Suprema Corte

11 luglio 2007    Suprema Corte

CASSAZIONE Sentenza n. 39815-2007

Corte Suprema di Cassazione - Civile

Sezione IV Penale

Sentenza n.39815/2007 

udienza del 11 luglio 2007

deposito del 29 ottobre 2007

 

Osserva

1) Il provvedimento impugnato.

La Corte d'appello di Catanzaro, con ordinanza 23 giugno 2005, ha riconosciuto a B.D. il diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione subita, dal 5 luglio 2001 all'8 luglio 2002 (per 368 giorni), a seguito dell'applicazione, nei suoi confronti, della misura cautelare della custodia in carcere per reati dai quali era stato successivamente assolto con sentenza divenuta definitiva.

La Corte ha escluso che l'istante avesse dato causa alla detenzione per dolo o colpa grave e che fossero state provate conseguenze diverse dalla mera detenzione; in particolare ha escluso che la detenzione avesse provocato un danno all'immagine dell'istante in considerazione della sua pericolosità sociale emergente dai numerosi precedenti penali.

Ha quindi, la Corte di merito, liquidato l'indennizzo in Euro 54.000,00, non provvedendo sulle spese tra le parti per non esservi stata opposizione all'accoglimento della richiesta da parte del Ministero convenuto.

2) I motivi di ricorso.

Contro questa ordinanza ha proposto ricorso B.D. il quale ha dedotto un unico motivo di censura nei confronti dell'ordinanza impugnata denunziando la violazione degli artt. 314 e 315 c.p.p., nonchè la contraddittorietà e insufficienza della motivazione, con riferimento ai criteri utilizzati per determinare l'indennizzo riconosciuto.

In particolare, secondo il ricorrente, la Corte di merito si sarebbe limitata a valorizzare esclusivamente la durata e la forma della misura sofferta senza prendere in considerazione le conseguenze ulteriori dell'ingiusta detenzione subita limitandosi ad affermare l'inesistenza della prova di tali conseguenze e senza considerare che esistono conseguenze della detenzione che costituiscono una conseguenza normale di essa per le quali non è richiesto di fornire la prova della loro esistenza.

Secondo il ricorrente tra queste conseguenze dovrebbe essere ricompreso il danno esistenziale invece erroneamente disconosciuto dalla Corte di merito.

Con memoria successivamente depositata il difensore del ricorrente ha insistito sulle considerazioni svolte in ricorso - ed in particolare sulla necessità che la riparazione ricomprenda anche il danno esistenziale - e ha richiamato recenti pronunce della Corte di Cassazione Civile e del Consiglio di Stato in merito al riconoscimento di questa tipologia di danno con particolare riferimento al danno derivante dalla forzata astensione dai rapporti sessuali tra coniugi.

3) Natura della riparazione e criteri di liquidazione dell'indennizzo.

Va premesso che la riparazione per l'ingiusta detenzione, come quella per l'errore giudiziario, non ha natura di risarcimento del danno ma di indennità o indennizzo e trova il suo fondamento su principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale.

L'origine solidaristica della previsione dei due casi di riparazione non esclude però che ci si trovi in presenza di diritti soggettivi qualificabili di diritto pubblico cui corrisponde, specularmente, un'obbligazione dello Stato da qualificare parimenti di diritto pubblico.

Il criterio seguito dalla legge, diretto ad escludere una tutela obbligatoria di tipo risarcitorio, risponde ad una precisa finalità: se il legislatore avesse costruito la riparazione dell'ingiusta detenzione come risarcimento dei danni avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il danneggiato fornisse non solo la dimostrazione dell'esistenza - nelle persone che hanno concretamente agito - dell'elemento soggettivo, fondante la responsabilità per colpa o per dolo, ma anche la prova dell'entità dei danni subiti.

Ciò si sarebbe peraltro posto in un quadro di conflitto con l'esigenza (fondata non solo su una precisa disposizione della nostra Costituzione - art. 24, comma 4 - ma anche sull'art. 5, comma 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, oltre che sull'art. 9, n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici) di garantire un adeguato ristoro a chi sia stato comunque ingiustamente condannato o privato della libertà personale senza costringerlo a defatiganti controversie sull'esistenza dell'elemento soggettivo di chi aveva agito e sulla determinazione dei danni subiti per queste condotte.

