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Condannato all'ergastolo, ma era innocente
Filodiritto: Il caso " Pisano" - Sentenze a confronto, commento dell'avv. Barbara Auleta
Condannato all'ergastolo, ma era innocente

PERUGIA / Dopo 7 anni di detenzione la corte d'Appello lo scagiona dall'accusa di aver ucciso la moglie Perugia Massimo Pisano non è colpevole dell'omicidio della moglie, per il quale venne condannato all'ergastolo insieme alla sua ex amante, Silvana Agresta. L'altra sera i giudici della Corte d'appello di Perugia hanno assolto Pisano a conclusione del processo di revisione chiesto dall'uomo, assistito dagli avvocati Stefano Giorgio e Barbara Auleta. Pisano e Agresta (definiti a suo tempo dalla stampa gli "amanti diabolici" di Riano) vennero condannati all'ergastolo con l'accusa di aver ucciso, accoltellandola, il 4 agosto del '93 Cinzia Bruno, moglie di Pisano. Il corpo della Bruno, impiegata del ministero dell'Interno, venne trovato nella notte tra il 6 e il 7 agosto chiuso in due sacchi di iuta. Nel corso dei processi i due ex amanti si sono sempre reciprocamente accusati del delitto. La richiesta di revisione per Pisano si fondava sul fatto che all'ora del delitto, intorno alle 12 del 4 agosto '93, Pisano si trovava al lavoro, da cui si sarebbe assentato solo dalle 10.30 alle 11.30. <>. Pisano, che è stato scarcerato in aula, alla lettura della sentenza ha pianto ed ha abbracciato il fratello, che lo ha riaccompagnato a casa dopo sette anni e sei mesi trascorsi nel carcere di Rebibbia. La prossima mossa dei due avvocati di Massimo Pisano, ora uomo libero, sarà quella di un risarcimento per riparazione ad un errore giudiziario. Gli avvocati hanno due anni di tempo per presentare la richiesta "ma la faremo prima possibile", precisano. <

Inoltre, ha dovuto pagare milioni alle parti civili, soldi che la sentenza di ieri sera ordina di restituire>>.

Filodiritto: Il caso " Pisano" - Sentenze a confronto, commento dell'avv. Barbara Auleta

Il caso " Pisano" - Sentenze a confronto
Sezioni Unite Penali sent. n. 642/2002 (26 settembre 2001 - 9 gennaio 2002)
Pres. Vessia - rel. de Roberto - ric. P.G. e p.c. in proc. Pisano

Avv. Barbara Auleta, Foro di Roma

INDICE

1 - La vicenda
1-a - La sentenza di condanna di primo grado
1-b - La sentenza di revisione della corte dappello di perugia
2 - L'alibi di massimo pisano
2-a - La sentenza di condanna di primo grado
2-b - La sentenza delle sezioni unite penali della cassazione
3 - Il concetto di "prova nuova" al vaglio delle sezioni unite
4 - La responsabilita' di terze persone al vaglio delle ss.uu.
5 - Differenza tra "prova", "elemento di prova" e "mezzo di prova" secondo le sezioni unite
6 - Le "prove nuove" ai fini del tema di prova dell'alibi
7 - L'esclusione della premeditazione nel giudizio di revisione al vaglio delle sezioni unite

1 - LA VICENDA

La mattina del 4 agosto 1993 Massimo Pisano esce di casa intorno alle 6.45, giunge all'Istituto Superiore di Polizia alle 7.15; alle ore 10.30 circa vi si allontana, perchè incaricato di duplicare in un negozio di ferramenta le chiavi della palestra dell'Istituto, ove fa rientro intorno alle 11.30, uscendone poco prima delle 14.

Cinzia Bruno, moglie di Massimo Pisano, dopo aver telefonato alle 8.30 circa in ufficio per ottenere un giorno di permesso, chiedendo alle sue colleghe di non comunicarlo al marito, si reca a Riano (RM) a casa di Silvana Agresta, che sospettava essere l'amante del marito, con la quale ingaggia una zuffa violenta.

Una coppia di vicini di casa dell'Agresta sente una vocefemminile lamentarsi, ripetutamente, intorno alle 12.

Il cadavere di Cinzia, sgozzato ed oltraggiato verrà ritrovato sul greto del Tevere, all'altezza del ponte del Grillo, a
Capena (RM) il pomeriggio del 6 agosto.

La stessa notte i Carabinieri convocano Massimo Pisano e, sentite le colleghe di Cinzia Bruno che indicano agli inquirenti l'utenza telefonica domestica in uso all'Agresta, ne individuano il domicilio e la convocano. La coppia, dopo una iniziale negativa, ammette la relazione: i due vengono fermati per uxoricidio sulla base di un comune movente.
Nel processo avanti la Prima Corte d'Assise di Roma conclusosi il 29 novembre 1994, Silvana Agresta e Massimo Pisano, indicati dalla stampa come "gli amanti diabolici di Riano", vengono entrambi condannati all'ergastolo, pena confermata in Appello ed in Cassazione.

1-a - La sentenza di condanna di primo grado.

