettibile di essere ricondotta alla situazione prima considerata, per essere stata la prova stessa legittimamente acquisita; con la conseguenza che tale travisamento, ove non risulti dal testo della sentenza impugnata, non potrebbe essere oggetto di qualsivoglia censura.
Non si è mancato, infine, di prospettare il caso di una condanna conseguente alla mancata valutazione di una prova a favore dell'imputato, senza che tale omissione traspaia dal testo del provvedimento impugnato; anche qui, si è detto, parrebbe precluso il ricorso per cassazione.
Nelle evenienze diverse dalla prima risulterebbe palese l'illegittimità dell'art. 606, lettera e, nella parte in cui preclude di ricorrere per cassazione nelle ipotesi sopra richiamate. Sarebbe violato l'art. 3 della Costituzione per derivare la sindacabilità del travisamento o dell'omissione della mera circostanza che l'uno o l'altro emerga dal testo del provvedimento impugnato. Ma sarebbe vulnerato anche il diritto di difesa, sotto il profilo della violazione del diritto alla prova; tanto più che l'art. 546, lettera c, impone al giudice di indicare le prove poste a base della decisione e di enunciare le ragioni per cui non ha ritenuto attendibili le prove contrarie. Un dovere privo di consistenza in mancanza di ogni controllo da parte del giudice di legittimità. Il tutto senza che possa assumere rilievo il "correttivo" proposto da talune decisioni della Corte Suprema relativamente alla rilevanza, ai fini del vizio di motivazione non risultante dal testo del provvedimento impugnato, degli atti dell'impugnazione di merito con la quale tale carenza venga fatta valere. E ciò per due ordini di motivi: anzi tutto, perchè un simile correttivo non emerge in alcun modo dal sistema della legge; in secondo luogo, perchè questa linea interpretativa non tiene conto del fatto che se la sentenza di primo grado non menziona in alcun modo una prova decisiva a favore dell'imputato, solo se il giudice d'appello, nell'indicare tale prova non giustifichi le ragioni per cui la disattende, si ha carenza di motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, senza la necessità di alcun raffronto con i motivi di appello, mentre tale raffronto è, invece, necessario - pur non essendo il ricorso ammissibile, per non risultare il vizio del provvedimento impugnato - quando la sentenza di appello sia del tutto silente sul punto.
La soluzione data alla prima ipotesi parrebbe correttamente percorribile, anche considerando che nel nuovo sistema l'inutilizzabilità costituisce una categoria di ordine generale e che in una lata nozione di inutilizzabilità dovrebbe rientrare, non soltanto la prova non legittimamente acquisita ma, e a fortiori, anche la prova mai acquisita (quella, cioè, in sostanza, "inventata" dal giudice). Il tutto con due importanti precisazioni: in primo luogo che, trattandosi di vizio di ordine processuale diverso dalla mancanza o dalla manifesta illogicità della motivazione, potrà essere consentito di accedere all'esame degli atti processuali; in secondo luogo, che la rilevabilità del vizio non resterebbe condizionata dall'avvenuta deduzione del vizio stesso in grado di appello in tutti quei casi in cui l'imputato sia stato assolto in primo grado e condannato solo in secondo grado ovvero nel caso di ricorso per saltum, che sarebbe qui esperibile non operando il limite di cui all'art. 569, comma 3, che non consente il ricorso diretto in cassazione (tra l'altro) nel caso in cui venga denunciato un vizio della motivazione. Negli altri casi resterebbe da domandarsi - e l'obiezione sembra investire la stessa nozione di inutilizzabilità così come estesa - se il vizio possa essere per la prima volta denunciato in cassazione. Certo, la disposizione dell'art. 191, comma 2 ("L'inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento"), sembrerebbe consentirlo; rimane però anche da chiedersi che senso possa avere una incursione negli atti processuali da parte della Corte di cassazione, rispetto a censure non dedotte in sede di merito.
Del resto, in dottrina si era acutamente osservato, nel vigore dell'abrogato codice di rito, come la giustapposizione operata dalla giurisprudenza tra vizio logico della motivazione e travisamento del fatto, non fosse da ritenere corretta. E ciò perchè se censurare il vizio logico significasse palesare la scorrettezza della operazioni logico-formali nelle proposizioni inserite nella sentenza, non potrebbe ravvisarvi alcuna affinità tra le due situazioni. Proprio stando alla giurisprudenza, ne deriverebbe che l'illogicità del ragionamento non è altro che una forma meno grave di quella incongruenza tra motivazione e risultanze processuali che trova nel travisamento del fatto la manifestazione patologica più acuta.
