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TORTORA, UNA COLONNA INFAME

Da Il Legno Storto Giovedì, 12 Giugno 2003

Da "Il foglio" di mercoledì 11 giugno 2003-Giugno 1983, debutta l'Italia dei pm "senza riguardi" e del linciaggio facile.Vent'anni fa, alle quattro e un quarto del mattino del 17 giugno, hanno bussato alla porta di una camera dell'hotel Plaza di Roma. Spalancato l'armadio, aperta una valigia, sequestrata un'agenda telefonica, scrutato dentro un salvadanaio di ceramica a forma di porcellino (non si sa mai) si sono portati via un uomo stralunato, che ha appena avuto il tempo di vestirsi e di raccogliere pochi effetti personali in una sacca di tela rossa. Fuori è buio. In via del Corso non passa nessuno. La prua dell'Alfetta punta decisa su via In Selci, sede del nucleo operativo dei carabinieri. Condotto in ufficio, l'uomo viene fatto sedere davanti a una scrivania ingombra di incartamenti. "Lei è in stato d'arresto". "Come?". "C'è un ordine d'arresto dalla procura di Napoli". "Ma per cosa??". "Non lo sappiamo". Un collasso, le mani e le gambe che si fanno di ghiaccio.

Quindi la ricerca di un avvocato e una telefonata alla figlia più grande: "Ricordati che papà è quello di sempre". L'angoscia si raggruma in una lunga, incomprensibile attesa.
I militari hanno l'ordine di aspettare mezzogiorno per tradurlo nel carcere di Regina Coeli, nessuna fretta deve compromettere la riuscita di una regìa studiata da tempo.
Il cellulare è stato posteggiato dall'altra parte della strada per meglio consentire a
teleoperatori e fotografi di vivisezionare in tutta calma il volto del prigioniero, zoomando sulle manette che stringeranno i suoi polsi. Il tempo sgocciola. All'uomo vengono prese le impronte digitali e scattate le foto di rito: faccia e profilo. La faccia e il profilo di Enzo Tortora. l maxi-blitz anticamorra, ordinato dai sostituti procuratori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia a dieci giorni dalle elezioni politiche, è imponente per dimensioni e clamore: 856 mandati di cattura. Come ci spiega sul Giorno un entusiasta Guglielmo Zucconi, il lavoro dei magistrati "è costato e ha prodotto migliaia di cartelle dattiloscritte, decine di migliaia di intercettazioni telefoniche, cinque mesi di pedinamenti e di appostamenti in tutta Italia, di interrogatori in tutte le carceri italiane".

L'arresto di Tortora e di centinaia di presunti altri camorristi prova che "non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili". A fondamento dell'inchiesta vi sono invece solo le parole di due superpentiti della Nuova camorra organizzata (Nco): Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Il primo è in carcere dal giugno 1970 in seguito a una strage compiuta negli uffici del Comune di Liveri di Nola, suo paese di origine: ha ucciso due persone (ferendone una terza), innervosito dalla lentezza di un impiegato nel rilasciagli un duplicato dell'atto di nascita. E' pregiudicato per calunnia, tentato parricidio, tentato incendio dell'abitazione dei genitori, minacce a mano armata contro il padre, tentato avvelenamento della madre e della fidanzata quattordicenne.

Le cartelle cliniche dei manicomi giudiziari lo definiscono "paranoico, schizoide, dotato di una personalità aggressiva fortemente condizionata da manìa di protagonismo". Nel carcere di Ascoli Piceno diventa il "segretario" di Cutolo. Ai giudici ha dichiarato di essersi dissociato dalla Nco per motivi ideologici. Una settimana dopo il suo primo interrogatorio ha fornito un elenco di nomi in cui - al sessantesimo posto - compare anche quello di Tortora, "camorrista ad honorem".Barra, detto "'O animale" per l'efferatezza dei suoi delitti, è invece un killer delle carceri: ha già trucidato due detenuti quando, nel 1981, nel carcere sardo di Bad' e Carros, ammazza (divorandone in seguito le viscere ancora calde) il boss della mala milanese Francis Turatello. Anche stavolta l'ordine era partito da Cutolo ma questi - in seguito ai reclami di alcuni boss mafiosi di cui la vittima era figlioccio - gli ha addossato la responsabilità dell'omicidio. Sentendosi minacciato e tradito, Barra si è quindi dissociato.

Ha fatto il nome di Tortora solo al diciottesimo interrogatorio, dopo aver letto l'elenco redatto da Pandico. "Gli inquirenti lo hanno definito un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti.
Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare. Ovviamente all'inizio gli investigatori lo hanno messo alla prova per verificare la veridicità di quanto stava raccontando, ma il Barra non ha sbagliato una virgola" (Massimo Esposti, La Notte). "Barra diceva qualcosa? Subito si controllava,nei minimi dettagli. Ma non c'è stato verso di coglierlo in errore" (Paolo Bonaiuti, Il Giorno). Si saprà in seguito che il superpentito è stato trattato con ogni riguardo nella caserma in cui era detenuto. Sorseggiando coppe di champagne, ha proceduto coscienzioso - con un inappellabile "Chiste sì, chille no" - al riconoscimento delle persone che i carabinieri gli hanno via via presentato.In attesa del "verdetto", alcuni di questi sono stati colti da malore.

I demiurghi della "retata del secolo", quella che ha finalmente decapitato la camorra, diventano subito i beniamini della stampa. Sui giornali proliferano notizie, indiscrezioni, gli stessi verbali degli interrogatori. Di Pietro e Di Persia? "Scrupolosi, seri, prudenti, stimati" (Gigi Moncalvo, Il Giorno). "Esemplari per zelo e disprezzo del rischio ascoltano, registrano, controllano e agiscono poi di conseguenza" (Massimo Nava, Corriere della Sera). "Il massimo riserbo [sic] sembra dettato più dalla volontà di evitare strumentalizzazioni pre-elettorali che non dalla necessità di trovare altre prove, certe e sicure" (Massimo Esposti, La Notte). I due magistrati sanno bene che la cattura di Tortora è ormai la cartina di tornasole della loro serietà professionale, per questo intendono rassicurare l'opinione pubblica. "Non potevamo avere occhi di riguardo, la notorietà non significa impunità per nessuno"; "non siamo pazzi, non vogliamo essere screditati a vita"; "il racconto di Pasquale Barra è stato accuratamente verificato.