La sentenza di primo grado così ricostruì la vicenda: "Se, dunque, Cinzia era uscita da casa intorno alle 8.30, la sua morte doveva essere avvenuta intorno alle 11.30/12 (e, comunque, in un arco di tempo approssimativamente vicino a quell'orario). E proprio a un dipresso a quell'ora (e, prima di mezzogiorno) Marronaro Elisa, vicina di casa della famiglia Agresta, udiva delle grida di donna che, ad intervalli, duravano circa 5 minuti. Lo faceva presente al marito, (Santella Giacinto), che pure lui, dopo alcuni minuti, percepì dei lamenti"... (sent. condanna di I grado, pag. 62).

"Essendo egli uscito dall'Istituto intorno alle 10/10.10 (orario da lui stesso indicato) ed essendo egli rientrato alle ore 11.30, egli è stato fuori dal luogo di lavoro circa 1 ora e mezzo...Si è riscontrato che, percorrendo quell'itinerario lungo 23 Km. a bordo di una "Opel Vectra" il giorno 3 agosto 1994, il tempo di percorrenza sia all'andata che al ritorno era di circa 20 minuti...Dunque, in un arco temporale di circa 1 ora e mezza di assenza dall'Ufficio, Pisano avrebbe trascorso 40 minuti in viaggio, residuandogliene altri 50. Ove anche si voglia ritenere provato il suo passaggio dal negozio di ferramenta (considerando che l'operazione per il rilascio del duplicato delle chiavi avrebbe comportato solo alcuni minuti), egli ha avuto a disposizione per recarsi a casa di Agresta Silvana circa 40 minuti. Tempo più che sufficiente per compiere il delitto ed uscire immediatamente di scena" (sent. condanna di I grado, pag. 86-87).

1-b - La sentenza di revisione della Corte d'Appello di Perugia.

La sentenza di revisione della Corte d'Appello di Perugia del 19.2.2001 esclude la partecipazione di Massimo Pisano, che verrà assolto per non aver commesso il fatto, ex art. 530 I comma e ricostruisce analiticamente la fase omicidiaria da pag. 99 a pag. 112.

1) Genesi e ricostruzione delle fasi del delitto

La Corte ha rilevato la presenza in atti di una serie di deposizioni testimoniali, che nel giudizio di cognizione non furono affatto valutate le quali, valutate unitamente alle nuove prove acquisite nel presente giudizio, consentono di ricostruire -in maniera precisa- la genesi e le fasi di esecuzione del delitto, che erroneamente i giudici di cognizione ritennero di individuare in un preteso "invito-trappola" rivolto alla vittima, circostanza che risulta pacificamente esclusa dagli atti processuali.

Le testimonianze non valutate, ai soli fini della ricostruzione del delitto, nel corso del precedente giudizio, sono le seguenti:

1) Mellucci Maria, madre della vittima (deposizione resa all'udienza del 13.7.1994);

2) Adriana Mourik, collega ed amica intima di Cinzia Bruno (deposizione resa all'udienza del 14.7.1994);

3) Soricelli Stella, collega ed amica intima di Cinzia Bruno (deposizione resa all'udienza del 13.7.1994);

4) Valletta Angela, collega ed amica intima di Cinzia Bruno (deposizione resa all'udienza del 14.7.1994);

5) Giuseppe Labozzetta, amico di famiglia di Cinzia Bruno e di Massimo Pisano (deposizione resa all'udienza del 3.10.1994);

6) Triburzi Vittoria (deposizione resa all'udienza del 26.10.1994);

7) Testa Tatiana (deposizione resa all'udienza del 14.10.1994);

8) Elisa Marronaro, residente nella strada parallela a via Matteotti, via XXV Aprile, la cui casa è quasi attaccata a quella dell'Agresta, che intorno a mezzogiorno del 4.8.1993 udì "invocazioni o meglio delle grida di una voce femminile", tanto più che chiese il giorno successivo alla mamma del Gigante, durante la gita a S.Rita, "se era la nipote ad invocare aiuto" (v.si verb. 11.8.93 fol. 403 fasc. indagini; deposizione resa all'udienza del 13.7.1994, fol. 59);

9) Giacinto Santella, residente nella strada parallela a via Matteotti, via XXV Aprile, la cui casa è quasi attaccata a quella dell'Agresta, che udì "lamenti soffocati" intorno a mezzogiorno del 4.8.1993 (s.i.t. 13.8.1993, s.i.t. 31.8.1993; deposizione resa all'udienza del 13.7.1994, fol. 63);

10) Pisano Massimo (s.i.t. 7.8.1993, h. 03.15; interrogatorio del 7.8.1993, h. 20,50);

11) consulenza autoptica della vittima;

12) verbale ispezione personale di Silvana Agresta del 10.8.1993.

Posto che la genesi e la ricostruzione delle varie fasi di un omicidio deve essere strettamente ancorata alle risultanze processuali (e non alle congetture), i predetti elementi di prova, valutati congiuntamente alle prove nuove assunte nel presente giudizio di revisione (esame Aniello Agresta, ud. 20.1.2001, consulenza tossicologica, deposizione geometra Giammattei), hanno consentito di ricostruire precisamente la genesi e tutte le fasi di esecuzione del delitto, che non è risultato premeditato. Orbene, come emerge dagli atti, la vittima Cinzia Bruno, che nutriva già dei sospetti sul fatto che il marito avesse un'amante (cfr. dichiarazioni di Soricelli, trascr. ud. 13.7.94, fol. 77; Valletta e Mourik, trascr. ud. 14.7.94, risp. foll. 2 e 15/16), in data 21 luglio 1993 scoprì sul telefono cellulare del marito Massimo Pisano un numero telefonico di Riano (RM), intestato a Naso Giuseppina, madre di Silvana Agresta, residente in via Matteotti, n. 10 (cfr. dichiarazioni Soricelli Stella trascr. ud. 13.7.94, foll.77/78; Valletta e Mourik, trascr. ud. 14.7.94, risp. foll. 3/4 e 16), numero al quale la vittima aveva anche telefonato alcune volte, senza rispondere all'interlocutrice, che a volte aveva la voce di persona giovane ed a volte la voce di persona anziana (cfr. Soricelli, ibidem, fol. 78).

