Giurisprudenza

25 luglio 2008    Suprema Corte

Corte di Cassazione Penale - Sezioni Unite Sentenza 25.07.08, n. 31416

Corte di Cassazione Penale - Sezioni Unite
Sentenza 25.07.08, n.31416
Cassazione SU Penali: custodia cautelare patita per ingiusta detenzione da computare nella pena da espiare

 

Presidente F. Morelli
Relatore G. Ferrua


Vicenda processuale.

Con ordinanza 18-1-07 la Corte di appello di Palermo quale giudice dell’esecuzione, in accoglimento dell’istanza di Tizio disponeva che, nel determinare per il predetto la pena detentiva da espiare in virtù della sentenza di condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. emessa dalla citata Corte l’8-7-05 (irrevocabile il 18-1-07), si computasse la custodia cautelare da lui sofferta sine titulo dall’8-10-95 al 30-6-96 nel procedimento n. 434/94 R.G.N.R. del Tribunale di Sciacca; all’uopo rilevava che il beneficio della fungibilità, previsto dall’art. 657 c.p.p., era applicabile pur avendo il condannato per il medesimo periodo chiesto ed ottenuto (con provvedimento 18-4-00) riparazione per l’ingiusta detenzione: ciò in quanto l’art. 314 c. 4 c.p.p. non escludeva siffatta evenienza e potendo lo Stato esercitare l’azione giudiziaria per indebito arricchimento.

Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello, denunciando erronea applicazione degli artt. 314, 657 c.p.p. e precipuamente assumendo che dal disposto dell’art. 314 c. 4 c.p.p. si ricava il principio dell’alternatività tra l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione e quello della fungibilità della pena, per cui va escluso che un soggetto possa conseguire entrambi i benefici; segnalava al contempo che la prospettiva di un’azione volta a recuperare la somma a suo tempo elargita rimaneva priva di incidenza, stante la mancata previsione delle modalità di attivazione dell’Avvocatura dello Stato e l’eventualità di sopravvenuta insolvenza da parte di colui che l’aveva ricevuta.

Il ricorso veniva assegnato alla 1° sezione penale ed il collegio, evidenziato che sulla questione prospettata sussiste contrasto giurisprudenziale, rimetteva gli atti alle Sezioni Unite.

Con memoria depositata il 16-6-07 il Tizio precisava che il presupposto per ottenere la fungibilità si era concretato circa 8 anni dopo la di lui domanda avanzata ex artt. 314, 315 c.p.p. e che la sentenza di condanna, alla cui pena si riferiva l’operata detrazione, era stata pronunciata e divenuta irrevocabile successivamente alla decisione avente ad oggetto la liquidazione della riparazione in suo favore.

Motivi della decisione.

Il quesito sottoposto all’esame di queste Sezioni Unite è dunque il seguente: se in sede di determinazione della pena da eseguire debba computarsi a norma dell’art. 657 c.p.p. il periodo di custodia cautelare subito per un altro reato, anche nel caso in cui il condannato abbia ottenuto, per il medesimo periodo, un’equa riparazione per ingiusta detenzione.

Al proposito si sono delineati nell’ambito della giurisprudenza di legittimità due fondamentali orientamenti, tra loro contrapposti.

Taluni precedenti, nel risolvere negativamente la questione, hanno rilevato: che dal dettato dell’art. 314 c. 4 c.p.p. (in base al quale il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia stata computata ai fini della determinazione della pena) si deduce l’ulteriore speculare principio secondo cui chi ha ottenuto la riparazione non può più beneficiare della fungibilità con riguardo ad un identico periodo di carcerazione senza titolo; che i due istituti sono alternativi, essendo quindi rimessa all’interessato la facoltà di scegliere quello di cui avvalersi; che occorre evitare un’ingiustificata disparità di trattamento fra chi, avendo ottenuto la fungibilità non potrebbe conseguire la riparazione e chi, invece, avendo ottenuto quest’ultima, avrebbe diritto anche alla fungibilità (Cass. 10-5-99 n. 3488 Rv. 214644; Cass. 16-1-04 n. 18966 Rv. 227968; Cass. 11-2-04 n. 10366 Rv. 227229).

In termini difformi è stato invece affermato che il comma 4 dell’art. 314 c.p.p. prevede esclusivamente il caso in cui il soggetto abbia usufruito della fungibilità e non già quello in cui egli abbia “scelto” la riparazione per cui solo il primo beneficio deve ritenersi preclusivo dell’altro; a sostegno di tale soluzione si è evidenziato che non è appropriato parlare di vera e propria facoltà di scelta in capo all’interessato in quanto i due istituti sono ontologicamente diversi, essendo la fungibilità affidata ai poteri di ufficio dell’organo dell’esecuzione mentre la richiesta di riparazione è interamente rimessa alla volontà del privato; infine è stato sottolineato che ogniqualvolta la possibile fungibilità si concretizzi dopo la scadenza del termine posto dall’art. 315 c. 1 c.p.p. si verterebbe in fattispecie di “rinuncia coatta” ad uno dei due benefici e di converso che la disparità di trattamento, paventata dal contrario indirizzo, è superabile con il rimedio dell’azione giudiziaria esercitabile dallo Stato per l’indebito arricchimento (Cass. 23-11-04 n. 358 Rv. 230723).