Non siamo disposti a compromettere una carriera per un provvedimento emesso con troppa leggerezza"; "indubbiamente la presenza di Tortora in questa indagine ha sorpreso tutti e anche noi. Su Tortora siamo andati molto cauti, ma ora possiamo affermare che abbiamo molto più delle testimonianze dei due pentiti". Qualunque cosa sia, non sembra granchè se lo stesso Di Pietro - in un intervista apparsa su La Repubblica del 30-31 ottobre - così risponderà a Giampaolo Pansa (che obietta sulla credibilità di un'inchiesta basata esclusivamente sulle affermazioni di due pentiti): "Ci abbiamo pensato.

Ma l'ipotesi non regge dal punto di vista logico: Barra e Pandico ci hanno consentito di arrestare centinaia di persone che non sarebbero mai state neppure sospettate. Alcune di queste stanno in carcere per reati da ergastolo. Pensi quale catena di drammi, di rancori, di vendette ha origine da quelle confessioni. Quei due sono dei condannati a morte dalla camorra. E avrebbero detto tutto ciò che han detto solo per screditare i giudici? No, non sta in piedi. E c'è dell'altro. Con quei verbali il collega Di Persia, io, la polizia e i carabinieri abbiamo lavorato per quattro-cinque mesi.

A fare cosa? A identificare le persone nominate dai pentiti, a cercare ogni riscontro, a far rilievi fotografici, a rileggere centinaia di vecchie indagini di polizia giudiziaria rimaste senza sviluppo. Così, controllo dopo controllo, è affiorata la scoperta più sconvolgente; la camorra non era costituita dal killer, dall'estorsore, dal rapinatore, ma anche da soggetti che appartengono a categorie e professioni di solito insospettabili. Certo, ciascuno con compiti diversi, ma sempre all'interno della stessa organizzazione criminale". La realtà è invece molto diversa. I due hanno operato "così meticolosamente e brillantemente" (Massimo Esposti, La Notte) che 144 arrestati risulteranno omonimi di presunti camorristi o indicati "per sbaglio" dai pentiti. Altri 65 sospetti saranno prosciolti in istruttoria, molti mesi dopo."Un sacrificio pagato sull'altare della possibilità statistica", chioserà Luca Villoresi su La Repubblica.

Mentre sale sul cellulare che lo trasporterà verso la cella 16 bis di Regina Coeli, Tortora è travolto da flash, telecamere e insulti. "Ladro, farabutto, ipocrita, faccia di merda!". E invece dovrebbero dargli del coglione, è quello che si merita. La procura di Napoli avrà pure custodito il segreto istruttorio, sta di fatto che la notizia del suo arresto è già stata annunciata alle 16,25 del giorno prima da un flash dell'Ansa. Interpellato con qualche imbarazzo dai cronisti aveva risposto divertito: "Un caro saluto da Rebibbia.

Eh sì, lo ammetto, hanno proceduto per ordine alfabetico: Tognazzi, Tortora, Vianello...". E giù una risata.
Il presentatore genovese è infatti al momento la star televisiva più popolare in Italia. Da sette stagioni conduce "Portobello", programma cult con una media di 25 milioni di telespettatori. Ogni venerdì sera il paese si ferma per guardare in tv il mercatino con i prodotti più insoliti e le invenzioni più stravaganti, le rubriche "Fiori d'arancio" e "Dove sei?", i tentativi frustranti di far parlare il pappagallo simbolo della trasmissione.Ogni settimana - prima che venga pronunciata il rituale "Big Ben ha detto stop!" - va in onda lo spettacolo della gente comune: un caleidoscopio di tic, virtù e curiosità che i critici osservano sussiegosi. Eppure quella trasmissione contiene in sè i format che riempiranno i palinsesti dei successivi vent'anni. Tortora è infatti un grande innovatore del linguaggio televisivo. Nel 1959 ha realizzato a "Campanile Sera" i primi collegamenti in diretta tra lo studio e la piazza.

La sua "Domenica Sportiva" ha inventato la moviola calcistica. Con "Cipria", su Retequattro, sarà il primo a far cantare seriosi deputati della Repubblica.

Il presentatore ha una personalità che sfugge a qualsiasi facile clichè. E' colto (ama Stendhal, ha letto tutto Karl Popper e Joseph Roth, è un fine cultore del neopositivismo logico) e parla forbito: aggettivazione ricca e puntuale, congiuntivi e consecutio temporum. Un marziano. Carattere ruvido, la battuta sferzante, per nulla incline allamondanità, passa le sue giornate assorbito dal lavoro. E' iscritto al Pli ma non appartiene a nessuna cordata aziendale o politica. In lui si fondono un naturale savoir faire e il gusto di remare controcorrente. La Rai lo ha già cacciato due volte: nel 1960 (quando a "Telefortuna" ha proposto Alighiero Noschese in una formidabile imitazione di Amintore Fanfani) e nel 1969 (per un'intervista rilasciata a Oggi in cui definiva la Rai lottizzata "un jet condotto da un gruppo di boy-scout"). Ha trascorso il lungo esilio con il praticantato alla Nazione e la collaborazione a diverse altre testate. Crede nella libertà d'antenna: dopo aver lavorato nelle prime televisioni libere via cavo (Telebiella, Telealto Milanese) ha fondato Antenna 3 Lombardia.

E' contro quest'uomo che, torrenziali, si scatenano il livore e l'invidia dei suoi colleghi.
Alcuni inventano di sana pianta. Mentre è chiuso in isolamento - quando neppure gli avvocati Alberto Dall'Ora, Raffaele Della Valle e Antonio Coppola lo possono incontrare - il Messaggero titola in prima pagina: "Tortora ammette solo: vidi Turatello".

Il Giorno risponde con un "A Milano lo stavano pedinando da cinque mesi". Sulla Stampa Giuseppe Zaccaria fa invece esclamare a Barra, appena descritto come un detenuto isolato da mesi in un carcere superprotetto: "Portatelo di fronte a me: saprò io cosa dirgli". E' difficile dar conto con completezza di ogni titolo tendenzioso, di ciascun articolo diffamatorio, dei moltissimi "si dice": in troppi si divertono nel fare a pezzi la sua immagine personale e pubblica.Non resta che rovesciare la pattumiera di quei giorni e dare un'occhiata ad alcuni reperti di giornalismo antropofago. "Enzo Tortora rivela una calma addirittura sospetta al momento dell'arresto. Le labbra mosse con flemma, i muscoli del collo e della faccia tirati e la voce compassata sembrano voler ricordare e riprodurre a tutti i costi il personaggio del piccolo schermo, amato dalle massaie" (Marino Collacciani, il Tempo). "Dosando con grande mestiere indignazione e sbigottimento ha retto bene la parte della vittima innocente" (Wladimiro Greco, il Giorno).