Tale circostanza avvalorò il sospetto di Cinzia che l'amante del marito risiedesse in Riano, come confermato dalle dichiarazioni rese dal teste Labozzetta Giuseppe, amico di famiglia di Cinzia Bruno e di Massimo Pisano, il quale ha riferito al dibattimento di primo grado che la vittima "parlava sempre di questo Riano, era sospettosa di questo Riano" (cfr- trascr. ud. 3.10.94, fol. 45).

Cinzia Bruno effettuò, pertanto, da sola con la sua autovettura un primo sopralluogo in Riano, nella seconda metà del mese di luglio (cfr. deposizioni delle testi Triburzi Vittoria e Testa Tatiana, le quali hanno espressamente dichiarato che nella seconda metà del mese di luglio "una biondina con una 126 celeste" aveva loro "richiesto di corso Matteotti in Riano... che avevano riconosciuto come Cinzia Bruno dalla foto sul giornale": cfr. Testa, trascr. ud. 14.10.94, foll. 56-59 e Triburzi, trascr. ud. 26.10.94, foll. 16-17).

Il teste Labozzetta ha poi precisato al dibattimento cheCinzia, sempre più insospettita, aveva anche rinvenuto a casa, in un mod. 740, una ricevuta di un versamento I.C.I. effettuato da Massimo Pisano proprio presso l'ufficio postale di Riano (cfr. trascr. ud. 3.10.94, fol. 45).

Ha ancora precisato Soricelli Stella che Cinzia Bruno aveva, quindi, deciso di fare un blitz in Riano a casa dell'Agresta, ove "dovevano recarsi insieme" (cfr. dichiarazioni di Soricelli, trascr. ud. 13.7.94, fol. 78/79).

Inoltre, la sera del 3 agosto Cinzia Bruno (come espressamente riferito al dibattimento da Mellucci Maria, madre della vittima), dopo che ritornarono tutti insieme a casa alle ore 24,00 circa, discusse con Massimo Pisano, in quanto era alla ricerca di un mod. 740 che non trovava (cfr. dichiarazioni, trascr. ud. 13.7.94, fol. 23).

Come riferito dall'imputato Massimo Pisano, la mattina successiva (4 agosto 1993) Cinzia Bruno alle ore 8,15 circa telefonò all'imputato, chiedendogli se ricordava dove fosse finito il mod. 740 del padre e l'imputato le disse dove lo stesso si trovava (cfr. s.i.t. 7.8.93, h. 3,15, nonchè interrogatorio 7.8.93 h. 20,50 in volume 12).

Subito dopo, alle ore 8,30, Cinzia Bruno "impulsiva" (cfr. sentenza di condanna primo grado, pag 90, rigo 16), avendo finalmente rinvenuto nel mod. 740 del padre, su indicazioni dello stesso Pisano, la ricevuta del versamento I.C.I. effettuato dall'imputato presso l'ufficio postale di Riano (proprio quella cui ha fatto espresso riferimento il teste Labozzetta a fol. 45, ud. 3.10.94) che la sera precedente ella non aveva trovato (nonostante la discussione con il marito), decise di attuare da sola, ovviamente all'insaputa dell'imputato Massimo Pisano, il blitz a Riano, come peraltro già preannunciato alla sua collega ed amica intima Soricelli Stella (cfr. dichiarazioni cit.), la quale non era in condizioni di accompagnarla, perchè aveva l'autovettura dal meccanico (cfr. dichiarazioni di Soricelli, trascr. ud. 13.7.94, fol. 79).

I giudici di cognizione hanno utilizzato, a questo punto, un falso riferimento temporale utilizzato per arrivare ad anticipare l'ora della morte della Bruno (3/4 ore dopo la colazione), partendo dall'erroneo assunto che Cinzia effettuò la prima colazione con lo yogurt, circostanza smentita dalla madre, Mellucci Maria (cfr. trascr. verb. ud. 13.7.1994, f.
22).

Cinzia, quindi, alle ore 8,30 circa telefonò in ufficio, riferendo alla collega Valletta che intendeva fruire di un giorno di ferie, pregandola di informare anche le altre colleghe che, qualora il marito Massimo Pisano l'avesse cercata telefonicamente, gli avrebbero dovuto tacere la sua assenza in ufficio (cfr. trascr. ud. 14.7.94, fol. 5).

D'altro canto, Massimo Pisano alle ore 8 circa ricevette una telefonata da Silvana Agresta la quale, nel prendere appuntamento con lui a casa intorno alle ore 14,00 invitandolo a pranzo, gli disse che aveva intenzione di andare a fare le pulizie a casa del Prefetto Rossi.