Il travisamento consiste, infatti, nel contrasto tra la motivazione e gli atti del processo o meglio - come è stato precisato - nella contraddittorietà tra proposizioni probatorie documentate nel verbale e proposizioni probatorie assunte come base argomentativa del discorso giudiziale in fatto. Ma la verifica del contrasto, nella prassi del controllo compiuto dal giudice di legittimità, può condurre assai più lontano del semplice riscontro della divergenza tra i due documenti (sentenza e verbale). L'alterazione del significato delle prove può, infatti, sfociare nell'apprezzamento delle stesse, secondo moduli tipici del giudizio di merito. Se in qualche caso il vizio può desumersi dal raffronto "esterno" tra i due documenti, è più probabile che esso costringa ad un riesame di tutte le risultanze processuali per far approdare al riconoscimento di un "contrasto" che non è frutto di errore materiale, ma di un ragionato ripudio dell'attendibilità dei dati probatori che pure sembrano univocamente orientati. Se ne trae allora una diversa nozione di travisamento del fatto la cui censurabilità ad opera della Corte non sembra trascinare nell'esame del merito. Senza, cioè, fare riferimento all'aderenza della motivazione alle risultanze probatorie, ma richiamando esclusivamente la sentenza come fondata su un atto probatorio mai acquisito. Occorre allora distinguere il "travisamento" degli atti dal travisamento delle risultanze. Solo nel primo caso il vizio potrebbe avere legittimamente ingresso in cassazione, sotto il profilo della violazione della regola in base alla quale nella motivazione non sono utilizzabili atti diversi da quello assunti nel dibattimento e documentati nel processo verbale.
Pare, però, che le preoccupazioni avanzate dalla dottrina in un sistema in cui il diritto vivente riconosceva la deducibilità del travisamento del fatto come vizio della motivazione, vadano ridimensionate. Oltre tutto, l'analisi compiuta da queste Sezioni unite sulla giurisprudenza formatasi nel vigore del codice del 1930 conduce a ritenere che l'ipotesi della prova "inventata" costituisca un'evenienza assolutamente teorica. Mentre, in effetti, la maggior parte dei casi di travisamento del fatto veniva individuata, nelle specifiche ipotesi esaminate, nel travisamento della prova.
Ciò introduce subito alla seconda ipotesi. Sembra, anzi tutto, che, stando alla giurisprudenza che considera il travisamento del fatto vizio della motivazione, accertabile anche alla stregua delle "risposte" che la sentenza di secondo grado ha fornito all'atto di appello, non è necessario che il vizio debba risultare dal testo (pure solo dalla "narrativa") del provvedimento impugnato: ciò purchè la sentenza di condanna non segua ad un'assoluzione in primo grado e senza che possa profilarsi la denunciabilità del vizio attraverso il ricorso per saltum, per la preclusione di cui all'art. 569, comma 3. Quel che, peraltro, lascia l'adito alle maggiori perplessità è la distinzione così operata, che sembra rivelarsi non qualitativamente ma solo quantitativamente orientata, così da creare seri problemi anche quanto al rigore del ricorso alla categoria dell'inutilizzabilità. Del resto, ancora una volta, secondo l'interpretazione giurisprudenziale formatasi nel vigore dell'abrogato codice di rito, il travisamento del fatto era ravvisabile quando il giudice del merito avesse ammesso un fatto manifestamente escluso dagli atti del procedimento ovvero avesse escluso un fatto manifestamente risultante dagli atti stessi. Esso costituiva uno dei vizi della motivazione, determinando la pronuncia di una decisione avente per oggetto un fatto non provato, ma, in se stesso, del tutto diverso da quello effettivamente e processualmente provato. Non si era mancato, peraltro, di rilevare che, così come costruito, il travisamento del fatto introdurrebbe un inammissibile controllo di merito della Corte di cassazione nei casi in cui il giudice abbia dato per esistente (non un fatto, ma) un atto inesistente.
Relativamente all'ultima ipotesi, resta pur sempre decisiva la conclusione che la possibilità di ricorrere per cassazione deve necessariamente derivare dall'essersi provveduto a denunciare la censura - sub specie di difetto di motivazione o di violazione della legge processuale - in base ai principi che presiedono all'effetto devolutivo proprio dell'appello.