Una soluzione intermedia risulta infine adottata in una più recente pronuncia la quale, a fronte di conseguita riparazione, limita la possibilità di ottenere la detrazione del periodo di custodia sofferta senza titolo all’ipotesi in cui, quando l’interessato ebbe a promuovere l’istanza di cui all’art. 314 c.p.p., non era ancora applicabile la fungibilità; qualora invece il soggetto, “pur essendo attivabili entrambi le opzioni, abbia per propria scelta chiesto e conseguita la riparazione”, è stato negato che il medesimo possa invocare l’operatività dell’altro istituto (Cass. 5-12-07 n. 47001 Rv. 238489).

Queste Sezioni Unite ritengono di aderire all’impostazione adottata dalla sentenza n. 358 del 2004 la quale riconosce, in generale e senza individuare limitazioni, l’applicabilità del beneficio della fungibilità, anche se il condannato abbia ottenuto la riparazione per l’ingiusta detenzione: nel condividere tutte le ragioni poste a fondamento di detta pronuncia si svolgono altresì le seguenti considerazioni in ordine all’interpretazione degli artt. 657 e 314 c.p.p. ed al collegamento tra le due norme.

L’art. 657 c.p.p., in tema di esecuzione, disciplina il computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo ed in particolare sancisce che “il pubblico ministero nel determinare la pena da eseguire computa il periodo di custodia cautelare subita per lo stesso o per un altro reato”; quest’ultimo dettato non lascia adito a dubbi: il pubblico ministero, preso atto di un periodo di privazione della libertà a titolo di custodia cautelare deve operare la detrazione, unico limite essendo rappresentato dalla circostanza che la misura sia stata subita dopo la commissione del reato per il quale va determinata la pena da eseguire.

Il computo in questione costituisce dunque una regola imprescindibile e della stessa occorre tenere conto in materia di riparazione.

Nella evidenziata ottica va letto l’art. 314 c. 4 c.p.p il quale prevede che “il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena” e significativamente è stato affermato che il riferimento è da intendersi come se fosse detto “per quella parte che deve essere computata” (Cass. 20-11-01 n. 13322, non massimata sul punto); proprio tale disposizione vale a confermare l’inderogabilità di cui sopra e l’assenza di ogni discrezionalità nella applicazione della fungibilità: i due istituti non sono dunque alternativi e non può con riguardo ai medesimi parlarsi di scelta, essendo destinato a prevalere quello contemplato dall’art. 657 c.p.p.

Il contesto normativo, così interpretato, ha una ben precisa ratio la quale consiste nel privilegiare in via diretta il bene primario nonché indisponibile della liberà, rendendo legittimo un determinato periodo di detenzione, che originariamente non lo era, così escludendo che l’interessato debba scontare la pena detentiva per un ulteriore pari lasso temporale. La fungibilità, costituendo una reintegrazione in forma specifica, ha invero una ben maggior valenza rispetto ad una riparazione di carattere patrimoniale, la quale “monetizzando il sacrificio di una libertà inviolabile ne costituisce un pallido rimedio” (testualmente: Corte Cost. sentenza n. 219/2008).

In realtà la possibilità di scelta in capo all’interessato, a cui fa riferimento la giurisprudenza che si disattende, va negata sotto un profilo, sia concettuale, sia sistematico: innanzitutto non è concepibile che il predetto abbia facoltà di surrogare la libertà con beni materiali e d’altro canto egli non può rinunciare ad avvalersi di un istituto la cui applicabilità è imposta al pubblico ministero; a ciò aggiungasi che la domanda di riparazione è soggetta ad un termine di decadenza (art. 315 c. 1 c.p.p.) e che può verificarsi, come nella fattispecie in esame, che le condizioni per la fungibilità non sussistano al momento in cui chi ha subito l’ingiusta detenzione è legittimato a chiedere la riparazione.

Né può sostenersi che il soggetto, chiedendo la riparazione, farebbe venir meno il dovere del pubblico ministero di effettuare la detrazione: una siffatta regola non è posta dall’art. 657 c.p.p. ed essa non è ricavabile dal principio contrario di cui all’art. 314 c. 4 c.p.p. poiché all’operatività di un determinato istituto non può introdursi un limite tratto dalla disciplina di un altro, diverso e non omogeneo.