Per tale ragione, Massimo Pisano non telefonò a Silvana Agresta, come di consueto, al mattino, nè successivamente, nel corso della mattinata, non essendo l'Agresta in possesso di un telefono cellulare.

Poco dopo, circa verso le ore 9,30, Cinzia Bruno, "impulsiva" e profondamente innamorata del marito Massimo Pisano, piombò in Riano a casa di Silvana Agresta, conoscendone ormai l'esatta ubicazione, appresa a seguito del precedente sopralluogo effettuato nella seconda metà di luglio, chiaramente invitandola a "togliersi di mezzo" per non distruggere la sua famiglia.

Silvana Agresta conosceva fisicamente la Bruno ("conoscevo la Bruno per averla vista sul luogo di lavoro"- int. 7.8.93) nonchè, per averlo appreso dal Pisano, anche il tipo di auto da lei condotta: i giri viziosi della 126 della vittima (di cui ebbe a riferire a svariate persone, tra cui Gilda Catena, madre di Sabatino Gigante, la teste Anna Gentili Rossi, titolare di un negozio di alimentari sito proprio in via Matteotti) avevano certamente destato l'interesse dell'Agresta, la cui abitazione era sita a piano stradale, utilizzando la mansarda per la propria "intimità" (cfr. interrog. Agresta 24.8.1993 "...nella mia mansarda andavo ogni tanto, passando gran parte della mia giornata, quando stavo a casa, da mia madre...").

A Silvana Agresta non mancava certo l'intraprendenza (come il delitto ha dimostrato) e ben potè affrontare Cinzia a carte scoperte, manifestandole provocatoriamente la relazione sentimentale che ella intratteneva con il marito Massimo Pisano: Silvana Agresta, in esecuzione del suo proposito, svelò quindi alla vittima il "nido d'amore".

Cinzia recava con sè i biglietti del traghetto per la Sardegna, che proprio quel giorno aveva programmato di sostituire insieme alla Mourik (v.si dichiaraz. trascr. ud. 14.7.94) e che non verranno più trovati.

Le donne si affrontarono, ciascuna con i rispettivi argomenti: per Cinzia il vincolo coniugale, la figlia Arianna, la già programmata vacanza in Sardegna; per l'Agresta la annosa relazione amorosa, l'anello regalatole il giorno prima (cfr. capitolo B, par. 4, punto n. 6 della presente sentenza), nonchè le lettere, gli altri ricordi e le foto che l'Agresta custodiva nel suo "nido d'amore".

Le provocazioni di Silvana Agresta ebbero effetto anche sulla timida e mite Cinzia Bruno, portando ad un'inevitabile escalation di improperi, insulti e ad una zuffa furibonda nella mansarda dell'Agresta, come dimostrato dalle tracce di sangue, rilevate in abbondanza nel locale bagno (dove avvenne lo sgozzamento ed il dissanguamento della vittima), nonchè in camera da letto, sul pavimento, su di un comodino, nel soggiorno, sul termosifone, sul divano, nella porzione di
corridoio costeggiante la camera da letto, oltre che sul pavimento del terrazzo ove fu trasportato il cadavere della vittima (cfr. verbale ispezione e foto in atti).

Dall'assenza sul corpo della vittima di lesioni od ecchimosi lievi (cfr. autopsia in atti) e, per contro, dalla presenza di 20 lesioni ed ecchimosi riscontrate sull'Agresta nell'ispezione corporale del 10 agosto 1993 è provato che l'Agresta ebbe inizialmente la peggio e che, quindi, la condannata non stava attendendo la vittima (in compagnia di una persona alta e robusta"), nè aveva teso alla stessa un invito-trappola, ma che fu l'Agresta stessa colta di sorpresa dal blitz di Cinzia Bruno.

L'Agresta aveva, però, un'arma in mansarda, quel corpo contundente non meglio individuato, che cagionò le vaste ferite al capo della Bruno e che l'Agresta brandì, colpendo la vittima al capo più volte, fino a fiaccarne le forze.

Erano circa le ore 10,00 del 4.8.1993 (cfr. dichiarazioni Furnari sulla necessaria durata dell'azione venefica).

Subito dopo Silvana Agresta maturò lo sconsiderato disegno di simulare il suicidio della rivale con l'ingestione di psico-farmaci, in particolare del Plegine, acquistato presso la farmacia di Riano dal fratello Aniello Agresta e custodito a piano terra a casa della madre (cfr. sul punto dichiarazioni rese nel presente giudizio di revisione da Aniello Agresta, fornitore dei farmaci ingurgitati dalla vittima, ud. 20.1.2001, p. 94-120 verb. trascr.).

Il Plegine certo non poteva salire da solo in mansarda, onde qualcuno, presente sul luogo del delitto, ve lo portò.

La stessa Silvana Agresta (ovvero il suo complice), dopo aver preso dalla borsa di Cinzia le chiavi dell'auto, scese precipitosamente le scale, dispose la Fiat 126 nel box, fece ritorno in mansarda e tentò di fare ingerire le compresse a Cinzia, utilizzando lo sciroppo per la tosse, prima, e lo yogurt, dopo, somministrato forzatamente con il cucchiaino "Algida" in Silver, che la vittima custodiva nella borsetta e che rimarrà fuori della borsa (mai più ritrovata), venendo poi bruciato la mattina successiva dall'Agresta sotto casa (v.si dichiaraz. Grasselli e Morelli cfr. trascr. ud. 10.10.94, rispettivamente foll. 16-18 e 19-21), per tentare di far scomparire quell'oggetto che poteva ricondurla a Cinzia Bruno e che, infatti, fu riconosciuto dalle colleghe della vittima (v.si ud. 13.7.94, dichiarazioni di Soricelli, foll. 84-85).

