Giurisprudenza


Le novità a cura di Ipsoa News CEDU Le recensioni delle decisioni (udienza 16 novembre 2010) Alessio Scarcella da Il Quotidiano Giuridico - Quotidiano di informazione e approfondimento giuridico N 24/11/anno 2010 Udienza particolarmente interessante quella tenutasi il 16 novembre u.s. davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. In particolare, la Corte di Strasburgo ha affrontato alcune questioni afferenti: a) La violazione dell’art. 6, § 1 CEDU b) La violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 Com’è noto, l’art. 6 § 1 della Convenzione, sotto la rubrica “Diritto a un equo processo”, recita «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia». Quanto, poi, all’art. 1, Protocollo 1 della Convenzione, sotto la rubrica “Protezione della proprietà”, prevede che «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende». Il caso Garcia Hernandez c. Spagna (n. 15256/07). La ricorrente, Isabel Garcia Hernandez, è una cittadina spagnola residente a Casillas (Spagna). Medico, ha subito un procedimento penale, dopo il quale è stata condannata per lesioni personali colpose ad un paziente in quanto non gli aveva somministrato la dose di antibiotici in base ai sintomi accertati. Basandosi, in particolare, sull'art. 6 § 1 (diritto ad un equo processo) della Convenzione europea sui diritti umani, ha sostenuto che l'assenza di un dibattimento pubblico durante il processo davanti alla “Audiencia Provincial de Murcia” aveva violato il suo diritto a un processo equo. In questo caso, la Corte ha osservato anzitutto che è pacifico che il ricorrente, che è stato assolto al processo, è stato condannato dalla Audiencia Provincial di Murcia, senza essere ascoltato di persona. Di conseguenza, per stabilire se vi è stata una violazione dell'art. 6 della Convenzione, è stato necessario esaminare il ruolo della Audiencia e la natura delle questioni affrontate. A questo proposito, la Corte ha dichiarato che la questione giuridica di questo caso, specifico per la procedura penale spagnola, è identico a quello considerato nel sentenzeBazo Gonzalez v. Spagna (N° 30643/04, 16 dicembre 2008), in cui la Corte non ha riscontrato alcuna violazione di tale disposizione, e Igual al c . Spagna, (n° 37496/04, 10 marzo 2009) in cui, alla luce delle circostanze, ha ravvisato una violazione del diritto del ricorrente ad un giusto processo a causa della mancanza di pubblica udienza dinanzi al giudice Appello. Nei casi predetti, la Corte ha stabilito che l'audizione fosse necessaria quando il giudice d'appello "fa una nuova valutazione dei fatti provati in giudizio e li rivaluta", svolgendo cioè argomenti anche di merito e non solo afferenti a violazioni di legge. In tali casi, la Corte ha ritenuta la necessità dell'udienza prima di raggiungere una decisione sulla colpevolezza del ricorrente (v. sentenza Igual supra, § 36). In sintesi, al fine di decidere la CEDU ha precisato che per decidere, alla luce delle circostanze del caso, occorre valutare se il giudice chiamato a pronunciarsi sul processo di appello deve o meno svolgere un nuovo apprezzamento dei fatti (v. anche Spinu c . Romania, sentenza del 29 aprile 2008, § 55). In questo caso, mentre il giudice penale di primo grado di Murcia ha assolto la ricorrente sulla base di diverse prove (perizie e testimonianze), all’esito di udienze pubbliche, escludendo qualsiasi ipotesi di negligenza. Diversamente, la Audiencia Provincial de Murcia, in sede di appello, ha trattato un nuovo processo di merito: l’alternativa era decidere se confermare l'assoluzione del richiedente o condannarlo, dopo aver rivalutato la questione della colpevolezza o dell'innocenza. Il giudice d’appello, invece, senza sentire il ricorrente personalmente né i testimoni che avevano reso dichiarazioni davanti al giudice penale, ha ribaltato il verdetto di primo grado, asserendo che il la condotta della ricorrente avrebbe richiesto maggiore diligenza di quella che aveva mostrato nei confronti del paziente. In particolare, ha ritenuto che la ricorrente non avesse svolto un esame abbastanza approfondito del paziente. Secondo il parere della Audiencia, la cattiva prassi sarebbe stata la causa delle conseguenze sulla salute del paziente, elementi ritenuti sufficienti per poterla giudicare colpevole delle accuse. La CEDU ha precisato che, a differenza del caso González Bazo, in questo caso il tribunale provinciale non si è limitato a un nuovo apprezzamento di elementi di natura puramente giuridica, ma s ' è pronunciata su una questione di fatto, e cioè sulla cattiva prassi della ricorrente e l'origine dei problemi del paziente, modificando così i fatti oggetto di precedente valutazione da parte del primo giudice di merito. Secondo la CEDU, un siffatto esame comporta, per le sue caratteristiche, la necessità di prendere posizione su questioni fondamentali per determinare la colpa