Se la scelta del legislatore è da ritenere condivisibile deve però rilevarsi come essa non sia scevra da inconvenienti.

Il primo è costituito dalla circostanza che il significato di indennità e di indennizzo (che peraltro il codice in questo caso non usa: di qui alcune opinioni che contestano questa costruzione teorica) non è utilizzato dal legislatore in senso univoco.

In alcuni casi l'indennità è intesa come un corrispettivo per la perdita o la limitazione di un diritto; sono i casi di espropriazione, servitù coattive, occupazioni di fondo altrui (per es. art. 938 c.c.).

In altri casi come prestazione derivante dalla conclusione di un contratto (per es. i casi nei quali l'assicuratore gode di un limite alla sua responsabilità).

In un terzo gruppo di casi il pregiudizio deriva da una condotta conforme all'ordinamento che però ha prodotto un danno che deve comunque essere riparato; alcuni esempi possono trarsi dal codice civile: art. 2045 c.c. (indennità per il danneggiato a carico di chi abbia agito in stato di necessità), art. 2047 c.c., comma 2 (danno cagionato dall'incapace), art. 843 c.c., comma 2 (accesso al fondo per costruire, riparare, ecc.).

La riparazione per l'errore giudiziario o per l'ingiusta detenzione sembra avvicinarsi a questa terza specie di indennità, per la quale si è fatto ricorso alla figura dell'atto lecito dannoso: l'atto è stato infatti emesso nell'esercizio di un'attività legittima (e doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi successivi, ne è stata dimostrata (non l'illegittimità ma) l'erroneità o l'ingiustizia.

Un altro inconveniente del sistema delineato è costituito dalla necessità di utilizzare, prevalentemente se non esclusivamente, criteri equitativi per la liquidazione dell'indennizzo.

Il giudice, per limitare il margine di discrezionalità, ineliminabile in questa forma di liquidazione, può soltanto utilizzare parametri, non previsti normativamente, che valgano a rendere razionali, trasparenti e non casuali i criteri utilizzati.

4) Criteri utilizzati dal giudice di merito.

Dall'esame del ricorso non sembra che il ricorrente si dolga della quantificazione dell'indennizzo relativo alla mera detenzione malgrado la Corte di merito abbia liquidato una somma inferiore a quella risultante dal parametro usualmente utilizzato che fa riferimento alla durata massima della custodia cautelare.

In ogni caso va rilevato che la natura di indennizzo della somma liquidata a titolo di riparazione conduce a importanti conseguenze anche nel giudizio di legittimità perchè i criteri, necessariamente

equitativi, utilizzati dal giudice di merito non possono essere sindacati in questo giudizio se non nei limiti di seguito indicati e non certo quando, con il ricorso, si intende in realtà non denunziare la violazione di legge o un vizio di motivazione del provvedimento impugnato ma evidenziare l'insufficienza della somma liquidata a favore dell'istante.

Il controllo sulla congruità della somma liquidata a titolo di riparazione - quale tipico giudizio di merito - è dunque sottratto al giudice di legittimità che può soltanto verificare se il giudice di merito abbia logicamente motivato il suo convincimento e non certo sindacare la sufficienza, o insufficienza, della somma liquidata a titolo di riparazione a meno che, discostandosi in modo assai

sensibile dai criteri usualmente seguiti - che fanno riferimento al tetto massimo liquidabile correlato alla durata massima della custodia cautelare - il giudice non abbia adottato criteri manifestamente arbitrari o immotivati ovvero abbia liquidato in modo simbolico la somma dovuta.

Nel caso in esame non è ravvisabile alcuno di questi casi; il giudice ha motivato sull'applicazione dei criteri di liquidazione e la somma liquidata, di poco inferiore al parametro indicato, non assume carattere arbitrario e tanto meno simbolico ed è pervenuto alla determinazione di un indennizzo che si discosta da quello indicato ma non in modo tale da assumere caratteristiche di arbitrarietà (Euro 54.000,00 a fronte di un parametro di circa Euro 86.000,00); questa valutazione si sottrae dunque al vaglio di legittimità involgendo una valutazione di natura equitativa riservata al giudice di merito.

Quanto alle ulteriori conseguenze della detenzione è incensurabile la valutazione di inesistenza della prova della loro esistenza; d'altro canto neppure con il ricorso vengono indicati specifici pregiudizi di cui si sia fornita la prova.