Il dottor Colesanti, c.t. del Pubblico Ministero, specificò l'impossibilità di far ingerire pastiglie sane ad una persona semi-incosciente (v.si chiarimenti al P.M. all.to 77 rich. rev.), e del resto per tale compito furono assolutamente necessarie almeno due persone in quanto, una volta ripresasi dal torpore provocatole dai colpi al capo, Cinzia, seppure ancora stordita, avendo ormai chiaramente percepito il disegno omicida dei suoi aguzzini, lottò per la sopravvivenza con tutte le sue residue forze.

Vi fu una serie di assunzioni di Plegine, che proseguì nel tempo, comportando l'immobilizzazione degli arti di Cinzia, con le conseguenti riscontrate fratture dei polsi e dei metacarpi, assolutamente simmetriche (cfr. foto autopsia in atti).

In questo frangente, l'Agresta, allo scopo di assicurarsi che il Pisano non le facesse un'improvvisa visita a casa, come poteva accadere, telefonò all'ufficio di Massimo Pisano, chiedendo di lui e, non avendolo trovato, lo chiamò sul telefono cellulare ("credo che fossero le 11 della mattina", cfr.int. Agresta del 9.8.93, nonchè del 7.8.93, volume 9 "lui mi disse che era andato al catasto"); anche Pisano conferma, sintomaticamente, tale circostanza "stavo rientrando dal catasto e avevo fatto tardi" (cfr.int. Pisano del 26.8.93, fol. 2, volume 12).

Dalla rivisitazione della consulenza tossicologica, alla luce dei nuovi elementi di prova acquisiti, emerge inconfutabilmente che vi furono diversi "momenti" di somministrazione coatta di Plegine: una prima fase si riscontra nelle concentrazioni di fendimetrazina contenute nel sangue e nelle urine, mentre altre due fasi successive si rilevano dal contenuto gastrico, ove sono state reperite 4 pasticche integre ed altre 3 parzialmente sciolte.

Le altissime concentrazioni riscontrate nei campioni di sangue e di urine della vittima, da un lato accreditano l'ipotesi dell'ingestione di un massivo quantitativo di Plegine e dall'altro acclarano il necessario tempo di assorbimento ed espulsione urinaria dei principi attivi di tali pasticche, per un intervallo temporale erroneamente quantificato, sul piano tecnico-scientifico, nel giudizio di cognizione, in pochi "minuti" ("stimandosi, conseguentemente piuttosto breve -nell'ordine di grandezza di diversi minuti- l'intervallo di tempo introduzione-decesso": cfr. sentenza di condanna di I grado, fol. 54).

Deve, quindi, ribadirsi l'erroneità macroscopica dei "tempi omicidiari" calcolati nel giudizio di cognizione ("diversi minuti", in luogo di 1ora e � - due ore), nonchè del numero di compresse di Plegine che furono fatte ingerire alla vittima (11 compresse), in luogo di 20-30 di solo Plegine, che corrisponde, significativamente, sia alla quantificazione del consulente delle parti civili, prof. Chiarotti "10-20 volte la dose terapeutica" (costituita da 1 o 2 pasticche al giorno), sia a quella indicata dal prof. Furnari nel corso del presente giudizio di revisione.

La simmetria delle fratture al metacarpo di entrambe le braccia dimostra inconfutabilmente che l'immobilizzazione della vittima fu attuata con l'utilizzo di corpi rigidi, verosimilmente morsetti, nella fase di avvelenamento coatto (vds. foto autopsia).

Di certo l'Agresta ed il (o i) complice(i), non riuscendo nel loro intento tossico-letale in tempi ragionevolmente brevi e compatibili con le altre emergenze (il Pisano era stato invitato a pranzo dall'Agresta per le 14), abbandonarono il primitivo disegno di simulazione suicidarla, passando all'ancor più efferata soppressione, e cioè sgozzando la vittima, ferita con tre coltellate in successione: alla trachea, alla carotide ed alla giugulare.

Il dissanguamento, secondo la comune esperienza, dura alcuni minuti, ma anche questa cruenta attività, diversamente da quanto avvenuto nel giudizio di cognizione, deve essere considerata nella ricostruzione delle fasi e dei tempi di esecuzione del delitto.

Silvana Agresta manifestò, infine, tutta la sua crudeltà infierendo con lo stiletto sul ventre della rivale, ormai letteralmente esangue, come accertato dall'autopsia (cfr. consulenza autoptica in atti).

E' questo un ulteriore elemento che consente di escludere (sia pure solo logicamente) la compartecipazione al delitto del Pisano: l'accanimento sulla vittima ("over killing") ha, da un lato, una chiara firma femminile, per la collocazione dello sfregio -il ventre- e, dall'altro, impedisce di ritenere il Pisano capace di tanto implacabile e feroce odio per la donna che ha generato sua figlia Arianna, al punto di acconsentire, sia pure passivamente, a quest'ultimo inutile e crudele scempio.

Contrariamente a quanto ritenuto dai giudici della cognizione, tutta l'azione omicidiaria è caratterizzata da notevole approssimazione ed improvvisazione.