Rimane solo il dubbio che la Corte di cassazione, allorchè debba decidere sul vizio di mancanza o manifesta illogicità della motivazione, finisca col controllare più che il giudizio, il testo della sentenza, così - come è stato acutamente osservato - da far smarrire al processo il suo fine di verità.
Ma, una volta riconosciuto il doppio grado di merito, non necessariamente il giudizio di legittimità deve avere ad oggetto la verità empirica del fatto. Il tutto anche considerando che l'art. 111, 6° comma, della Costituzione dà della motivazione non una nozione ontologica, ma condizionata dalle esperienze del discorso argomentativo. Con la conseguenza che non può dirsi arbitrario un sindacato della Corte circoscritto nei termini indicati dall'art. 606, lettera e.
22. La tipologia del sindacato di questa Corte Suprema non subisce, peraltro, decisive varianti in conseguenza dell'operatività delle regole appositamente dettate per il procedimento di revisione e, più in particolare, di quelle che disciplinano la conclusione del c.d. giudizio rescissorio e la struttura della decisione pronunciata all'esito di tale giudizio di impugnazione.
Appare, in primo luogo, opportuno ricordare che, a norma dell'art. 637, comma, 1, la sentenza è deliberata secondo le disposizioni degli articoli 525, 526, 527 e 528, seguendo il modello tipico del giudizio di cognizione ed i criteri di utilizzazione indicati dall'art. 526.
Ne consegue, per quel che riguarda più specificamente la decisione, che ai moduli di valutazione della prova prescritti dalle regole generali sul tema si aggiungono le regole di giudizio indicate dall'art. 630, lettera c, che assumono, dunque, una duplice valenza.
L'una derivante dalla verifica astratta imposta in sede di ammissibilità - e della quale si sono presi in esame gli aspetti fondamentali - l'altra dal richiamo di tale precetto alle regole di giudizio dettate per l'ordinario processo di cognizione dagli artt. 529, 530 e 531, a fortiori applicabili anche a conclusione del processo di revisione. Cosicchè, pure ai fini del controllo demandato a questa Corte, è necessario non trascurare le variegate formule proscioglitive che assumono rilievo quali regole di giudizio. Una precisazione che appare opportuna considerata la forse eccessiva perentorietà degli enunciati contenuti nella sentenza impugnata alla stregua del procedimento di falsificazione conseguente all'assunzione delle prove nuove; un procedimento che avrebbe anche potuto delineare, all'esito del giudizio, una situazione più prossima alla previsione del comma 2 dell'art. 530 che a quella del comma 1 dello stesso articolo, sotto il profilo della contraddittorietà delle prove, se l'esito proscioglitivo non risultasse incentrato pressochè esclusivamente sulla prova d'alibi. Senza che una simile precisazione comporti irruzione di sorta, da parte di questa Corte Suprema, nel meritum causae, e senza che - quel che più importa - possa neppure profilarsi la necessità di alcuna statuizione demolitoria, anche se parziale, della decisione denunciata.
D'altro canto, le censure dei ricorrenti mai affrontano, nè relativamente al giudizio di ammissibilità nè relativamente al giudizio di merito (forse, per l'assenza di un effettivo interesse giuridico a simili doglianze) il tema della formula proscioglitiva.
Quel che occorre allora rimarcare è la duplice valenza precettiva dell'art. 630, lettera c, che eccede anche dallo stesso modello precostituito dalle norme cui esso fa riferimento. L'opera del giudice della revisione, infatti, si sostanzia, da un lato, nell'accertamento della forza dimostrativa delle prove nuove (scoperte o sopravvenute, non acquisite o soltanto non valutate) e, dall'altro lato, nel controllo, che può assumere valenza falsificante delle prove già valutate, così da pervenire ad una verifica complessiva dell'assetto probatorio oggetto di valutazione ai fini della sentenza di condanna ma sulla base delle specifiche acquisizioni del giudizio di revisione.
