Suprema Corte

12 gennaio 2009    Suprema Corte

CASSAZIONE SENT. N. 402-2009

Corte Suprema di Cassazione - Civile

Sezione I Civile

Sentenza n. 402/2009

deposito del 12 gennaio 2009

 

Svolgimento del processo

P. C. adiva la Corte d’appello di Napoli, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio proposto con ricorso del luglio 1996, avente ad oggetto l’annullamento del silenzio-rifiuto formatosi sull’atto di diffida notificato il 2.5.96 e l’accertamento del diritto al ricalcolo del riequilibrio dell’anzianità pregressa ed alla rideterminazione del trattamento economico.

L’istante deduceva di avere depositato istanza di prelievo il 22.2.03 e che il giudizio era stato definito con sentenza del 22.10.03.

La Corte d’appello di Napoli, con decreto dell’8 novembre 2005, fissato in tre anni il termine di durata ragionevole del giudizio presupposto, osservava che lo stesso era stato definito in 7 anni e 3 mesi, quindi riteneva violato detto termine per anni 4 e mesi 3.

La Corte Territoriale, tenuto conto del non rilevante valore economico e del tempo di presentazione dell’istanza di prelievo, valorizzato quale indice della scarsa importanza per la parte del giudizio, fissava l’equa riparazione nella misura di Euro 400,00 per ciascun anno di ritardo e liquidava complessivi Euro 1.700,00, ritenendo inapplicabile il principio della soccombenza, in virtù del principio enunciato dalle Sezione Unite penali (sentenza n. 35760/03), in materia di ingiusta detenzione, non avendo la convenuta provocato il giudizio.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso il C., affidato a nove motivi, nonché l’Avv. A. L. M., in proprio, quale antistatario; ha resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Motivi della decisione

1. - Il ricorrente, con i primi due motivi, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 § 1 CEDU e della legge n. 89 del 2001, nonché difetto di motivazione (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c., artt. 112 e 132 c.p.c.), richiamando una serie di sentenze della Corte di Strasburgo, che hanno accertato inadempimenti dell’Italia in riferimento alla violazione del termine di ragionevole durata del giudizio e all’inadeguatezza della legge n. 89 del 2001.

Il C. trascrive ampi brani di una sentenza della Corte europea concernente sia la quantificazione del danno, sia la necessità che la decisione che liquida l’equa riparazione sia adempiuta rapidamente e deduce che il decreto avrebbe disatteso i parametri della Corte di Strasburgo in ordine alla quantificazione del danno ed alla necessità di liquidarlo avendo riguardo all’intera durata del giudizio.

Inoltre, lamenta che il decreto avrebbe disatteso i parametri della Corte EDU in materia di risarcimento del danno - oscillanti tra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 annui - e sostiene che, stante la vincolatività delle sentenze della Corte europea, una volta accertata la violazione del termine di ragionevole durata, il risarcimento spetta per ogni anno di durata del processo e non per ogni anno di ritardo.

Con il terzo, quarto, quinto e sesto motivo, è denunciata violazione e falsa applicazione della legge n. 89 del 2001, della legge n. 1034 del 1971, della legge Regione Campania n. 11 del 1984, nonché violazione dell’art. 112 c.p.c. e difetto di motivazione (art. 360 n. 3 e 5, art. 132 c.p.c.), nelle parti in cui: il decreto non si è attenuto ai parametri di quantificazione stabiliti dalla Corte europea (oscillanti tra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00, al riguardo sono richiamate alcune sentenze di questa corte e dei giudici di Strasburgo); non ha considerato che occorre tenere conto della presentazione dell’istanza di prelievo, che determina una più grave responsabilità dello Stato; non ha liquidato un bonus di Euro 2.000,00, dovuto per le cause in materia di lavoro; ha considerato ragionevole il termine di tre anni, nonostante che si tratti di una causa di lavoro.

Il ricorrente, con il settimo, l’ottavo e nono motivo, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6 CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, degli artt. 91 e 92 c.p.c., omessa pronuncia (art. 112 c.p.c.) e difetto di motivazione nel punto in cui il decreto ha dichiarato compensate le spese del giudizio (art. 360 n. 3 e 5, art. 132 c.p.c.), richiamando la sentenza n. 35760 del 2003, che riguarda una fattispecie diversa, concernente il processo penale.

2. - Il ricorso proposto dall’avv. A. L. M., in proprio, quale antistatario, è inammissibile, perché proposto da soggetto non legittimato.

Secondo l’orientamento di questa Corte, al quale va data continuità, la qualità di procuratore della parte nei cui confronti è stata pronunziata la sentenza impugnata non abilita il suo titolare alla proposizione dell’impugnazione in proprio, neanche quando si controverta unicamente sul punto delle spese processuali, salvo che lo stesso procuratore non ne sia dichiarato antistatario ed i motivi delle proposte censure attengano alla concessione della distrazione (Cass., n. 20321 del 2005; n. 4973 del 1993; n. 7597 del 1990).

Pertanto, resta preclusa al difensore distrattario l’impugnazione in proprio, con riferimento alla pronuncia sulle spese, quando essa attenga alla loro adeguatezza, ovvero all’an, poiché in questa ipotesi l’unica legittimata a sollevare doglianze in merito è la parte rappresentata, quale soggetto comunque obbligato, nel rapporto con il professionista, a soddisfarlo delle sue pretese (Cass. n. 16717 del 2008; n. 11566 del 2008). Il difensore che ha chiesto la distrazione diviene, infatti, parte del giudizio solo nel caso in cui sorga controversia sul provvedimento che ha disposto la distrazione o se il giudice a quo abbia omesso di provvedere sull’istanza (Cass., n. 20321 del 2005; n. 13290 del 2003; n. 12204 del 2003).