5) Criteri di riparazione dell'errore giudiziario e dell'ingiusta detenzione.

Preliminare all'esame del tema proposto con il ricorso (danno esistenziale) è la soluzione del problema se possa tenersi conto, per la liquidazione dell'indennizzo, anche dei criteri usualmente utilizzati per il risarcimento del danno.

È infatti evidente che se questa possibilità non esistesse il problema del danno esistenziale sarebbe risolto (negativamente) in radice.

Su questo tema vanno anzitutto sottolineate alcune differenze nella disciplina normativa in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione rispetto a quella riguardante la riparazione dell'errore giudiziario.

Mentre l'art. 314 c.p.p. parla infatti di "equa" riparazione dovuta per l'ingiusta detenzione, questo aggettivo non compare nell'art. 643 c.p.p. in tema di riparazione a seguito di revisione.

La necessità di utilizzare criteri equitativi non è peraltro esclusa, nel caso della riparazione dell'errore giudiziario, dall'eliminazione dell'aggettivo che qualificava la riparazione e che più non compare nell'art. 643 c.p.p., comma 1 a differenza di quanto previsto dall'art. 571 dell'abrogato codice di rito e, appunto, dall'art. 314 c.p.p. in tema di riparazione per l'ingiusta detenzione.

Dottrina e giurisprudenza sono infatti concordi nel non attribuire eccessivo rilievo al mancato espresso richiamo all'equità e questa opinione è confermata anche dalla relazione al progetto preliminare del codice: è proprio la natura indennitaria della riparazione che rende ineliminabile l'uso di criteri equitativi per determinare in concreto, con la successiva traduzione in termini monetari, le conseguenze dell'ingiusta condanna.

Il mancato richiamo all'equità da parte dell'art. 643 c.p.p. può però consentire di affermare che non è inibito al giudice della riparazione dell'errore giudiziario fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria che possono validamente contribuire a restringere i margini di discrezionalità inevitabilmente esistenti nella liquidazione di tipo esclusivamente equitativo.

E infatti in dottrina si è affermato che "attraverso la procedura di riparazione dell'errore giudiziario, la vittima può in definitiva ottenere la liquidazione dei danni provocati dall'ingiusta condanna".

Più di un autore, d'altra parte, ha ravvisato nella riparazione per l'errore giudiziario una componente indennitaria e una risarcitoria, quasi si trattasse di un tertium genus rispetto alle due forme di ristoro. Fermo restando che, anche in questo caso, la riparazione non diverrà di tipo risarcitorio ma continuerà a mantenere il carattere di indennizzo utilizzando questi criteri per la determinazione quantitativa del ristoro di un pregiudizio con la liquidazione di una somma che però conserva il carattere indennitario.

Seguendo questo ordine di idee la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto corretto applicare criteri di liquidazione di tipo risarcitorio al danno cagionato dall'errore giudiziario limitando il criterio equitativo alle voci di danno non esattamente quantificabili.

Trattasi di criterio già adottato dalle Corti di merito (v., per es. App. Palermo 15 febbraio 2000, in Foro it., 2001, 2, 41) e ritenuto corretto dalla giurisprudenza di questa Corte (vedi Sez. 4, 25 novembre 2003, n. 2050, Barillà, in Giur. It., 2004, 1025).

In altri casi è stato invece utilizzato un criterio esclusivamente equitativo con una liquidazione globale di tutte le conseguenze dell'errore giudiziario (si veda in particolare App. Perugia 24 gennaio 1996, in Giur. it., 1996, 366) e questo procedimento deve ritenersi parimenti corretto ove il giudice di merito abbia comunque dato adeguato conto dei criteri seguiti nella liquidazione, ancorchè di natura esclusivamente equitativa, e questi criteri non appaiano manifestamente illogici.

Naturalmente il giudice che ritenga di utilizzare i criteri risarcitori deve procedere con il rispetto delle regole civilistiche applicabili al risarcimento del danno.

Non potrebbe quindi, il giudice della riparazione dell'errore giudiziario, dopo aver optato per il criterio risarcitorio, liquidare danni che, in base alla disciplina applicabile ai danni civili, non siano ritenuti risarcibili o con criteri confliggenti con tali regole; ferma restando, ovviamente, la possibilità di applicare criteri equitativi per la liquidazione di un danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c. e art. 2056 c.c., comma 1).