In un delitto premeditato ed accuratamente preordinato, non si cercano, peraltro a delitto asseritamente già compiuto, due persone per incaricarle del "trasporto" e dell'occultamento del corpo della vittima.

L'"invito-trappola" (e la connessa ritenuta "premeditazione") è un postulato logico-deduttivo disancorato dalle risultanze processuali globalmente considerate (quelle già esistenti in atti, valutate congiuntamente a quelle acquisite nel presente giudizio di revisione).

Ad esempio è da escludere che la Fiat 126, parcheggiata prima all'esterno, davanti all'abitazione dell'Agresta, poi
ricoverata all'interno del box e poi posteggiata di nuovo in via Matteotti prima delle 13, sia stata condotta "in garage"
dalla vittima.

Per quanto suadente o rassicurante fosse stato l'invito-tranello asseritamente ricevuto, non v'era ragione per utilizzare il box degli Agresta, che in realtà è una minuscola cantina, tale definita anche catastalmente (v.si sequestro conservativo in atti, disposto dalla Corte d'Assise di Roma); realmente non si coglie il senso di una manovra a retromarcia effettuata dalla vittima, al fine di una sollecita sortita, poi, o per pianificare... il proprio post mortem (!?)

E' evidente, invece, che tale manovra, successiva al parcheggio dell'autovettura di Cinzia in via Matteotti, fu assolutamente funzionale e necessaria per gli assassini, che solo così avrebbero poi potuto introdurre il corpo della Bruno avvelenata, sul sedile accanto al conducente, attraverso lo sportello destro, dal lato che rende comunicante la cantina (posta al civico 8) con la scala interna del palazzo degli Agresta (civico 10).

Che la manovra fu effettuata dall'Agresta (o dal suo complice) è poi confermato proprio dall'urto tra la fiancata destra ed il telaio della saracinesca, in conseguenza della scomoda manovra a retromarcia e della particolare concitazione, successiva all'iniziale azione aggressiva ed alla scelta, poi abortita, di sopprimere la vittima mediante avvelenamento.

Tutte le colleghe di Cinzia Bruno hanno concordemente riferito dell'indole paurosa della vittima, che titubava rispetto alla prospettiva di cogliere in flagrante adulterio il marito in quel di Riano; orbene, asserire che la vittima introdusse addirittura l'autovettura, sua sponte, a retromarcia, all'interno del palazzetto dell'amante del marito, costituisce una chiara offesa alla Logica.

Di fatto l'azione omicidiaria si sviluppò nell'intero appartamento: tutte le tracce di sangue appartengono alla vittima (v.si pag. 33 della sentenza di I grado) e ciò non consente alternative interpretazioni.

Non ci si può limitare, così come hanno fatto i giudici di cognizione, ad affermare che Cinzia Bruno "dopo essere stata aggredita e costretta ad ingerire numerose compresse, è stata ripetutamente percossa al capo con un corpo contundente, ferita in più punti, con un'arma da punta e taglio, al volto e al collo; e oltraggiata, dopo morta, con altre stilettate all'addome", senza valutare l'elemento di prova costituito dalla perizia autoptica.

Non v'è ragione di una così furiosa aggressione sia in soggiorno che in camera da letto, ove si concordi con la tesi del giudizio di cognizione, secondo cui la vittima fu attirata (cd. "invito-trappola") in detto luogo al solo scopo di essere soppressa da due persone, almeno una delle quali di corporatura robusta, e per di più in possesso di un corpo contundente e di uno stiletto.

Non è dato comprendere, infatti, come avrebbe mai potuto la vittima, senza riportare alcuna piccola lesione, manifestare cotanta reazione, quantomeno nei confronti di Silvana Agresta, provocandole oltre 20 lesioni ecchimotiche o escoriate (v.si verbale di ispezione personale dell'Agresta in data 10.8.93), ove Cinzia fosse stata effettivamente oggetto di una premeditata (ed immediata) aggressione da parte di almeno due persone, armate e in grado di immobilizzarla, che la stavano attendevano al varco.

Tali elementi di fatto, non esaminati dai giudici della cognizione, i quali non valutarono nemmeno la significativa telefonata fatta in ufficio dalla vittima la stessa mattina alle ore 08,30, nel corso della quale Cinzia pregò le proprie colleghe di non riferire al marito Massimo Pisano, qualora l'avesse cercata al telefono, che ella si era assentata prendendo un giorno di ferie (cfr. Valletta, trascr. ud. 14.7.94, fol. 5), valutati congiuntamente ai nuovi, consentono di affermare con certezza che l'omicidio non fu premeditato e che non si trattò di "invito-trappola", bensì di un blitz effettuato in Riano da Cinzia Bruno, all'insaputa del marito Massimo Pisano, peraltro espressamente preannunziato dalla vittima alla propria amica intima e collega Soricelli Stella, con cui Cinzia l'aveva addirittura anche già concordato (cfr. Soricelli Stella, dichiarazioni cit.).

La documentata esclusione della premeditazione, rende già di per sè arduo ipotizzare il concorso dell'imputato Massimo Pisano in un delitto conseguente ad un improvviso blitz di Cinzia Bruno, effettuato dalla vittima in Riano, presso l'abitazione dell'Agresta, pacificamente all'insaputa dell'imputato.