In tal modo, una volta superato il vaglio della ammissibilità della richiesta per essersi correttamente qualificata nuova (nel senso prima precisato) la prova in quanto noviter reperta o noviter producta, per essersi ritenuta la richiesta stessa non manifestamente infondata, e delibata la prognosi proscioglitiva imposta dal precetto dell'art. 630, lettera c, è consentito al giudice della revisione "rivedere", ma solo alla luce del novum (nel senso più volte esplicitato) le sequenze probatorie che hanno condotto il giudice della cognizione a pronunciare la sentenza di condanna.
Fermi restando, poi, ai fini del controllo di questa Corte, il valore esponenziale della sentenza che pronuncia sulla revisione e l'ulteriore verifica sia ai fini della ammissibilità della prova (come si è visto, con possibilità di accesso anche agli atti processuali) sia ai fini del controllo della decisione di merito, con l'ampliamento conoscitivo derivante dal giudicato, che rende indispensabile una comparazione della decisione emessa ai sensi dell'art. 637 con le sentenze di merito pronunciate in sede di cognizione.
Senza che però un tale scrutinio implichi, con l'irruzione nell'esame degli atti processuali, una verifica ab intrinseco, restando sempre e comunque, il controllo di legittimità circoscritto negli ambiti indicati per il sindacato sulla motivazione dall'art. 606, lettera e, secondo i criteri sopra diffusamente esposti.
Si tratta comunque di una solo apparente deviazione dagli usuali sistemi di controllo di legittimità, perchè il documento su cui tale controllo viene ad incentrarsi resta sempre e comunque la sentenza pronunciata all'esito del giudizio di revisione, allo scopo di verificare se siano state osservate le regole procedimentali che disciplinano la motivazione in fatto, secondo cadenze immanenti alle esigenze confutatorie della mancanza o della illogicità della motivazione della sentenza di revisione.
23. Su un'altra regola di giudizio deve questa Corte soffermare il suo esame, quella prevista dal più volte ricordato art. 637, comma 2; una regola, che come si è visto, è stata, di frequente non correttamente inclusa nella verifica sull'ammissibilità della prova che ha, invece, un suo autonomo (duplice) spazio prescrittivo nel precetto dell'art. 630, lettera c.
Posto, però, che tale ultima disposizione ha il complementare compito di descrivere la finalizzazione del giudizio di ammissibilità, emerge evidente la sua proiezione verso il giudizio di merito, solo ove si separi per un momento la sua connotazione strutturale dalla sua connotazione teleologica.
Sotto quest'ultimo profilo, appare chiara la sua finalizzazione verso gli approdi proscioglitivi descritti dall'art. 632 nella duplice valenza sopra rilevata.
Il punto di rilevanza ermeneutica dell'art. 637, comma 2, è, invece, da ricollegare direttamente alle regole di giudizio sopra ricordate, ed impone al giudice della revisione di osservare una prescrizione, anche qui, solo apparentemente derogatoria rispetto alle usuali regole di giudizio da utilizzare nel processo di cognizione. Così da conformarsi al valore cruciale della prova nuova quale valutata dal giudice della revisione ed alla sua potenzialità a confutare le valutazioni derivanti, ma sulla base di un diverso assetto probatorio, dalla sentenza di condanna.
La disciplina diventa agevolmente comprensibile solo ricordando i principi di diritto enunciati da queste Sezioni unite a proposito dell'ampia fascia di verifiche cui è informato il giudizio di ammissibilità che è anche finalisticamente orientato a precludere un'introduzione surrettizia del giudizio di revisione, o forse pure soltanto a consentire che il punto di rilevanza interpretativa resti comunque soltanto il novum, rispetto al quale il già delibato, assume una funzione passiva e servente all'opera di falsificazione.
In tal modo, se il giudizio conclusivo sulla richiesta di revisione ritenuta ammissibile dovesse essere effettuato "esclusivamente" sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel giudizio di cognizione, si realizzerebbe un eccesso rispetto al fine tipico che contrassegna il giudizio di revisione ed i suoi rapporti con la cosa giudicata. Perchè in un simile caso il novum - nascente dalla delibazione preliminare - si confonderebbe con il novum rilevante ai fini della formulazione della regola di giudizio, pur essendo i due momenti, anche se convergenti verso un medesimo risultato, distinguibili tanto su un piano logico tanto sotto il profilo diacronico. Ne consegue allora che la novità e la rilevanza della prova vanno a costituire la misura entro la quale deve formularsi la regola di giudizio, giacchè, in caso contrario, l'estromissione dell'opera, talora "mediatoria", della prova nuova, quale punto di avvio per la progressiva opera falsificante della prova già valutata, oltre a rivelare un solo apparente vincolo eziologico rispetto alla regola di giudizio, rende anche palese che, questa volta, si è pervenuti, pur non violando le regole che disciplinano il giudizio di ammissibilità, a realizzare gli effetti propri di una impugnazione tardiva; un modello incompatibile con il giudizio di revisione.