Questo assetto non è però immediatamente trasponibile alla riparazione per l'ingiusta detenzione per la quale il criterio risarcitorio sembra proprio escluso, quanto alle conseguenze della sola privazione della libertà personale, non solo dall'uso dell'aggettivo "equa" ma altresì dal riferimento alla sola custodia cautelare subita (di per sè riparabile con meri criteri indennitari) e dall'esistenza di un "tetto" che rendono questa liquidazione di ardua compatibilità con criteri risarcitori.

6) Il danno non patrimoniale.

Premesse queste considerazioni va esaminata la censura proposta dal ricorrente che denunzia la mancata liquidazione del danno esistenziale da parte della Corte di merito.

Questo esame richiede una precisazione e una premessa.

La precisazione è costituita dal rilievo che l'art. 314 c.p.p., con il richiamo alla custodia cautelare subita, intende innanzitutto garantire l'indennizzo per il danno derivante dalla mera privazione della libertà personale e dalle dirette conseguenze di questa privazione sul piano delle attività e dei rapporti personali.

Ma l'art. 315 c.p.p., comma 3, richiama, in quanto compatibili, anche le altre norme sulla riparazione dell'errore giudiziario e ciò consente di affermare, come del resto sempre riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, che sia applicabile anche alla riparazione per l'ingiusta detenzione - sempre all'interno del tetto massimo previsto - la possibilità di commisurare l'entità della riparazione non solo alla durata della detenzione ma altresì alle "conseguenze personali e familiari" da essa derivanti (art. 643 c.p.p., comma 1).

Peraltro, per queste conseguenze ulteriori (gli esempi sono noti: la perdita del lavoro, l'obbligata cessazione di un'attività economica, ma anche una significativa compromissione delle condizioni di salute) è richiesto - a differenza di quanto avviene per il pregiudizio derivante dalla mera privazione della libertà personale – che l'istante fornisca la prova della loro esistenza anche se non del danno subito la cui liquidazione può avvenire equitativamente.

Il tema proposto con il ricorso - autonoma riparabilità del danno esistenziale conseguente alla privazione della libertà personale - richiede però l'esame di alcuni aspetti rilevanti in tema di riparabilità del danno non patrimoniale in generale e dei danni che normalmente vengono ritenuti far parte di questa categoria di danni (morale soggettivo, biologico ed esistenziale). Tema che ha subito, negli ultimi anni, un'evoluzione giurisprudenziale particolarmente accelerata e che presenta maggiori difficoltà teoriche e ricostruttive rispetto al danno patrimoniale.

Tradizionalmente i danni non patrimoniali erano ritenuti risarcibili nei ristretti limiti previsti dall'art. 2059 c.c. che, prevedendone il ristoro nei soli casi previsti dalla legge, limitava la loro risarcibilità alla sola ipotesi in cui il danno fosse stato cagionato da un reato (art. 185 c.p., comma 2) perchè questo era l'unico caso previsto dalla legge: cd. danno morale soggettivo.

In tempi più recenti, rispetto all'approvazione del codice penale, sono state introdotte, con innovazioni legislative, ulteriori forme di risarcimento di danni non patrimoniali (vengono richiamati, da dottrina e giurisprudenza, la L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 2, sui danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie; la L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 29, comma 9 sull'impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; il D.Lgs. 25 luglio 1998, n.286, art. 44, comma 7, per gli atti discriminatori per motivi razziali, etnici e religiosi; la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 in tema di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo; si aggiunga il disposto dell'art. 89 c.p.c., comma 2 nel caso di espressioni sconvenienti o offensive contenute negli scritti difensivi).

Una diversa evoluzione teorica ha condotto il danno morale a perdere, o vedere attenuato nel tempo, l'originario carattere sanzionatorio per assumere sempre più una veste anche riparatoria estesa, dalla

più recente giurisprudenza di legittimità, a danni provocati da condotte che solo astrattamente possono costituire reato (il "reato" commesso dall'incapace; i casi di presunzione di concorso di colpa ecc.; vedi Cass., sez. 3, civ., 12 maggio 2003 n. 7283, per est. in Danno e Responsabilità, 2003, 713).