È quindi indubbio che l’interessato il quale abbia ottenuto la riparazione esercitando tempestivamente la relativa domanda in un momento nel quale mancava il presupposto della fungibilità (ossia una sanzione detentiva da eseguire), ha diritto alla detrazione di cui all’art. 657 c. 2 c.p.p. quando intervenga successivamente una condanna definitiva ad una pena di durata non inferiore a quella della custodia cautelare sofferta; ma questo diritto va riconosciuto anche nel caso in cui la riparazione sia stata invocata e concessa, pur ricorrendo la possibilità dello scomputo: ciò perchè, come esposto in precedenza, non sarebbe configurabile una realizzata scelta o rinuncia da parte del condannato, bensì un’illegittima iniziale omissione del pubblico ministero.

Certamente l’avvenuto ristoro economico seguito dalla detrazione comporta un ingiustificato arricchimento del beneficiario ai danni dello Stato e pertanto quest’ultimo avrà la facoltà di esercitare l’apposita azione che ha carattere residuale e che non è esclusa dalla sussistenza di una causa di acquisizione, quale il provvedimento del giudice della riparazione (si veda Cass. civ. 9.2-87 n. 1334 Rv. 450809; Cass. civ. 30-7-99 n. 8311 Rv. 529145; Cass. civ 8-11-05 n. 21647 Rv. 586072); azione esperibile ai sensi dell’art. 2041 c.c. secondo le regole civilistiche, non rilevando la mancata previsione di particolari modalità per l’evenienza in questione e costituendo la sopravvenuta insolvenza del convenuto un fattore patologico sempre ipotizzabile in relazione all’esito di ogni esperienza giudiziaria.

A prevenire situazioni del genere deve ritenersi che il giudice della riparazione, nel caso in cui gli risulti che l’istante è stato condannato con sentenza non definitiva ad una pena superiore a quella della custodia cautelare sofferta, possa sospendere il procedimento in attesa che venga definito quello nell’ambito del quale è intervenuta detta sentenza. Nè varrebbe obiettare che secondo l’attuale codice di rito “il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione” (art. 2 c.p.p.) e che solo le questioni pregiudiziali relative allo stato di famiglia o di cittadinanza possono determinare una sospensione del processo (art. 3 c.p.p.); queste disposizioni concernono il processo penale in quanto volto all’accertamento della sussistenza del reato e della sua commissione da parte dell’imputato: esse di conseguenza non sono applicabili al procedimento di riparazione dell’ingiusta detenzione il cui giudice non ha poteri rapportabili a quelli tipici del giudice della cognizione e neppure dell’esecuzione (si veda: Cass. S.U. 13-12-95 n. 42 Rv. 203638; Cass. 13-4-00 n. 2391 Rv. 217691); si palesa invece attuabile per analogia, non essendo previsti divieti per il rito camerale, una sospensione per assoluta necessità ex art. 477 c.p.p., posto che i termini di durata ivi previsti sono meramente ordinatori (su tale ultimo punto: Cass. 17-2-97 n. 2233 Rv. 207353; Cass. 26-9-07 n. 39784 Rv. 238436).

D’altro canto la procedura de qua, pur svolgendosi dinnanzi al giudice penale, assume connotazioni proprie, anche di carattere civilistico, avendo essa ad oggetto un rapporto patrimoniale tra l’istante ed l’amministrazione del Tesoro, dovendosi altresì considerare che l’intervento del pubblico ministero nella medesima ha natura identica a quella di cui all’art. 70 c.p.p. (Cass. 13-11-07 n. 46777 Rv. 238363): pertanto potrebbe addivenirsi ad una sospensione anche alla luce della normativa processuale civilistica ai sensi dell’art. 337 c.p.c., onde evitare pronunce che vengano a trovarsi in rapporto di conflittualità dal punto di vista dei loro effetti pratici.

Al proposito è opportuno ricordare che entrambi i menzionati rimedi (l’azione volta ad eliminare il pregiudizio economico dello Stato e la sospensione del procedimento per la riparazione) sono stati indicati come praticabili in due pronunce della dalla Corte Costituzionale (sentenza 348/92 e ordinanza 191/02) le quali hanno fatto espresso richiamo alla giurisprudenza della Corte di cassazione che li aveva specificatamente previsti (Cass. 3-4-91 n. 1553 Rv. 187237).

In conclusione va affermato il seguente principio di diritto: il pubblico ministero nel determinare la pena che un soggetto deve espiare è tenuto a computare a norma dell’art. 657 c.p.p. il periodo di custodia cautelare che il condannato ha subito per un altro reato, anche nel caso in cui il medesimo abbia per detto periodo ottenuto un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione.

S’impone di conseguenza il rigetto del ricorso.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.

Roma, 10-7-08.

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