del ricorrente (v. sentenza Igual Coll supra, § 35). I temi affrontati sono essenzialmente di natura fattuale, sicchè la CEDU ha ritenuto che la condanna del ricorrente in appello da parte della Alta Corte provinciale dopo la rivalutazione nel merito di fattori (come la condotta della ricorrente), non avendo la ricorrente avuto l'opportunità di essere sentita personalmente e in contraddittorio nel corso di un'udienza pubblica, non soddisfa i requisiti di un processo equo, come garantito dall'art. 6 § 1 della Convenzione: di conseguenza, vi è stata violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione. Il caso Taxquet c. Belgio (n. 926/05). Il ricorrente, Richard Taxquet, è un cittadino belga nato nel 1957 e attualmente detenuto nel carcere di Lantin (Belgio) per l'omicidio nel luglio 1991 a Liegi di un ministro di Stato nonché per tentato omicidio della moglie di quest'ultimo. L'atto di accusa del 12 agosto 2003, conteneva un resoconto dettagliato delle indagini giudiziarie e di polizia che erano state condotte; in particolare risultava, che una persona, qualificata da parte del richiedente come “anonimo” aveva riferito agli investigatori nel giugno del 1996 che l'assassinio del ministro di Stato era stato organizzato da sei persone, tra cui il denunciante e un'altra figura di primo piano politico. Questo teste non era mai stato interrogato dal giudice. Il processo di Taxquet e dei suoi sette coimputati è durato dal 17 ottobre 2003 al 7 Gennaio 2004. Molti testimoni e consulenti erano stati ascoltati. Nel raggiungere il suo verdetto, la giuria ha dovuto rispondere a 32 quesiti posti dal presidente della Corte d'assise di Liegi: le domande erano identiche per tutti gli imputati. Quattro di essi riguardavano il ricorrente, ed avevano affrontato la questione se egli potesse o meno essere coinvolto nell’omicidio del Ministro di Stato e nel tentato omicidio della moglie di quest’ultimo; infine, se potesse o meno essere configurabile la premeditazione. La giuria aveva risposto affermativamente alle quattro domande. Il 7 gennaio 2004, il signor Taxquet stato condannato a 20 anni di reclusione dalla Corte d'Assise. Il ricorso presentato contro la condanna era stato respinto dalla Corte di Cassazione, il 16 giugno 2004. Il ricorrente aveva invocato l'art. 6 § 1 della Convenzione. In particolare, ha sostenuto che il suo diritto ad un equo processo era stato violato a causa del fatto che la sentenza della corte d'assise si basava su un verdetto di colpevolezza iniquo; inoltre, ha invocato l’art. 6 § § 1 e 3 d), sub specie del diritto di interrogare o far interrogare i testimoni, lamentando di essere stato impossibilitato durante il procedimento di interrogare o far interrogare il teste anonimo. La domanda, depositata presso la Corte europea dei diritti dell'uomo il 14 dicembre, 2004, si era conclusa con la sentenza 13 gennaio 2009, con cui la Corte aveva ritenuto, all'unanimità, la violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d). Il 5 giugno 2009, la causa era stata deferita alla Grande Camera, su richiesta del governo belga; l’udienza, tenutasi in pubblico, presso il Palazzo dei diritti dell'uomo di Strasburgo, il 21 ottobre 2009. Quanto alla violazione dell'art. 6 § 1, la Corte ha osservato che alcuni membri del Consiglio d'Europa hanno istituito un sistema di processo con giuria, caratterizzata dal fatto che il giudice di carriera non può partecipare ai lavori della giuria per il verdetto. Questo sistema deriva dal legittimo desiderio di coinvolgere i cittadini nel corso della giustizia, in particolare per quanto riguarda i più gravi. Secondo gli Stati, e secondo la storia, le tradizioni e la cultura giuridica di ciascuno, la giuria si presenta in varie forme, a conferma della varietà di sistemi giuridici in Europa. Gli Stati contraenti godono di una notevole libertà nella scelta delle misure atte a garantire che i loro sistemi giuridici soddisfino i requisiti di cui all'art. 6. Nel caso Taxquet, il compito della Corte era quindi quello di verificare se la procedura avesse portato o meno a risultati compatibili con la Convenzione. La Corte ha rilevato che, in casi precedenti, la mancanza di motivazione ove si tratti di giudizio espresso da una giuria, non costituisce di per sé una violazione del diritto degli imputati ad un processo equo. Resta il fatto che per soddisfare le esigenze del giusto processo, devono essere fornite adeguate garanzie che possano consentire all'imputato ed al pubblico ministero di comprendere il verdetto. Queste garanzie procedurali possono includere, ad esempio, l’obbligo per la giuria di ottenere dal presidente della Corte d'Assise le istruzioni o i chiarimenti delle questioni giuridiche ovvero, la presentazione di prove alla giuria da parte del giudice che siano precise, inequivocabili, in modo tale da formare un quadro probatorio capace di servire come base