Anzi la sentenza n. 8827 della terza sezione civile di questa Corte, cui si accennerà più avanti, ha compiuto un ulteriore passo per svincolare sempre più dal reato il danno morale soggettivo avendo

ritenuto che, nel caso di pregiudizi derivanti dalla lesione di un interesse costituzionalmente protetto, "il pregiudizio consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema d'animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come reato".

L'evidente iniquità della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di reato (e alle altre limitate ipotesi via via introdotte dal legislatore) aveva del resto già da tempo indotto dottrina e giurisprudenza a costruire ipotesi di danni risarcibili ex art. 2043 c.c. anche in casi nei quali la lesione patrimoniale era assai poco evidente e comunque poteva mancare: ci si riferisce in particolare al danno biologico - costituito dalla lesione dell'integrità psico-fisica della persona - che è stato fondato sulla diretta violazione del diritto alla salute e all'integrità psico fisica della persona, garantito dall'art. 32 Cost., ma con il richiamo all'art. 2043 c.c., e non all'art.2059 c.c., anche dopo che ne è stata riconosciuta la natura non patrimoniale.

7) In particolare: il danno esistenziale.

Più complesso è stato il percorso ricostruttivo utilizzato per affermare la risarcibilità del danno esistenziale la cui natura non patrimoniale, a differenza di quello biologico, è sempre stata indiscussa ma per il quale era meno agevole rinvenire il fondamento normativo (difatti ancora oggi

importanti orientamenti dottrinari - ma anche giurisprudenziali - dubitano della risarcibilità, o riparabilità, del danno esistenziale).

Va premesso che la tendenza diretta ad ampliare l'ambito di risarcibilità (ma spesso si preferisce parlare di riparabilità) dei danni non patrimoniali si è sviluppata lungo due direttrici:

1) l'affermazione del concetto che il danno non patrimoniale risarcibile non può essere riduttivamente ricondotto al cd. "danno morale soggettivo" (che peraltro nè l'art. 2059 c.c. nè l'art. 185 c.p. menzionano) e quindi può estendersi ad altre forme di danno non patrimoniale (danno biologico e danno esistenziale in particolare);

2) l'estensione del danno morale soggettivo a casi di danno non provocato da reato.

Questo processo ha avuto come prima conseguenza quella di consentire di estendere la risarcibilità del danno non patrimoniale anche a soggetti diversi dalle persone fisiche (in questo senso vedi Cass.

civ., sez. 3, 3 marzo 2000 n. 2367, per est. in Danno e Responsabilità, 2000, 490 e, della medesima sezione, la recentissima sentenza 4 giugno 2007 n. 12929, per est. in Guida al Diritto, 2007, n. 25, p. 14).

Non ignora la Corte che nella giurisprudenza penale di legittimità questi principi siano stati posti in discussione (v. Cass., sez. 6, 12 luglio 2001 n. 32957 che così si esprime: "non è ravvisabile, come ritenuto dal giudice del merito, un "danno all'immagine”, riconducibile al comune, giacchè esso per la sua natura di danno morale, come tale correlabile ad una sofferenza fisica o psichica è più propriamente riferibile al soggetto privato danneggiato e non ad un ente della PA.").

È peraltro da rilevare che la prevalente giurisprudenza penale di legittimità è nel senso accolto da quella civile (v. Cass., sez. 1, 8 luglio 1995; 22 giugno 1992 n. 8381; sez. 1, 11 novembre 1992 n.

9105; sez. 1, 14 dicembre 1988 n. 13850) di talchè l'orientamento ricordato, anche se più recente, deve ritenersi isolato (oltre che smentito dalla giurisprudenza comunitaria: v. sentenza della Corte di

giustizia delle Comunità Europee 12 marzo 2002, causa C-168/00, per est. in Foro it., 2002, 4, 329).

Ma l'evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di danno non patrimoniale è più recente. Con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827, entrambe in Foro it., 2003, 1, 2272) la terza sezione civile di questa Corte ha ribadito innanzitutto come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l'art. 2059 c.c. in esame nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona".

Ha ritenuto che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. imponga di ritenere inoperante il limite posto da tale norma "se la lesione ha riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti" ed in particolare i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti e garantiti dall'art. 2 Cost..