Ma, una volta ritenuto legittimo il passaggio alla fase del merito, la valutazione della prova da parte del giudice della revisione non subisce limitazioni di sorta, sempre sul presupposto che ogni nuova valutazione non potrà mai prescindere, nell'esame di ciascuna sequenza probatoria, dalla prova nuova; fino a ricostruire, secondo gli ordinari criteri inferenziali, il fatto per cui è intervenuta condanna.
Sempre considerando che una simile seriazione può essere oggetto del sindacato di legittimità sotto il profilo sia della mancanza e della manifesta illogicità della motivazione, sia della violazione di legge e, più in particolare, dell'art. 637, comma 3, inteso nella sua massima valenza prescrittiva, in grado di condizionare in negativo anche l'uso di una motivazione rigororosa nell'osservanza dei criteri di inferenza, ma condizionata dalla contraddittoria e surrettizia introduzione di un giudizio "rescissorio" rivelatosi, sia pure ex post, contra legem.
24. Tutte le censure, da quella concernente le ragioni del viaggio della Bruno a Riano (nel quale assume rilievo l'alternativa tra l'invito-trappola e la spontanea iniziativa della vittima avente lo scopo di definire una volta per sempre la vicenda relativa alla "tresca" tra il Pisano e la Agresta) a quelle relative al rinvenimento della ricevuta di pagamento dell'ICI, all'assenza di ogni telefonata del Pisano alla sua amante la mattina del 3 agosto, alla stessa dinamica omicidiaria, al ruolo di "terzi", alla tardività della denuncia, alla rivelazione del Pisano che il preteso amante della moglie di cui alla telefonata di persona identificata poi nell'Agresta fosse un postino, all'acquisto dell'anello, all'incontro fra i due amanti, alle ecchimosi rilevate sul corpo del Pisano (in ordine alle quali è stato fornito dalla Corte territoriale un ampio e coerente assetto dimostrativo) restano sovrastate dalla correttezza della motivazione della decisione impugnata circa la validità dell'alibi del Pisano e dalla conseguente esclusione che costui abbia potuto trovarsi in casa della Agresta nel periodo di tempo in cui venne consumato il delitto.
La prova d'alibi è, infatti, per definizione, la classica prova contraria o negativa, di tipo indiretto, la quale, al fine di inficiare l'ipotesi ricostruttiva dell'affermazione di colpevolezza dell'imputato prospettata dall'accusa in ordine al fatto descritto nell'imputazione, mira a confermare un'asserzione che nega il fatto principale, dimostrando autonomamente l'esistenza di un fatto diverso che, per il principio logico di alternatività, si palesi incompatibile col primo (Sez. un., 21 giugno 2000, Tammaro).
La sentenza di primo grado ha definito l'alibi "caduco, privo di consistenza e comunque non dimostrato se non nei riferimenti temporali tutt'altro che certi". Dopo aver descritto le dichiarazioni del Pisano sui suoi movimenti la mattina del 3 agosto (esce da casa intorno alle 6,45, giunge in ufficio intorno alle 7,45, alle 10, 15 circa vi si allontana perchè incaricato dal maresciallo Di Donato di acquistare presso il vicino negozio di ferramenta le chiavi della palestra dell'Istituto; approfitta dell'incarico affidatogli per recarsi all'ufficio del catasto, per fare rientro in ufficio intorno alle 11,15-11,30), la decisione dà atto del sicuro ingresso del Pisano presso la Scuola Superiore, risultando la sua firma sul foglio di presenza, per essere egli stato notato dai suoi colleghi alle 7,30-8 di quella stessa mattina e successivamente, alle 10-10,30 da numerosi altri suoi colleghi di lavoro. Ha precisato, anche che Fusini Gianfranco, operaio presso l'Istituto, ebbe a dichiarare che aver ricevuto dalle mani del Pisano il duplicato delle chiavi, una circostanza confermata dal maresciallo Di Donato e dall'agente Gottin, rimarcando, però, che tale acquisto non risulta comprovato da alcun dato documentale.