"Il suo arresto conferma quello che chiare indicazioni davano già per sicuro, e cioè che Tortora è un personaggio dalle mille contraddizioni. Ligure spendaccione, se non proprio generoso, giornalista e quindi osservatore ma al tempo stesso attore e portato all'esibizione, umorale e tuttavia al servizio del più rigoroso raziocinio, colto (come ama anche ostentare in tv) eppure votato alle opere di facile popolarità, incline a un'affettazione non lontana dall'effeminatezza ma notoriamente amato dalle donne e propenso ad amare le più belle (due mogli e falangi di amiche). Moralista infine - proprio questo il sigillo che l'arresto imprime alla sua sfaccettata personalità - e ora colpito da un'accusa che fa di colpo traballare ogni sua credibilità morale" (Luciano Visintin, Corriere della Sera). "Desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata, quando conduce sotto l'insegna dell'ordine una vita personale tutt'altro che ordinata assumendo nello stesso tempo atteggiamenti da moralista o da Catone il Censore.I moralisti o i moralizzatori sono sempre da salutare con favore, specialmente in tempi come quelli che viviamo, ma a condizione che non bistrattino con l'azione i loro princìpi, che conducano una vita irreprensibile" (Costanzo Costantini, il Messaggero). "Tempi durissimi per gli strappalacrime" (Giovanni Arpino, il Giornale). "Qualcuno a Milano dice che quando era stato licenziato dalla Rai lo si poteva vedere, di notte, in un giro di balordi.

Qualcun altro si meravigliava di averlo incontrato spesso, anche in questi ultimi tempi, sugli aerei Roma-Palermo, Palermo-Roma. Che interessi poteva avere Tortora in Sicilia? E poi, per chi lo conosce bene, c'è un altro elemento inquietante: Tortora, di solito violento a parole nel difendersi e così conscio del potere dei giornali e della tv, quando è uscito dalla questura di Roma aveva a sua disposizione televisione e giornalisti: poteva dire quello che voleva; invece, a parte generiche dichiarazioni di innocenza, non ha avuto le reazioni che gli erano solite" (Alessia Donati, Novella 2000). "Tortora non può, non deve diventare un simbolo. Egli è solo uno dei tanti, tantissimi pessimi esempi dell'italiano che, sotto la lacrimuccia televisiva, nasconde il suo ardore per il danaro: e quindi è disponibile a tutto" (Luigi Compagnone, il Secolo XIX). Anche perchè lo spaccio operato da Tortora non consisteva certo in "stecchette o bustine, ma in partite di 80 milioni a botta. Un'attività durata anni e stroncata solo ultimamente, secondo indiscrezioni, per uno sgarro commesso dal noto presentatore.

E ancora, pranzi e cene con noti e meno noti camorristi, incontri segreti, rapporti, inchieste, raccomandazioni, suggerimenti, appalti" (Daniele Mastrogiacomo, la Repubblica). Anche alcune prime firme del giornalismo prendono parte. Sono degli intellettuali, umorismo e intelligenza non fanno loro difetto. "Se un uomo viene catturato in piena notte vuol dire che qualcosa di grave ha commesso" (Camilla Cederna). "Era un po' malinconico, non tanto perchè costretto a camminare con le mani ammanettate e la scorta dei carabinieri, ma perchè è arrivato sul teleschermo senza il suo concubino pappagallo" (Sergio Saviane). "Dicono che la tv di Stato è una droga. Mai detto è stato più vero dopo l'arresto di Tortora" (elzeviro sul Giornale attribuibile a Indro Montanelli).Non manca neppure la vignetta di Giorgio Forattini sulla prima pagina della Stampa: il pappagallo di Portobello che, rinchiuso in gabbia, esclama "Portolongone!!!".

Primo interrogatorio, 23 giugno 1983. E' molto breve. Il giudice Di Pietro conserva su di sè gli occhiali da sole e si rivolge a Tortora con toni bruschi. "Le farò quattro domande. Ha mai conosciuto, avuto rapporti, con un certo Domenico Barbaro?". Tortora guarda l'avvocato Della Valle, che lo rassicura con un sorriso. Il legale ha in cartella le fotocopie del carteggio intercorso nel lontano 1979 tra il detenuto e il presentatore.Barbaro aveva inviato a Portobello dei centrini da tavola perchè venissero battuti all'asta durante la trasmissione. Il pacco che li conteneva era andato perduto e, ripetutamente sollecitata, la Rai aveva risarcito il proprietario con un assegno di 800 mila lire. I magistrati, fidandosi ciecamente della versione di Pandico (che risulterà essere l'autore materiale delle missive), si sono convinti che le lettere di protesta del detenuto - spedite dal penitenziario di Porto Azzurro - non siano altro che messaggi in codice: la camorra avrebbe sollecitato minacciosamente Tortora a restituire la partita di cocaina (o il suo equivalente in denaro) che gli aveva affidato perchè la piazzasse su Milano. Di Pietro afferra il carteggio, lo sfoglia perplesso per dieci minuti e impallidisce. Il segretario che sta stenografando si interrompe e scoppia in pianto. La tensione è altissima. "E' mai stato a Ottaviano?". Tortora nega. "Ha mai conosciuto un certo Guarnieri?". E' Alfredo Guarnieri, figlioccio di Cutolo. Ha firmato, senza mai spedirlo, uno scritto indirizzato al presentatore e rinvenuto vicino alla sua branda su indicazione di Pandico.

Tortora lo prende in mano e nega di conoscerne l'autore. I magistrati almeno su questo dovrebbero credergli: il superpentito ha infatti indicato nel suo ex compagno di cella il killer incaricato dalla camorra di eliminare il presentatore per lo sgarro subìto. Logico quindi che i due non si conoscessero. Lo stesso Guarnieri - saputo dai giornali del suo indiretto coinvolgimento - scagionerà completamente Tortora, definendo la lettera (che contiene affermazioni deliranti del tipo "ricordati che siamo tutti figli dello stesso Dio e che dobbiamo ubbidire ai suoi comandamenti. Saluti a tua sorella") come uno scherzo e un tentativo di interessarlo al problema delle carceri.