per il verdetto o per compensare adeguatamente la mancanza di risposte alla giuria. Tuttavia, nel caso del Taxquet né l'atto di accusa, né le domande della giuria contenevano sufficienti informazioni circa il suo coinvolgimento nella commissione dei reati per i quali era stato accusato. L'atto di accusa, se pur indicava ciascuno dei reati per i quali il Taxquet era stato accusato, non conteneva gli elementi che, per l'accusa, erano conducenti ad una sua responsabilità. Per quanto riguarda le domande poste alla giuria, erano chiare anche per tutti gli imputati e si riferivano a particolari situazioni pratiche che avrebbero consentito al ricorrente di comprendere il verdetto di condanna. Anche in combinazione con l'atto di accusa, le domande della giuria non avevano consentito al ricorrente di conoscere quali prove e fatti, tra quelli in discussione durante il processo, avevano portato la giuria a rispondere sì a tutte e quattro le domande. Pertanto, il denunciante non era in grado, in particolare, di distinguere con certezza il coinvolgimento di ogni coimputato nella commissione del reato, per capire quale ruolo specifico, secondo la giuria, aveva giocato ciascun coimputato; inoltre, non avevano consentito di comprendere perché il suo ruolo era stato ritenuto più grave rispetto a quello degli altri compartecipi e perché la circostanza aggravante della premeditazione era stata ritenuta contro di lui in relazione al tentato omicidio della moglie del ministro di Stato. Infine, il sistema belga non prevede la possibilità di ricorrere contro una sentenza della Corte d'Assise. Per quanto riguarda l’impugnazione davanti alla Corte di Cassazione di sentenze d’appello rese dalla Corte d’Assise, ciò è consentito solo per questioni di diritto, sicché il giudice d’appello non era tenuto a motivare adeguatamente nel merito. In conclusione, il Taxquet non ha ricevuto garanzie sufficienti per consentirgli di comprendere il verdetto di colpevolezza pronunciato contro di lui e il procedimento è stato quindi svolto “abusivamente”, in violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione. Quanto, poi, all’art. 6 § 3 d) della Convenzione, la denuncia presentata dal Taxquet a questo proposito era strettamente legata ai fatti che hanno indotto la Corte a ritenere la violazione dell'art. 6 § 1. In assenza di motivazione del verdetto, è impossibile sapere se la condanna del ricorrente era basata su informazioni fornite dal testimone anonimo. In queste circostanze, la Corte non ha ritenuto necessario disciplinare separatamente la presunta violazione dell'articolo 6 §§ 1 e 3 d) della Convenzione. Conclusivamente, la CEDU, in base all’art. 41 della Convenzione, ha condannato il Belgio a pagare 4.000 € per danni materiali ed € 8173,22 per costi e spese. Si osserva, tuttavia, che il codice di procedura penale belga è stato modificato nel 2007 per consentire ad un ricorrente di chiedere la riapertura del suo processo a seguito di una sentenza della CEDU che accerta una violazione della Convenzione nella sua causa. Il caso Perdigão c. Portogallo (n. 24768/06). I ricorrenti, José João e Maria José Perdigão Perdigão Queiroga, sono cittadini portoghesi residenti a a Lisbona. Nel 1995, un campo di circa 130.000 mq. era stato loro espropriato per la costruzione di un'autostrada. I coniugi Perdigão, in disaccordo con le autorità sull'importo del risarcimento che avrebbe dovuto esser loro pagato, avevano devoluto ad un collegio arbitrale la decisione che, all’esito, aveva assegnato una somma di € 177. 987,17 per l’esproprio del terreno di loro proprietà I coniugi Perdigão avevano impugnato tale decisione nel marzo 1997, chiedendo un risarcimento di oltre 20 milioni di euro per il terreno, considerati i profitti che avrebbero potuto essere conseguiti dall’esercizio dell’attività di cava in quella zona, pari a oltre 13 milioni di euro. Nel giugno 2000 la Corte portoghese aveva respinto le loro richieste, ritenendo che i benefici derivanti dal funzionamento della cava non dovevano essere presi in considerazione. Si era stabilito nel giugno 2000, l'importo della compensazione pari a poco più di € 197.000 che, nell'aprile 2005, con gli interessi maturati erano giunti a poco più di 300.000 euro. Nel settembre 2007 la Corte Costituzionale portoghese, su richiesta dei ricorrenti, aveva dichiarato incostituzionale la norma applicabile al rimborso delle spese legali, come interpretata dai giudici di merito, ed aveva altresì ritenuto sussistere il pregiudizio del diritto di accesso. La Corte Costituzionale non aveva però stabilito l'importo delle spese legali che dovevano essere pagate dai coniugi Perdigão per difendersi, costringendo questi ultimi a rivolgersi alla Corte d’Appello per la determinazione; nel gennaio 2008, la Corte d'Appello, decidendo in camera di consiglio, aveva statuito che i costi di giustizia a loro carico non dovevano