Quanto, poi, al passaggio del Pisano negli uffici del catasto, non risulterebbe alcun elemento di conferma delle sue dichiarazioni, precisandosi che, oltre tutto, non era necessario che al ritiro delle pratiche dovesse necessariamente provvedere il presentatore, essendo sufficiente che una qualsiasi persona esibisse la ricevuta con il relativo numero di protocollo, nè che la pratica dovesse essere ritirata lo stesso giorno della presentazione; così da destituire di ogni valenza probatoria il documento contenuto nella valigetta 24 ore del Pisano.
Posto che il Pisano, prosegue la sentenza, fece ritorno all'Istituto verso le 11,30, era a sua disposizione circa un'ora e mezza, un arco di tempo che, considerati i corrispondenti tempi di percorrenza da via Piero della Francesca a Via Matteotti a Riano e ritorno, era perfettamente compatibile con la consumazione dell'omicidio. Senza considerare che la possibilità per il Pisano di uscire e rientrare in Istituto a suo piacimento era circostanza acclarata da svariate prove testimoniali.
La Corte di assise di appello ha ritenuto di condividere "appieno le considerazioni del primo giudice, più che puntuali nella dimostrazione del mancato riscontro probatorio dell'assunto difensivo e, comunque, la piena compatibilità dell'azione omicidiaria con la durata dell'assenza dal luogo di lavoro dell'imputato, peraltro liberissimo di entrare e di uscire senza alcun controllo, anche se dovesse essere dato per provato il suo accesso nel negozio di ferramenta".
A giudizio di queste Sezioni unite la validità della prova d'alibi risulta riuscita considerando le articolate argomentazioni contenute nella sentenza di revisione, così da relegare le doglianze avanzate dai ricorrenti sul punto o alla deduzione di vizi direttamente incentrati nel meritum causae ovvero alla doglianza della mancata rilevazione del "travisamento" del fatto ex actis, una denuncia non più consentita nel sistema del codice del 1988.
Per valutare con la massima correttezza metodologica gli argomenti adottati dal giudice della revisione, occorre muovere dai criteri seguiti dalla Corte perugina in ordine alla valutazione delle prove nuove o perchè noviter repertae o perchè noviter productae (in quanto non valutate nel giudizio di cognizione).
Un ruolo cruciale assumono nella motivazione della sentenza impugnata le prove testimoniali e documentali riferibili alla presenza del Pisano, nelle ore in cui fu consumato il delitto, negli uffici del catasto.
E'evidente, anzi tutto, che tali prove non devono essere esaminate isolatamente ma nel contesto complessivo che rende credibili le argomentazioni in ordine all'effettiva presenza del Pisano in tali uffici, avendo la Corte territoriale individuato una serie numerosa di riscontri di quanto a suo tempo dichiarato dal Pisano e non valutata (o non potuta valutare) dal giudice della cognizione; per di più, considerando talune nuove prove come dotate di univoca capacità demolitoria delle prove già valutate (si pensi soltanto a quelle - di supporto generico - sulle quali i giudici della cognizione hanno fondato il giudizio sulla "libertà" concessa al Pisano di entrare ed uscire a suo piacimento dall'Istituto, specificamente confutate dal novum).
Anzitutto, la deposizione del geometra Brunettini. Costui, presa visione della pratica "Primavera", recante il numero di protocollo immediatamente precedente a quello della pratica "Monari", ha dichiarato di essere giunto al catasto alle 10-10,30, di essersi posto in fila prima per accedere al tecnico di turno e, quindi, davanti al protocollo e che "al momento di ritirare la pratica mancava un timbro sulla... planimetria", tanto da essere stato costretto a tornare successivamente per il ritiro della pratica stessa. Un dato che secondo la decisione qui impugnata riscontra ampiamente, anche quanto alle modalità dell'episodio ed alle fattezze fisiche del testimone, le dichiarazioni rese dal Pisano nel suo interrogatorio dell'8 novembre 1993.
Ulteriore conferma di tali dichiarazioni viene individuata nella testimonianza del geometra Emilia Rosso (la donna descritta dal Pisano come quella che "portava gli occhiali in mezzo al naso per leggere da vicino e con i capelli corti") che, oltre a riconoscere per propria la firma apposta in calce alle pratiche "Trappetti" e "Monari" ed a dichiarare di aver trasferito le due pratiche nella stanza della registrazione perchè venissero protocollate, ha riferito che nel 1993 utilizzava gli occhiali da vista, seppur non continuativamente, per poter leggere da vicino.