"Ha mai conosciuto questa donna?". Di Pietro esibisce una sbiadita fotografia in formato tessera. Tortora la osserva e scuote la testa. Si tratta di Nadia Marzano: nel 1978, sempre secondo Pandico, è nella sua abitazione milanese che il giornalista sarebbe stato affiliato alla Nco. Al processo la donna negherà di conoscerlo, dimostrando che all'epoca non si trovava neppure in città perchè a Madesimo insieme al figlio malato di pertosse.Finisce così il primo incontro tra il presentatore e i suoi inquisitori. Nel congedarlo Di Pietro gli dice: "Buona fortuna". Tortora rabbrividisce. "E' una frase - scriverà in una lettera a La Stampa - che accetto da un venditore di biglietti della Lotteria di Merano e non certo da un giudice.
La magistratura, ch'io sappia, amministra la giustizia e non la fortuna".

Passano alcune settimane. Nel frattempo, Barbaro ha pubblicamente confermato la versione di Tortora e della Rai sulla storia dei centrini. Ai legali del presentatore, che chiedono invano un incontro con il detenuto, gli inquirenti rispondono imbarazzati che "trattasi di un altro Barbaro".

Non è vero ma non possono dire altro: se liberano Tortora crolla l'impalcatura principale della loro inchiesta. Stanno per scadere i quaranta giorni previsti per l'istruttoria formale e nelle loro mani resta ben poco. E' allora che avanza sulla scena la più scalcagnata coppia di testimoni della storia giudiziaria italiana. Il 5 luglio Gerosalba Castellini, moglie del "pittore" Giuseppe Margutti, dichiara al giudice Di Persia di aver visto Tortora cedere a due sconosciuti un sacchetto di plastica contenente droga.

La compravendita si sarebbe svolta il 5 novembre 1979 all'interno di uno studio deserto di Antenna 3 Lombardia. Quel giorno, sostiene, Tortora conduceva con Cino Tortorella (il popolare Mago Zurlì) una trasmissione a favore dell'Unicef. Appartatasi durante una pausa del programma allo scopo di riparare l'elastico delle mutandine che le si era spezzato, si sarebbe chinata dietro a un paravento e - non vista - avrebbe assistito a tutta la scena. Una volta tornata a casa avrebbe deciso con il marito di non denunciare l'accaduto, nella convinzione che nessuno avrebbe loro creduto. Solo dopo l'arresto di Tortora, consigliati da un amico giornalista, hanno trovato il coraggio di denunciare tutto ai magistrati. La donna è pervasa da una grande coscienza civica. "Qui se ne vedono di tutti i colori: bambini che si drogano, che muoiono. Bisogna colpire gli spacciatori grossi, non solo i pesci piccoli.

La droga la so riconoscere, e quel pomeriggio Tortora ne aveva un pacco così...". Sulla prima pagina del Secolo XIX Mario Carillo osserva che "se fosse stata una mitomane non avrebbe resistito tanto tempo alla tentazione di raccontare la storia vissuta con la sua fantasia malata. E la data è certa, ne fa fede il marito". Bella garanzia, il marito. Più che un pittore, Margutti è infatti un affermato protagonista delle cronache. Nel 1975 ha introdotto per scommessa un suo quadro al Louvre: la tela resta esposta per 36 ore insieme ad alcuni capolavori dell'impressionismo e lui si guadagna una denuncia per danneggiamento. Pochi mesi dopo gliene arriva un'altra, stavolta per simulazione di reato: lo accusano di un finto rapimento allo scopo di nascondere una scappatella extraconiugale.

Quattro anni dopo spedisce da New York alcune cartoline affrancate con francobolli da lui dipinti. Immediatamente espulso, manifesta davanti al consolato americano di Milano per chiedere al presidente Jimmy Carter un risarcimento di un milione di dollari. Non ascoltato, il 5 ottobre 1981 dichiara guerra agli Stati Uniti ("Pensavo che mi aggredissero - disse allora deluso ai giornalisti - e invece non mi hanno manco cagato").

Gerosalba Castellini e Giuseppe Margutti: è alle parole di questa coppia ("testimoni
a difesa degli inquirenti", li definisce l'avvocato Dall'Ora) che i magistrati e molti giornalisti decidono di aggrapparsi.
Eppure sarebbe facile accertare la verità. Basterebbe dar credito alla secca smentita di Tortorella oppure acquisire la testimonianza di Leonida Barezzi, direttore del settimanale Stop. E' a quest'ultimo che già a giugno si è rivolto Margutti, promettendo l'esclusiva del suo racconto in cambio di un congruo compenso. Allora la versione dei fatti è stata diversa: i protagonisti sarebbero stati lui e una ragazzina, Tortora avrebbe avuto in mano una valigetta ventiquattrore e non un sacchetto di plastica. Comunque sia, che Tortora e i suoi coimputati si rassegnino ad attendere in cella il ritorno dei magistrati dalle meritate ferie estive. La giustizia va in vacanza e un'Italia distratta fischietta il tormentone musicale dei fratelli Righeira: "Vamos a la playa, oh-oh-oh".

E' un ferragosto torrido. Chiuso in un cellulare, con la pressione al massimo, Tortora affronta un viaggio allucinante di dieci ore che lo conduce alla cella 12 del reparto infermeria del carcere di Bergamo.
Nessuno dei carabinieri di scorta che gli offra da bere: preferiscono giocare a fare i grandi poliziotti (e tra sgommate e contatti via radio in codice - "Volpe chiama volpe, rispondete!" - più volte sbagliano strada).

Chiuso in una cella di cinque passi per tre, il presentatore è trafitto dai nuovi verbali di interrogatorio, dalle nuove 'rivelazioni' che quasi ogni giorno si affacciano impuniti da settimanali (sull'Espresso, Pietro Calderoni e Sergio De Gregorio non ne bucheranno uno), quotidiani e telegiornali. Solo in questo modo, peraltro, i suoi avvocati possono essere aggiornati sull'andamento dell'istruttoria: a loro i giudici rifiutano qualsiasi informazione. Non possono far altro che presentare una memoria difensiva in cui chiedono di conoscere esattamente gli spostamenti dei pentiti nelle varie carceri (per provare la possibilità di accordi preventivi), di acquisire agli atti i numerosi articoli scritti da Tortora contro mafia e camorra e soprattutto che vengano effettuati accertamenti fiscali e tributari sul patrimonio del loro assistito. "Se nella 'memoria' non c'è altro di più importante, gli argomenti della difesa si rivelano d'una debolezza sconcertante", sentenzia Pino Aprile su Oggi. In quei giorni non tutti sono però disposti a credere alla colpevolezza del presentatore. Su Repubblica Enzo Biagi ha già esposto con lucidi argomenti - si rivolgerà anche al presidente del Csm Sandro Pertini - le sue riserve: "E se Tortora fosse innocente?". Adesso quella domanda è stata ripresa da un appello redatto da Piero Angela e Giacomo Ascheri e sottoscritto da decine di intellettuali, giornalisti, politici e uomini di spettacolo. A esprimere forti dubbi sulle prove a carico del presentatore e sulle modalità dell'inchiesta saranno anche Indro Montanelli sul Giornale, Massimo Fini ("Io vado a sedermi accanto a Tortora") e Gigi Moncalvo sul Giorno, Enzo De Mitri sulla Notte, Dino Biondi sul Resto del Carlino, Walter Vecellio sull'Avanti!, Rossana Rossanda sul Manifesto, Stefano Rodotà su Repubblica, Giorgio Bocca sull'Espresso, Italo Mereu sul Sole 24 Ore e pochi altri.