In relazione a detto ricorso non deve essere resa pronuncia sulle spese, in quanto la Presidenza del Consiglio dei ministri non ha svolto attività difensiva in riferimento al medesimo.

3. - I primi sei motivi, da esaminare congiuntamente, perché giuridicamente e logicamente connessi, sono in parte fondati e vanno accolti per quanto di ragione, nei termini e nei limiti di seguito precisati.

I mezzi sono formulati reiterando più volte gli stessi argomenti e, in buona sostanza, pongono questioni concernenti: a) l’individuazione del termine di ragionevole durata del processo; b) l’accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale.

Sulla prima questione va osservato che è manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato. L’art. 2, comma 2, legge n. 89 del 2001, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare. La violazione del principio della ragionevole durata del processo va dunque accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dall’art. 2 della legge n. 89 del 2001 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005; n. 21391 del 2005; n. 1094 del 2005; n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004).

In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza I sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98) e che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.

Ed è questo parametro che va osservato, dal quale è tuttavia possibile discostarsi, purché in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. Un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate).

Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo: mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma, lettera a), dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata legge n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).

Relativamente alla quantificazione del danno, vanno qui ribaditi i seguenti principi, ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte:

- il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004; successivamente, per tutte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007);

- i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate dalla Corte di Strasburgo che ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno il parametro per la quantificazione dell’indennizzo, al quale possono essere apportate le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della “posta in gioco”, il “numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento” ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass., n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purché motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006);

- nella quantificazione dell’equa riparazione in misura inferiore allo standard minimo annuo fissato dalla Corte europea in Euro 1.000,00 non può aversi riguardo generico alla modestia della pretesa azionata, senza prendere in considerazione, comparativamente, le condizioni economiche dell’interessata e raffrontare la natura e l’entità della pretesa patrimoniale (cd. posta in gioco) e la condizione socio-economica del richiedente, al fine di accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di questo (Cass. n. 14955 del 2008; n. 23048 del 2007).

Infine, va escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere - come ha invece sostenuto l’istante - una ulteriore somma a titolo di bonus, arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia.

Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici europei hanno affermato che il bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali. Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008). Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda e può, quindi, attribuire una somma maggiore - anche il succitato bonus - qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicché se il giudice non si pronuncia sul cd. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008).

In applicazione di siffatti principi, sono manifestamente infondate le censure concernenti: la durata ragionevole del giudizio, stabilita in modo conforme al parametro della Corte EDU, in difetto della deduzione di elementi concreti e specifici, non desunti dalla disciplina del processo, che avrebbero permesso di discostarsene; la asserita necessità di avere riguardo all’intera durata del giudizio; la liquidazione automatica del succitato bonus.

Le censure sono invece manifestamente fondate nella parte concernente la quantificazione dell’equa riparazione, dato che il giudice del merito ha liquidato Euro 400,00 per anno. In tal modo il decreto ha operato una quantificazione in misura inferiore allo standard minimo annuo fissato dalla Corte europea in Euro 1.000,00 (Cass. n. 16707 del 2008; n. 14955 del 2008), motivando in modo chiaramente insufficiente, facendo riferimento generico alla modestia della pretesa azionata, senza prendere in considerazione, comparativamente, le condizioni economiche dell’interessata, dato che questa Corte ha già affermato l’imprescindibilità di detto giudizio comparativo tra la natura e l’entità della pretesa patrimoniale (cd. posta in gioco) e la condizione socio-economica del richiedente, al fine di accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di questo (Cass. n. 14955 del 2008; n. 23048 del 2007). Inoltre, ha valorizzato il mancato ricorso agli strumenti di sollecitazione (cd. istanza di prelievo) in modo incongruo, perché non l’ha considerata nel quadro degli elementi sopra indicati.

In relazione alle censure accolte, cassato il decreto - con conseguente assorbimento dei restanti motivi, dovendo comunque essere effettuata la riliquidazione delle spese del giudizio - la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Pertanto, in applicazione degli standard della Corte EDU, ritenuto il periodo di irragionevole durata del giudizio in anni 4 e mesi tre, come stabilito dal decreto, ed individuato, in applicazione dello standard minimo CEDU - che nessun argomento del ricorso impone e consente di derogare in melius, anche in riferimento al citato bonus - nella somma di Euro 1.000,00 ad anno il parametro di indennizzo del danno non patrimoniale, va riconosciuta all’istante la somma di Euro 4.250,00 (in relazione al periodo di anni 4 e mesi tre), oltre interessi legali dalla domanda al saldo.

Le spese, liquidate come in dispositivo, vanno poste a carico della soccombente quanto al giudizio di merito e per la metà quanto alla presente fase, dichiarando compensata la residua parte, sussistendo giusti motivi, in considerazione del parziale accoglimento del ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto dall’avv. A. L. M., in proprio; accoglie il ricorso per quanto di ragione, nei termini precisati in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei ministri a corrispondere al ricorrente la somma di Euro 4.250,00, oltre interessi legali dalla domanda al saldo ed oltre alle spese processuali - per la metà, quanto alla presente fase, compensandosi la restante parte - distratte in favore dell’avv. A. L. M. e liquidate, quanto al giudizio di merito in Euro 935,00 (di cui Euro 385,00 per diritti ed Euro 450,00 per onorari) e, quanto al giudizio di legittimità in Euro 425,00, di cui Euro 35,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.


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