superare più di 15.000 euro l'importo del risarcimento concesso. Seguiva, quindi, ricorso presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, depositato in data 19 giugno 2006; nella sua decisione del 4 agosto 2009, la Corte, con cinque voti contro due, aveva ritenuto la violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione, perché le spese legali a carico di richiedenti all’esito della procedura di esproprio dei terreni di loro proprietà erano superiori all’indennità di esproprio assegnata. Il 10 dicembre 2009, la causa era stata rinviata alla Grande Camera, su richiesta del governo portoghese. In merito alla violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione, la Corte osserva anzitutto che la domanda formulata investiva le norme in materia di spese legali; da qui la necessità di considerare le spese legali come "contributi" ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1. Esaminando la questione se l'obbligo dei coniugi Perdigão di pagare le spese legali di cui trattasi dovesse o meno essere considerata come una violazione del loro diritto al pacifico godimento dei propri beni, ai sensi del § 1 dell'art. 1 del Protocollo, la Corte ha affermato che per valutare la richiesta, era necessario considerare l'art. 1 del Protocollo n ° 1 nel suo complesso. La Corte ricorda che, per essere coerente con l'art. 1 del Protocollo n. 1, una violazione di una persona nei confronti della sua proprietà deve innanzitutto rispettare il principio di legalità e non può essere arbitraria. Essa deve inoltre trovare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e le esigenze di protezione dei diritti fondamentali della persona. Il requisito implica che l’equilibrio deve soddisfare un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati dalle autorità e l'obiettivo. Il necessario equilibrio è rotto, se la persona in questione ha dovuto sostenere un costo eccessivo, contro l'interesse generale della comunità. Tuttavia, la Corte ha riconosciuto allo Stato un ampio margine di discrezionalità nella scelta delle modalità di attuazione delle misure in questione e di giudicare se le conseguenze sono giustificate ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1. La Corte ha poi osservato che i ricorrenti hanno avuto il loro compenso totalmente assorbito dalle spese legali sostenute per i procedimenti giudiziari; le procedure sono state però la conseguenza della privazione della proprietà che i ricorrenti avevano subito. Dopo essere stato riconosciuto un indennizzo in cambio dei loro terreni espropriati, ai coniugi Perdigão non è stato sufficiente quanto loro pagato per sostenere le spese di giustizia. A questo proposito, il sistema portoghese è stato consenderato non rispettoso dell’art. 1, Protocollo n. 1, in quanto è chiaro che la procedura di esproprio, al fine di non compromettere il diritto di godimento pacifico dei ricorrenti 'dei loro beni "(come definito all'art. 1 del protocollo No. 1), non è stata esemplare: non solo i ricorrenti sono stati espropriati della loro terra, ma hanno pagato anche 15.000 euro allo Stato. La Corte ha anche osservato che può sembrare paradossale che lo Stato riprenda con una mano – attraverso le spese processuali - più di quanto lui ha dato con l'altra. In una tale situazione, la differenza tra un obbligo giuridico per lo Stato a pagare un’indennità di espropriazione e l'obbligo per la parte convenuta del pagamento delle spese processuali non osta ad una revisione globale ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1: alla domanda se l'importo richiesto ai coniugi Perdigão per spese processuali fosse proporzionato allo scopo perseguito dalle autorità, la risposta è stata negativa. La Corte ha aggiunto, inoltre, che il sistema portoghese, prevedendo alti importi di spese processuali in caso di domande indennitarie di elevato ammontare, comportava il rischio di essere condannati a pagare una considerevole somma a titolo di spese processuali. Tuttavia, né il comportamento delle pari né la procedura poteva considerarsi motivo idoneo a giustificare una richiesta di spese processuali così ingente, soprattutto in considerazione dell'importo che era stato loro assegnato come indennizzo per l'esproprio della loro terra. Di conseguenza, i coniugi Perdigão hanno dovuto sostenere un onere eccessivo che aveva sconvolto il giusto equilibrio tra l'interesse generale della comunità ed i diritti fondamentali della persona: è stata accertata, dunque, la violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1. Ai sensi dell'art. 41 (equa soddisfazione), la Corte, con quattordici voti contro tre, ha condannato il Portogallo a versare ai ricorrenti la somma di 190.000 EUR. Sentenze: a) Garcia Hernandez c. Spagna (n. 15256/07); b) Taxquet c. Belgio (n. 926/05); c) Perdigão c. Portogallo (n. 24768/06).

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