Sull'Unità Luciano Violante si chiede se la spettacolarizzazione dell'intervento giudiziario non nasconda "un'idea della giustizia come vendetta, del potere come violenza, dell'accusato come prigioniero, come uomo senza diritti". Leonardo Sciascia sollecita sul Corriere della Sera l'apertura di un dibattito sul caso giudiziario che sta dividendo l'Italia. "Ho l'impressione che la carta Tortora sia stata messa proprio a chiave di tutta la costruzione: una volta che si sarà costretti a toglierla, l'intera costruzione crollerà e tutto apparirà sbagliato e privo di credibilità". Il grande scrittore siciliano chiede che anche i magistrati siano finalmente responsabili degli errori commessi e propone che, una volta superato il concorso, si facciano almeno tre giorni di carcere all'Ucciardone o a Poggioreale: "Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza".
Giorgio Manganelli sottoscrive la sua analisi.

E' allora che interviene il sostituto procuratore generale della Repubblica di Milano, Gerardo D'Ambrosio: "C'è da rimanere veramente sgomenti quando due autorevoli esponenti della cultura concludono nell'individuare i rimedi agli indiscutibili mali della giustizia italiana, rispettivamente nella responsabilità civile del magistrato e in tre giorni di carcerazione per i nuovi giudici. E' un po' come affermare che gli ospedali funzionano perchè i medici rispondono civilmente e penalmente dei loro errori e hanno sempre sotto gli occhi le sofferenze del malato". Lo spalleggia di lì a poco, sempre sul Corriere della Sera, il collega Ferdinando Pomarici. La responsabilità civile dei magistrati per colpa grave?
"Una soluzione puramente fittizia e apparentemente frutto - come tante recenti - più di 'sentiti dire' orecchiati e ripetuti superficialmente che di un effettivo collegamento con la realtà".

Secondo interrogatorio, 29 settembre 1983. Alla presenza degli avvocati Dall'Ora e Della Valle, il giudice istruttore Giorgio Fontana rilegge le precedenti dichiarazioni di Pandico e Barra e contesta a Tortora le accuse dei Margutti: sembra di assistere a una rassegna stampa ormai datata.

Quindi passa alle dichiarazioni di un altro noto personaggio delle carceri, il killer Domenico Sanfilippo, che sostiene una tesi che la morte di Turatello rende impossibile verificare, e cioè che il boss milanese avrebbe frequentato abitualmente il presentatore televisivo. Tortora continua a negare. A questo punto il giudice istruttore chiede se siano suoi i numeri di telefono di un certo Tortora trovati sull'agendina del camorrista Giuseppe Puca, detto 'O Giappone.
La notizia, al solito, è già stata ampiamente anticipata dai giornali e la contestazione è singolare: gli inquirenti non li hanno ancora composti per una semplice verifica (solo otto mesi dopo si scoprirà che l'agendina è di una sua amica, Assunta Catone, e che i numeri sono quelli di un certo Tortona, imprenditore salernitano). Il sequestro
dell'agenda risale al maggio precedente e allora nessuno ne informò la star di Portobello. La scena diventa grottesca. Tortora chiede di poter controllare questi numeri di telefono. "Ah, non li ho portati", esclama il giudice. Poi, di fronte allo stupore dei presenti, aggiunge: "Non deve mica farsi illusione sull'efficienza dei nostri uffici".
L'interrogatorio si chiude qui. L'avvocato Dall'Ora chiede a Fontana se è tutto quello che hanno in mano. Il giudice risponde: "E' tutto". I due legali sono finalmente sereni.

"Niente. Niente. Niente. Zero più zero fa zero e non quattro. Hanno vuotato il sacco... e il sacco è vuoto" confidano ad Anna Tortora, che li aspetta fuori dal carcere.

Il sacco è talmente vuoto che va subito riempito. Due giorni dopo, sulla prima pagina del Corriere della Sera, l'inviato speciale Adriano Baglivo spiega che i magistrati dell'ufficio istruzione (Farina, Della Lucia, Spirito e Fontana) sono costretti a difendere il loro lavoro dagli attacchi quotidiani di una parte della stampa, che giudicano "per scopi esclusivamente economici interessati alla liberazione di Tortora".

Ma questo è solo l'incipit. "Veniamo ai fatti concreti. Il colloquio con uno degli inquirenti squarcia il velo sul mistero Tortora e delinea un iceberg di prove documentate che finalmente fanno uscire dai forse e dai si dice per entrare nel mondo clandestino della camorra. [...] Il quadro nel quale Tortora si colloca assume tinte fosche, per certi versi allucinanti. Un magistrato ha battuto a tappeto alcuni istituti di credito di Milano, ha sequestrato conti bancari e registri. L'altro ieri, in tre banche del centro del capoluogo lombardo, ha sigillato e trasferito a Napoli tre registri navali
che documentano un'operazione di acquisto di una barca, condotta da una società che faceva capo a Tortora. In uno degli istituti un inquirente ha vissuto giorni e notti fino a raccogliere tutta la documentazione della truffa che Tortora avrebbe compiuto sui fondi destinati ai terremotati dell'Irpinia.

[...] 'Chi avrebbe mai pensato - ha detto con profonda amarezza il magistrato - che dietro questa benevola iniziativa si nascondesse un'estorsione tipica della camorra?
Dietro una faccia che invoca umanità e che è vicina al dolore, alle vicissitudini umane, si nasconde un cuore di pietra, una sporcizia impensabile'. Dice il magistrato:
'Se lei sapesse quello che ci sta sotto...

Ci sono interessi economici vertiginosi, cifre impensabili. Non abbiamo dubbi, siamo in possesso di prove documentali ineccepibili. Ciò che conta è questo: i riscontri su Tortora sono incrociati, è una maglia fitta di situazioni che conduce a configurare reati'. [...] Abbiamo una confluenza di raggi che conducono a Tortora.