Comunque, pur volendo comprimere i tempi del delitto (per farli rientrare con quelli, comunque scarsissimi, del Pisano), i "nuovi" dati di prova generica, nel caso di specie legati a fenomeni chimico-fisiologici del corpo umano acquisiti nel presente giudizio di revisione, dimostrano l'erroneità, sul punto, delle conclusioni cui pervennero i giudici di
cognizione.

L'imputato Massimo Pisano, stando a quanto (erroneamente) riferito dalla stessa sentenza di condanna, avrebbe avuto circa 90 (in realtà 60, cfr. cap. B, par. 2-M) minuti di tempo, ed anche ritenendo che gli fosse stato possibile impiegare solo 40 minuti (in realtà circa 60, cfr. cap. B, par. 5) per il tragitto Roma-Riano-Roma, trascurando la sosta di almeno 5-10 minuti per effettuare il duplicato delle 4 chiavi (ampiamente provata dagli scontrini in atti, dai quali risulta l'orario 11,26 del 4.8.1993, cfr. vol. 4, ud. 3.10.94, fol. 11), è sufficiente la comune conoscenza della fisiologia umana ad imporre un intervallo di almeno un'ora (e comunque più dei soli "diversi minuti" che i giudici di cognizione "concessero" al Pisano) fra l'inizio dell'ingestione dei farmaci ed il decesso della vittima, quand'anche si voglia ridurre ad un'ora e � il riferimento temporale massimo di due ore indicato dal prof. Furnari.

Infatti, i testi Elisa Marronaro e Giacinto Santella udirono invocazioni di una donna "prima di mezzogiorno" (secondo il fol. 62 sent. I grado - recte "intorno a mezzogiorno" secondo i testi).

Pertanto, anche stando ai calcoli (comunque erronei) della sentenza di cognizione, l'imputato Pisano al più tardi alle ore 11,05 avrebbe dovuto necessariamente lasciare la mansarda dell'Agresta, e cioè almeno 1 ora prima della consumazione del delitto.

2 - L'ALIBI DI MASSIMO PISANO.

2-a - La sentenza di condanna di primo grado.

Per quanto attiene alla presenza del Pisano al Catasto la mattina del delitto, la Sentenza della Corte d'Assise del 1994 stigmatizzava la circostanza nei seguenti termini: "Alibi caduco, privo di consistenza e, comunque, non dimostrato se non nei riferimenti temporali tutt'altro che certi..." (sent. condanna I grado, pag. 81)"Per quanto concerne, poi, il suo passaggio dagli uffici del catasto, in quel torno di tempo (10.30-11.30), non risultano acquisiti elementi di sicuro riscontro alle sue dichiarazioni..." (sent. condanna I grado, pag. 82)

"Ora il documento di che trattasi (la pratica "Trappetti" n.d.r.), se pur contenuto nella valigetta 24 ore in giudiziale sequestro, rinvenuta nell'autovettura dell'imputato, non prova alcunchè se non la data di presentazione di un documento, Ma chi quel documento abbia presentato e chi l'abbia poi ritirato ben potendo essere stato consegnato al Pisano in un secondo momento) non risulta da nessun atto...Oltre la data del 4 agosto '93 impressa sul documento in atti insieme alla firma del tecnico dell'ufficio catastale, che l'ha ricevuto, null'altro risulta in termini apprezzabili sul piano probatorio. Dette considerazioni inducono, dunque, a ritenere carente l'alibi del Pisano; avuto, altresì, riguardo agli stessi riferimenti temporali addotti (sent. condanna I grado, pagg. 85-86)

2-b - La sentenza delle Sezioni Unite Penali della Cassazione.

Risulta utile accostare le ultime pagine della sentenza delle Sezioni Unite Penali della Corte Suprema di Cassazione del 26 settembre 2001 che, all'esito delle nuove prove d'alibi addotte nel giudizio di revisione, ha ritenuto definitivamente acclarata la presenza di Massimo Pisano al Catasto.

"A giudizio di queste Sezioni Unite la validità della prova d'alibi risulta riuscita considerando le articolate argomentazioni contenute nella sentenza di revisione, così da relegare le doglianze avanzate dai ricorrenti sul punto o alla deduzione di vizi direttamente incentrati nel meritum causae ovvero alla doglianza della mancata rilevazione del "travisamento" del fatto ex actis, una denuncia non più consentita nel sistema del codice del 1988.

Per valutare con la massima correttezza metodologica gli argomenti adottati dal giudice della revisione, occorre muovere dai criteri seguiti dalla Corte perugina in ordine alla valutazione delle prove nuove o perchè noviter repertae o perchè noviter productae (in quanto non valutate nel giudizio di cognizione).

Un ruolo cruciale assumono nella motivazione della sentenza impugnata le prove testimoniali e documentali riferibili alla presenza del Pisano, nelle ore in cui fu consumato il delittto, negli uffici del catasto.

E'evidente, anzi tutto, che tali prove non devono essere esaminate isolatamente ma nel contesto complessivo che rende credibili le argomentazioni in ordine all'effettiva presenza del Pisano in tali uffici, avendo la Corte territoriale individuato una serie numerosa di riscontri di quanto a suo tempo dichiarato dal Pisano e non valutata (o non potuta valutare) dal giudice della cognizione; per di più, considerando talune nuove prove come dotate di univoca
capacità demolitoria delle prove già valutate (si pensi soltanto a quelle - di supporto generico - sulle quali i giudici della cognizione hanno fondato il giudizio sulla "libertà" concessa al Pisano di entrare ed uscire a suo piacimento dall'Istituto, specificamente confutate dal novum).