Il giudice civile di legittimità sembra quindi propendere per un concetto unitario di danno non patrimoniale e ritiene non proficuo "ritagliare all'interno di tale generale categoria specifiche figure

di danno etichettandole in vario modo: ciò che rileva, ai fini dell'ammissione al risarcimento, in riferimento all'art. 2059 c.c., è l'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica".

In questa ottica le sentenze citate della 3^ sezione civile evitano di fare espresso riferimento al danno esistenziale ma l'esame dei casi presi in considerazione conferma che i danni accertati erano riferiti a questo tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita del rapporto parentale; nell'altro lo sconvolgimento delle abitudini dei genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio ridotto allo stato vegetativo) perchè si riferivano a casi che la precedente giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i danni di natura esistenziale proprio perchè ricollegati ad un mutamento profondo e negativo delle proprie abitudini di vita e alla perdita delle relazioni interpersonali.

È peraltro doveroso ricordare che - dopo che le sezioni unite civili avevano riconosciuto la categoria del danno esistenziale e la sua risarcibilità (v. sentenza 24 marzo 2006 n. 6572, in Giur. it., 2006, 1359) - la terza sezione civile di questa Corte ha di recente rimesso in discussione (si veda la sentenza 9 novembre 2006 n. 23918, in Foro it., 2007, 1, 71) la stessa possibilità di configurare il danno esistenziale.

Ciò premesso, e prescindendo da questi ulteriori sviluppi giurisprudenziali dagli esiti non ancora prevedibili, va dunque precisato, in sintesi, che le tre tipologie di danno non patrimoniale che allo stato possono astrattamente essere prese in considerazione sono costituite:

- dal danno morale soggettivo tradizionalmente costituito da una sofferenza psicologica o dal turbamento transitorio provocato dal fatto illecito; da sempre è considerato l'esempio tipico (una volta l'unico) di danno non patrimoniale;

- dal danno biologico che costituisce il frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l'entrata in vigore del D.Lgs. n.38 del 2000 e della L. n.57 del 2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell'integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.

La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale ed è anzi svincolata da tale pregiudizio;

- dal danno esistenziale che è invece ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue abitudini e dei suoi rapporti personali e familiari.

Anche se il problema forma oggetto di vivaci dispute, soprattutto in dottrina, non sembra corretto affermare che il danno morale soggettivo sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perchè, con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e in un mutamento peggiorativo tendenzialmente irreversibile delle relazioni interpersonali.

8) Danno esistenziale e riparazione per l'ingiusta detenzione.

La non sovrapponibilità tra le due categorie di danno (morale soggettivo ed esistenziale) emerge chiaramente proprio in relazione all'ingiusta detenzione: la privazione della libertà personale per un solo giorno può provocare un gravissimo danno morale ma il danno esistenziale, in questi casi, è quasi sempre inesistente.

Al contrario una lunga carcerazione preventiva per un soggetto, poi assolto, da sempre inserito in un'organizzazione criminale e con plurime esperienze carcerarie è idonea a provocare un grave danno esistenziale ma quello morale può mancare del tutto.

Come già affermato da questa sezione nella già citata sentenza 25 novembre 2003 n. 2050, Barillà, le ipotesi di riparazione per l'ingiusta detenzione e per l'errore giudiziario costituiscono casi emblematici di riparazione delle conseguenze provocate dallo sconvolgimento esistenziale che procurano una detenzione, una sottoposizione a processo e una condanna ad una lunga pena da espiare, poi rivelatesi ingiuste, e da cui conseguono la privazione della libertà personale, l'interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative, l'interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il mutamento radicale peggiorativo, e non voluto, delle abitudini di vita e altre che è superfluo precisare.

Non v'è quindi alcun dubbio che entrambe le situazioni - ingiusta detenzione e ingiusta condanna - siano astrattamente idonee a provocare quello sconvolgimento della vita personale e affettiva che va sotto il nome di danno esistenziale.

È però da rilevare che - mentre la riparazione per l'ingiusta detenzione è diretta a riparare le conseguenze di questo evento esauritosi nella privazione della libertà personale - la riparazione dell'errore giudiziario è diretta a ripristinare (per quanto possibile) una situazione antecedente ad una condanna passata in giudicato, a limitare le conseguenze dell'essere stato sottoposto a processo e condannato in via definitiva, a ristorare un'eventuale privazione della libertà personale conseguente non ad un accertamento provvisorio, quale quello connaturato alle misure cautelari, ma a seguito di un accertamento definitivo della colpevolezza.