Ci sono giochi di miliardi. Questa volta li teniamo in mano, l'organizzazione è alle corde'". Baglivo a questo punto abbandona l'uso del condizionale e racconta i dettagli della truffa. "Legnano: Tortora lavora ad Antenna 3 e lancia un appello a favore dei terremotati. I soldi inviati dai telespettatori vengono depositati presso il Banco Lariano, che garantisce un interesse del 15 per cento. A questo contratto ufficiale se ne aggiunge un altro, occulto, un cosiddetto fondo nero per il quale l'istituto di credito corrisponde in effetti il 21 per cento d'interesse.
Accade che la differenza tra le due percentuali, il 6 per cento, finisce nelle tasche di Tortora, di Villa (un altro presentatore) e di un dirigente della società. La procura di Milano, delegata dai giudici napoletani, ha svolto indagini a tappeto, accurate".

Tutta la stampa, tutte le televisioni rilanciano i contenuti dell'articolo. L'impatto sull'opinione pubblica è enorme. Il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Francesco Di Maggio contesta a Baglivo la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 del Codice penale) e apre un'inchiesta. Dieci giorni dopo archivia la squallida vicenda, non senza aver prima testimoniato che i fondi raccolti - 2 miliardi e 600 milioni di lire in vaglia e assegni non trasferibili intestati al commissario per la ricostruzione Giuseppe Zamberletti - sono stati amministrati "in forma corretta e in modo oculato".

Il 24 aprile 1985 il Tribunale di Milano condannerà Baglivo e il suo direttore Alberto Cavallari, rispettivamente a sei e a quattro mesi di reclusione. Il Corriere della Sera
nasconderà la notizia in undicesima pagina, con un articolo di Adriano Solazzo in cui la soffiata anonima all'origine dell'articolo viene descritta come "ricca di particolari
non del tutto inverosimili".

All'inizio di dicembre le condizioni di salute di Tortora si sono notevolmente aggravate. E' dimagrito di undici chili, soffre di depressione psichica, ha il cuore provato dall'ipertensione arteriosa e forti dolori alla colonna vertebrale causati da un'ernia del disco. Con ogni evidenza, necessita di cure specialistiche che non possono essere assicurate nell'infermeria del carcere di Bergamo. Dall'Ora e Della Valle presentano così quella domanda di libertà provvisoria che il presentatore con coerenza continua invece a rifiutare. "Se Tortora resta in carcere rischia di morire", dichiarano in una conferenza stampa. Il giorno dopo, l'Unità titola: "Tortora? E' quasi pazzo, parola dei suoi legali". Forse è per questo che - scorgendo dalla sua branda l'arrivo in visita dei deputati liberali Antonio Patuelli e Giuseppe Facchetti - si mette a urlare: "L'Italia è la lebbra dell'Occidente!".

I giudici istruttori dispongono in tutta calma una perizia medico-legale e il 30 dicembre depositano un'ordinanza con la quale rigettano non solo l'istanza di libertà provvisoria ma anche quella di concessione degli arresti domiciliari: "Il presentatore non trarrebbe nessun miglioramento concreto nel trasferimento in un centro clinico. Permangono inoltre il pericolo per l'acquisizione delle prove e la pericolosità dell'imputato.

Rimetterlo in libertà comprometterebbe le esigenze di tutela della collettività".
Sette mesi sono passati dal suo arresto, addirittura dieci (a loro dire) dall'inizio dell'indagine. Di quale pericolo, di quale prova da inquinare parlano? L'affermazione è a tal punto contraddittoria che il Tribunale della Libertà, concedendo il 17 gennaio gli arresti domiciliari, non potrà non stigmatizzare i contenuti "superficiali" delle motivazioni addotte nell'ordinanza del giudice Fontana. Il quale aveva intanto dichiarato al Mattino: "Quello, se non è in coma non lo mollo".

Terzo e ultimo interrogatorio, 9 marzo 1984. La caserma Pastrengo è in assetto di guerra, presidiata da militi armati. Tortora arriva a Napoli a bordo di un'ambulanza, steso su una barella con le manette ai polsi. Ha dovuto abbandonare in tutta fretta la stanza 304 della clinica Città di Milano dove stava per sottoporsi a un'angiografia computerizzata. Due nuove star del pentitismo hanno tardato a entrare in palcoscenico (addirittura dieci mesi dopo il maxi-blitz) e adesso non possono più aspettare.

Sono presenti i giudici Di Pietro, Di Persia e Fontana. L'atmosfera è kafkiana.
Agli avvocati non viene consentito di prendere parte al confronto. Andrea Villa, un noto killer della banda Turatello che sta scontando l'ergastolo per duplice omicidio, viene introdotto al cospetto di Tortora con un cappuccio in testa. Una messinscena che non verrà mai spiegata. Dichiara di aver visto Turatello e Tortora mangiare insieme al ristorante La vecchia Milano, nel capoluogo lombardo. Al processo confonderà il pranzo con la cena, per cui a mezzogiorno i due si sarebbero accompagnati a signore dell'alta società in abito da sera (le persone indicate come commensali risulteranno essere tutte decedute almeno due anni prima). Gianni Melluso detto 'Il bello' o altrimenti 'Cha-cha-cha', si presenta invece a volto scoperto. Si rivolge a Tortora chiamandolo "Enzino". Riferisce di avergli consegnato, per conto della banda Turatello, diverse partite di cocaina (qualcosa come undici chili).

I primi incontri sono collocati nei pressi di Milano, "tra la fine del 1975 o l'inizio del 1976" (impossibile: in quel periodo il pentito era rinchiuso nel carcere di Sciacca). Ricorda soprattutto una riunione - con scambio di denaro e droga - nello studio milanese dell'avvocato Cacciola. Siamo alla fine del 1976 e oltre a Turatello e a Tortora vi avrebbero preso parte anche Roberto Calvi e Francesco Pazienza ("Ci mancava solo Sindona in soffitta e il Papa in portineria!", commenterà Dall'Ora). Tortora contesta deciso tutte le dichiarazioni dei due pentiti. E' allora che il giudice Fontana, insinuante, tenta l'approccio amichevole: "Ma lo dica Tortora, lo dica che lei usava droga... Non è mica un reato, sa?".

Avanzano intanto le tristi figure di nuovi pentiti, attratti dalla facile notorietà e dai possibili benefici (detenzione in caserma, protezioni, permessi premio, riduzione della pena) che possono trarre dall'accusare Tortora.
Sono killer ed ergastolani. Sostengono di aver udito da affiliati alla Nco che il presentatore era uno dei loro oppure di aver assistito a un incontro a Ottaviano tra Tortora e Rosetta Cutolo oppure che Guarnieri vuole sbugiardare Pandico per difendere a tutti i costi l'insospettabile camorrista. Sono Mario Incarnato, Antonio Verderame, Giovanni Monaco, Guido Catalano, Pasquale D'Amico e Michelangelo D'Agostino. Con Pandico e Barra, Sanfilippo, Melluso e Villa fanno undici: la "Nazionale della menzogna".