Ancora, la deposizione di Maria De Giovanni, individuata nell'interrogatorio del Pisano come la "persona di nome Maria, coniugata Gelsomino, addetta al settore C, che il dichiarante riferì di aver cercato di contattare la mattina del 3 agosto e che seppe dall'impiegata Lucia Mangosi" - descritta dal Pisano come "l'altra impiegata dai capelli biondi" - essere in malattia. La De Giovanni ha dichiarato di non aver informato il Pisano del suo improvviso ricovero avvenuto proprio il 4 agosto, soffermandosi sulla frequenza dei rapporti di "lavoro" con il condannato. La Mangosi ha, a sua volta, dichiarato di essere stata richiesta da una persona di cui, dato il tempo trascorso, non ricordava le fattezze, della De Giovanni.
Ulteriori riscontri vengono individuati nelle dichiarazioni di altre persone presenti negli uffici del catasto all'ora indicata dal Pisano circa la dinamica di significativi episodi che solo chi fosse stato presente in detti uffici avrebbe potuto raccontare.
Si sono, poi, già descritti, quando sono state esaminate le censure in ordine all'ammissibilità della prova, la valenza dimostrativa delle procedure relative alle pratiche di accatastamento ("Trappetti") e di frazionamento ("Monari"), il rilievo dell'accertamento della precompilazione della ricevuta provvisoria sottoscritta dal Pisano e rinvenuta nella valigetta 24 ore, richiesta solo nel caso in cui la pratica, non disbrigata subito, venisse ritirata dal presentatore in un momento successivo; una prassi di norma non seguita dal Pisano che il 4 agosto si vide costretto ad utilizzare, considerata l'assenza all'interno dell'ufficio della sua referente Maria De Giovanni.
In tale quadro, correttamente il giudice a quo ha assegnato valenza probatoria alla testimonianza del consulente Greco che, oltre a riferire in ordine all'identità della grafia del Pisano con quella del compilatore di entrambe le copie della ricevuta provvisoria, ha precisato che tale ricevuta "era stata scritta in originale e non a ricalco e che entrambe le ricevute..... erano state scritte di pugno dal Pisano in una situazione di appoggio precario, in quanto alcune caselle erano state sbarrate con la crocetta, al di fuori del quadratino presente nel modulo". Il tutto senza che, peraltro - un elemento quanto mai significativo - fosse rinvenuto nella valigetta alcun altro modello in bianco di ricevuta provvisoria.
Sempre circa l'effettiva presenza del Pisano negli uffici del catasto al mattino del 4 agosto 1993, la sentenza impugnata ha correttamente assegnato valore probatorio all'esame del tabulato delle telefonate in uscita dal suo telefono cellulare comprovanti, per un verso, gli stretti rapporti con gli interessati alle pratiche da accatastare nonchè l'urgenza di esse e, per un altro verso, l'insussistenza di ogni chiamata diretta ad incaricare altri per il disbrigo degli accatastamenti.
In tale quadro assumono valore davvero significante secondo le argomentate precisazioni della sentenza impugnata, i riscontri costituiti dagli scontrini fiscali del negozio di ferramenta, le motivazioni delle reiterate telefonate del Pisano presso l'ufficio della moglie - che aveva ingiunto alle sue colleghe di non rivelare al marito il permesso che aveva richiesto - e soprattutto i dati documentali e testimoniali attestanti gli orari di uscita e di rientro del Pisano dall'Istituto Superiore di Polizia, che finiscono per riempire tutto l'arco della mattinata del 4 agosto, secondo modelli di inferenza inconfutabili. Seguendo un'operazione di corretta demolizione e ricostruzione dei dati valutati sia dalla Corte di assise di primo grado sia dalla Corte di assise di appello, tanto - come si è visto - da relegare implicitamente nell'irrilevanza la consulenza Furnari, che questa Corte ha già ritenuto prova inammissibile in quanto non rientrante nella nozione di prova nuova.
24. I ricorsi devono, dunque, essere rigettati con la conseguente condanna delle parti civili, in solido, al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna le parti civili ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Così deciso, il 26 settembre 2001

IL RELATORE IL PRESIDENTE

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