In questa più ampia dimensione della riparazione dell'errore giudiziario può trovare posto anche una voce riferita al danno esistenziale subito a seguito della privazione, per un periodo consistente, della libertà personale per l'espiazione della pena; ma anche per la sottoposizione al processo e per la condanna quando abbiano avuto caratteristiche tali da provocare lo sconvolgimento permanente delle abitudini di vita di cui si è parlato.

Nel caso dell'ingiusta detenzione il "danno" subito si esaurisce invece nella mera privazione della libertà personale di per sè idonea, da sola, a sconvolgere per un periodo consistente le abitudini di vita della persona.

9) Conclusioni.

Può quindi in conclusione rilevarsi che il danno esistenziale, nel caso di ingiusta detenzione protrattasi per un periodo di tempo consistente, sia astrattamente configurabile ma che non possa autonomamente formare oggetto di riparazione per la sua coincidenza e sovrapponibilità al danno derivante dalla mera privazione della libertà personale.

È vero che la privazione della libertà per un periodo consistente di tempo produce inevitabilmente quelle conseguenze negative che il diritto civile inquadra nel danno esistenziale ma la riparazione della mera detenzione mira appunto a indennizzare questi effetti pregiudizievoli per cui neppure potrebbe configurarsi questo effetto negativo quale conseguenza ulteriore della detenzione trattandosi della medesima fonte di pregiudizio.

Deve quindi ritenersi che l'art. 315 c.p.p., u.c., richiamando l'art. 643 c.p.p., rende applicabile anche il comma 1 di questa norma – che prevede la riparazione delle ulteriori conseguenze personali e familiari cagionate dalla privazione della libertà personale – si riferisca alle conseguenze diverse da quelle derivanti da questa privazione.

Indennizzare tra queste conseguenze il danno esistenziale equivarrebbe dunque a riparare due volte il medesimo danno perchè il danno esistenziale per l'ingiusta detenzione non è diverso dalle conseguenze derivanti dalla mera privazione della libertà personale in base ad un titolo provvisorio.

Analogo discorso può essere fatto anche per la riparazione dell'errore giudiziario: non potrebbe il giudice ritenere distintamente riparabili la carcerazione subita per l'espiazione di pena e il danno esistenziale conseguente alla mera privazione della libertà personale.

La conferma della conclusione che ritenere indennizzabile il danno esistenziale equivarrebbe a duplicare il danno derivante dalla mera privazione della libertà personale è contenuta proprio nelle

considerazioni svolte nella già ricordata sentenza Barillà invocata dal ricorrente a conferma della propria pretesa.

In quel caso la Corte di merito - utilizzando parametri di tipo risarcitorio (che, come si è già visto, questa Corte ha ritenuto essere consentiti nel caso della riparazione dell'errore giudiziario) - aveva liquidato un danno non patrimoniale costituito per una parte dal danno biologico ritenuto provato in base ad una perizia e per altra parte dal danno esistenziale costituito dallo sconvolgimento della vita personale, familiare, affettiva ecc. provocata (con una durata complessiva superiore a sette anni e mezzo) dalla detenzione cautelare e, successivamente, dall'espiazione della pena.

Ma, in quel caso, alcuna riparazione era stata richiesta (o riconosciuta) per il pregiudizio subito dall'espiazione della pena.

Dunque nel caso Barillà il problema della sovrapponibilità delle due forme di pregiudizio (e della necessità di evitare il rischio di duplicare il ristoro delle conseguenze derivanti dalla mera detenzione con la riparazione del danno esistenziale) neppure si era posto perchè l'istante non aveva chiesto un'autonoma riparazione del danno derivante dall'espiazione della pena nè il giudice - che aveva liquidato la riparazione con criteri risarcitori - aveva fatto riferimento ad un danno diverso derivante dalla detenzione per questa causa.

In base alle considerazioni svolte deve quindi escludersi che tra le conseguenze ulteriori indennizzabili dell'ingiusta detenzione possa essere ricompresa una voce a titolo di danno esistenziale perchè il pregiudizio che con questa tipologia di danno non patrimoniale viene evidenziato non è diverso da quello conseguente alla mera privazione della libertà personale.

Ne consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Danno biologico

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