Enzo, se sei libero, vieni dopodomani alla presentazione del nostro programma".

Al Teatro Eliseo di Roma Marco Pannella è ospite di Italia Parla, tribuna elettorale condotta su Retequattro da Tortora e Pippo Baudo. Per chi la segue il 19 giugno 1983 l'effetto è surreale. Da due giorni il presentatore è rinchiuso a Regina Coeli e sullo schermo, insistente, scorre una scritta che precisa trattarsi di una trasmissione registrata. Ma nella vita ci sono appuntamenti che possono essere solo rimandati.

Per questo un anno dopo, il 5 maggio 1984, Pannella si reca a casa del vecchio amico (si conoscono dai tempi della battaglia sul divorzio) e gli chiede di candidarsi al Parlamento europeo. Per entrambi è un momento molto delicato. Il presentatore langue in attesa di un processo dall'esito già scritto, i radicali sono invece ancora scossi dalla clamorosa fuga a Parigi di Toni Negri. Lo avevano fatto eleggere deputato per denunciare l'abnorme lunghezza della carcerazione preventiva subìta degli imputati del processo "7 aprile". Ma quando, tre mesi dopo, la Camera aveva concesso l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti, il leader di Autonomia operaia aveva tradito ogni impegno, dandosi alla latitanza. Pannella, travolto dalle polemiche, non demorde: la battaglia per una giustizia giusta deve continuare, e stavolta con un protagonista più credibile. Tortora accetta. Costretto in casa, decide di trasformare il suo salotto in uno studio di registrazione collegato a Radio radicale e alle televisioni private del Pr. Editoriali parlati, dibattiti, fili diretti con gli ascoltatori. Nasce L'altra Italia Parla, trasmissione di due ore a conduzione domiciliare. Per un mese e mezzo - tre volte alla settimana - sfilano in via Piatti personaggi della cultura e dello spettacolo che sostengono convinti la sua candidatura: tra questi Giorgio Albertazzi, Orietta Berti, Angelo Branduardi, Gigi Sabani, Claudio Villa, Teddy Reno e Rita Pavone, Bruno Lauzi, Nilla Pizzi e il quartetto Cetra. E poco importa se alcune grandi firme del giornalismo - che pure credono nell'innocenza del presentatore (Biagi, Bocca, Montanelli) - storcono la bocca davanti alla scelta della militanza politica. Poco importa che ancora aleggi l'ingombrante fantasma di Toni Negri e che siano in molti a predire con tono saputo una nuova fuga, una nuova latitanza (Giulio Andreotti - all'epoca già "salvato" 27 volte dall'immunità parlamentare - commenterà sardonico sull'Europeo: "Alcuni galeotti per evadere si servono della lima. Altri, invece, ricorrono alla scheda elettorale"). Quelli che seguono sono soprattutto giorni febbrili, di intensa simbiosi con i nuovi compagni radicali. Tortora riprende forza e coraggio. L'ultima settimana di campagna elettorale vive un crescendo tumultuoso che travolge di rinnovato affetto il suo protagonista: sono centinaia le lettere e le telefonate di sconosciuti che ogni giorno lo invitano a non mollare, a combattere anche nel loro nome.

Una data - il 17 - continua a segnare sul calendario le tappe importanti di questa storia. Ieri la prima puntata di Portobello, la cattura e la concessione degli arresti domiciliari. Domani il rinvio a giudizio e la condanna al processo di primo grado. Oggi invece è il 17 giugno 1984 e Tortora può festeggiare con uno sformato di spinaci e due bicchieri di vino bianco la sua elezione a deputato europeo. Ha raccolto 415 mila preferenze, un consenso incredibile che supera gli stessi voti di Pannella. I magistrati di Castel Capuano non la prendono benissimo.

Dopo questo imbarazzante plebiscito non si allenta la presa sull'imputato simbolo della maxi-inchiesta. Passa un altro mese ancora prima che a Tortora venga concessa la revoc degli arresti domiciliari. Non c'è fretta, potrà tornare libero solo alla vigilia della seduta di insediamento del Parlamento di Strasburgo (al quale, peraltro, inoltreranno immediatamente la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del neoeletto).

Nel frattempo Fontana, De Lucia e Spirito firmano l'ordinanza del suo rinvio a giudizio per spaccio di droga e appartenenza alla Nuova camorra organizzata. Nelle quarantotto cartelle dattiloscritte compare un'affermazione inaudita: "Anche a voler prescindere, in ipotesi, dalle risultanze fin qui esaminate, va considerato come il Tortora non sia certamente estraneo all'uso della cocaina". Malgrado le ripetute richieste verbali e scritte dei suoi avvocati, nessuna visita specialistica, nessuna analisi medica verrà mai compiuta al fine di accertare la veridicità di questa ennesima "rivelazione". Si sarebbe altrimenti scoperto che l'unico vizio del presentatore è quello di fiutare ogni tanto alcune prese di tabacco Santa Giustina, un'abitudine trasmessagli da sua nonna Marcella.

Il processo alla Nco - che si apre il 19 febbraio 1985 - è diventato un circo a tre piste.
Il numero degli arrestati nella notte del maxi-blitz è così imponente che si è deciso di frazionarlo in tre tronconi, il primo dei quali esibisce l'imputato-simbolo dell'intera inchiesta. Tortora, che ha insistito perchè venisse concessa dal Parlamento europeo l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti, può guardare finalmente in faccia i suoi accusatori. Nell'aula-bunker di Poggioreale non si presenterà invece Pasquale Barra: ha dato forfait. Il suo duetto con Pandico stentava a sincronizzarsi in molti passaggi, soprattutto per quanto riguarda le date dell'affiliazione di Tortora alla camorra: lui la colloca tra il 1977 e il 1978, il suo collega nel 1980. Pandico comunque basta e avanza a giudici e cronisti giudiziari. Soprattutto ad Alfonso Madeo del Corriere della Sera, che a stento trattiene la sua ammirazione: "Destreggiandosi con malizia fra il ruolo di imputato e quello di testimone, uno dopo l'altro, in ordine alfabetico, sta impallinando decine di cutoliani con tono impavido ancorchè incolore, attentissimo a non abbassare la guardia appena un avvocato chiede la parola e altrettanto pronto, dopo rapida consultazione degli appunti, a ribattere battuta con battuta, ironia con ironia, senza l'ombra di un'incertezza e senza un attimo di compiacimento.

Va accumulando ore e ore di interrogatorio con l'aiuto di una memoria che un po'
sbalordisce e un po' atterrisce. Perchè non dà tregua, non conosce pausa, non indugia, non perdona, non è di tutti". Luisa Forti del Secolo XIX si crede invece a un evento mondano e opta per la cronaca rosa, soprattutto quando al processo sfila Melluso: "La camicia immacolata, la cravatta in seta gialla, le scarpe nuovissime ancora scricchiolanti, i capelli lucenti di shampoo, almeno due accessori 'made in Napoli' (l'orologio rosso Ferrari e la cintura beige coccodrillata con fibbione Pierre Cardin), lo sciccoso Gianni Melluso si è presentato davanti ai giudici in un lino primaverile, guardacaso tinta tortora, con taschino impreziosito da stilografica d'oro.

Preciso, tagliente, alle volte fin troppo pignolo, è apparso implacabile". Sono solo due esempi, ma possono dare un'idea della strategia informativa scelta dai cronisti (fa eccezione l'inviato del Giorno, Gigi Moncalvo, che infatti verrà poi sostituito): sorvolare sulle testimonianze che scagionano Tortora, minimizzare gli episodi imbarazzanti per l'accusa. Il teste Renè Vallanzasca esclude in aula che Turatello abbia conosciuto il presentatore? Il giorno dopo Paese Sera titola: "'Sì, Turatello conosceva Tortora' dice Vallanzasca". Il colonnello dei carabinieri Roberto Conforti dichiara che sulle parole dei dissociati non sono mai state fatte verifiche, accertamenti?

Meglio sorvolare. Nadia Marzano racconta che - interrogata nel carcere di Nisida dal giudice istruttore Fontana - è stata lasciata sola con Melluso ("Lo scambiai per un magistrato. 'Andate pure, con me parlerà', disse. Poi, mettendomi le mani addosso, dichiarò che poteva farmi uscire quando voleva")? L'indomani si può leggere sull'Unità che "tutte le deposizioni non aggiungono molto a quanto già si sapeva", mentre il Resto del Carlino titola: "Nadia Marzano: a casa mia si è incontrato con Cutolo".

Dopo la deposizione di Tortora - diciotto minuti di monologo senza che nè la Corte nè il Pm Diego Marmo gli rivolgano domande - Paolo Gambescia scrive sul Messaggero che "per difendersi concretamente il presentatore aveva ben poco. Tortora non può pensare di aver vinto perchè non è riuscito a dare una spiegazione convincente all'interrogativo principale che da sempre lo insegue: perchè i pentiti avrebbero dovuto avercela con lui?". Per il cronista del Tempo Alfredo Passarelli "la sua arringa è quasi un capolavoro, certamente a effetto, ma non ribatte con dati sostanziali alle testimonianze, ai riscontri, ai dati processuali".
Luisa Forti, che come tutti ha seguito l'udienza alle spalle del presentatore, supera se stessa: "Enzo Tortora, con occhi abilmente lucidi...".

Commentando invece l'interrogatorio di Melluso, Salvatore Maffei (sono sue le corrispondenze su Nazione, Resto del Carlino, Napoli Notte e Gazzetta del Mezzogiorno) scrive: "Per Tortora una giornata nera. Il pentito siciliano ha confermato nei minimi particolari le cose dette in istruttoria. I difensori dell'imputato non hanno potuto contestargli nessuna contraddizione". E in effetti non hanno potuto, perchè il tribunale non ha concesso loro di rivolgergli domande.

Gli avvocati del presentatore giocano in trasferta, davanti a un pubblico ostile. Le loro eccezioni vengono sistematicamente respinte dal presidente Luigi Sansone. E solo a fatica trovano ascolto le proteste per le ripetute, illegittime conferenze stampa che Melluso e Pandico rilasciano indisturbati dalle loro gabbie. Se La Repubblica parla di "incredibile protesta di uno dei difensori", sul Corriere della Sera il garantista Madeo commenta: "Perchè a Tortora è concesso di dire ciò che vuole e ai pentiti no?". E infatti dopo un paio di udienze riprendono come prima le quotidiane, plurime interviste televisive e radiofoniche rilasciate dai camorristi. Il giornalista di Radio radicale Marco Taradash viene invece immediatamente espulso dall'aula- bunker. Pandico lo ha appena accusato di averlo avvicinato per ingiungergli di ritrattare le sue accuse contro il presentatore: la sua parola può bastare, ogni confronto tra i due è inutile.
Tortora va condannato perchè la sua colpevolezza è l'architrave dell'intero processo.

E il polverone mediatico-giudiziario è buono a confondere le idee, a coprire l'inconsistenza delle accuse, a contenere il fastidioso puntiglio della difesa. Il 26 aprile il pm Marmo non ce la fa più: "Avvocato Coppola, il suo cliente è stato eletto con i voti della camorra! I pentiti con i colpi della camorra rischiano di essere uccisi. Voi non avete alcun rispetto della vita umana". Enzo Tortora si alza di scatto: "E' un'indecenza!".

Il procuratore della Repubblica di Salerno lo denuncerà per oltraggio a un magistrato in udienza. Quindici giorni dopo la commissione giuridica del Parlamento europeo negherà l'autorizzazione a procedere e voterà all'unanimità un documento di forte deplorazione per l'incredibile offesa rivolta a un suo membro.

Il 10 settembre la Corte si ritira. Nell'aula si è già spenta l'eco della requisitoria di Marmo (che chiede per Tortora 13 anni di carcere, definendolo "un cinico mercante di morte") così come delle arringhe degli avvocati Dall'Ora ("Se sarete liberi dalla paura di un giudizio o dalla speranza di un encomio, voi assolverete Tortora") e Della Valle ("Datemi un incensurato... Un incensurato!".

Il presidente Sansone e i giudici a latere Gherardo Fiore e Orazio Dente Gattola devono adesso giudicare le posizioni processuali di 247 persone ed emanare il loro verdetto. Resteranno in camera di consiglio sei giorni. Una media di quaranta sentenze al giorno, quattro all'ora, una ogni quindici minuti.

Ore 17.15 del 17 settembre 1985, Tribunale di Napoli

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tortora Enzo Claudio Marcello fu Salvatore e di Silvia Mariano è condannato a dieci anni di carcere. 50 milioni di multa. Un anno di libertà vigilata a pena scontata. Interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Il caso Tortora