Anzitutto, la deposizione del geometra Brunettini. Costui, presa visione della pratica "Primavera", recante il numero di protocollo immediatamente precedente a quello della pratica "Monari", ha dichiarato di essere giunto al catasto alle 10-10,30, di essersi posto in fila prima per accedere al tecnico di turno e, quindi, davanti al protocollo e che "al momento di ritirare la pratica mancava un timbro sulla... planimetria", tanto da essere stato costretto a tornare successivamente per il ritiro della pratica stessa. Un dato che secondo la decisione qui impugnata riscontra ampiamente, anche quanto alle modalità dell'episodio ed alle fattezze fisiche del testimone, le dichiarazioni rese dal Pisano nel suo interrogatorio dell'8 novembre 1993.

Ulteriore conferma di tali dichiarazioni viene individuata nella testimonianza del geometra Emilia Rosso (la donna descritta dal Pisano come quella che "portava gli occhiali in mezzo al naso per leggere da vicino e con i capelli corti") che, oltre a riconoscere per propria la firma apposta in calce alle pratiche "Trappetti" e "Monari" e a dichiarare di aver trasferito le due pratiche nella stanza della registrazione perchè venissero protocollate, ha riferito che nel 1993 utilizzava gli occhiali da vista, seppur non continuativamente, per poter leggere da vicino.

Ancora, la deposizione di Maria De Giovanni, individuata nell'interrogatorio del Pisano come la "persona di nome Maria, coniugata Gelsomino, addetta al settore C, che il dichiarante riferì di aver cercato di contattare la mattina del 3 agosto e che seppe dall'impiegata Lucia Mangosi" - descritta dal Pisano come "l'altra impiegata dai capelli biondi" - essere in malattia. La De Giovanni ha dichiarato di non aver informato il Pisano del suo improvviso ricovero avvenuto proprio il 4 agosto, soffermandosi sulla frequenza dei rapporti di "lavoro" con il condannato. La Mangosi ha, a sua volta, dichiarato di essere stata richiesta da una persona di cui, dato il tempo trascorso, non ricordava le fattezze, della De Giovanni.

Ulteriori riscontri vengono individuati nelle dichiarazioni di altre persone presenti negli uffici del catasto all'ora indicata dal Pisano circa la dinamica di significativi episodi che solo chi fosse stato presente in detti uffici avrebbe
potuto raccontare.

Si sono, poi, già descritti, quando sono state esaminate le censure in ordine all'ammissibilità della prova, la valenza dimostrativa delle procedure relative alle pratiche di accatastamento ("Trappetti") e di frazionamento ("Monari"), il rilievo dell'accertamento della precompilazione della ricevuta provvisoria sottoscritta dal Pisano e rinvenuta nella valigetta 24 ore, richiesta solo nel caso in cui la pratica, non disbrigata subito, venisse ritirata dal presentatore in un momento successivo; una prassi di norma non seguita dal Pisano che il 4 agosto si vide costretto ad utilizzare, considerata l'assenza all'interno dell'ufficio della sua referente Maria De Giovanni.

In tale quadro, correttamente il giudice a quo ha assegnato valenza probatoria alla testimonianza del consulente Greco che, oltre ad riferire in ordine all'identità della grafia del Pisano con quella del compilatore di entrambe le copie della ricevuta provvisoria, ha precisato che tale ricevuta "era stata scritta in originale e non a ricalco e che entrambe le ricevute..... erano state scritte di pugno dal Pisano in una situazione di appoggio precario, in quanto alcune caselle erano state sbarrate con la crocetta, al di fuori del quadratino presente nel modulo". Il tutto senza che, peraltro - un elemento quanto mai significativo - fosse rinvenuto nella valigetta alcun altro modello in bianco di ricevuta
provvisoria.

Sempre circa l'effettiva presenza del Pisano negli uffici del catasto al mattino del 4 agosto 1993, la sentenza impugnata ha correttamente assegnato valore probatorio all'esame del tabulato delle telefonate in uscita dal suo telefono cellulare comprovanti, per un verso, gli stretti rapporti con gli interessati alle pratiche da accatastare nonchè l'urgenza di esse e, per un altro verso, l'insussistenza di ogni chiamata diretta ad incaricare altri per il disbrigo degli accatastamenti.

In tale quadro assumono valore davvero significante secondo le argomentate precisazioni della sentenza impugnata, i riscontri costituiti dagli scontrini fiscali del negozio di ferramenta, le motivazioni delle reiterate telefonate del Pisano presso l'ufficio della moglie - che aveva ingiunto alle sue colleghe di non rivelare al marito il permesso che aveva richiesto - e soprattutto i dati documentali e testimoniali attestanti gli orari di uscita e di rientro del Pisano dall'Istituto Superiore di Polizia, che finiscono per riempire tutto l'arco della mattinata del 4 agosto, secondo modelli di inferenza inconfutabili. Seguendo un'operazione di corretta demolizione e ricostruzione dei dati valutati sia dalla Corte di assise di primo grado sia dalla Corte di assise di appello, tanto - come si è visto - da relegare implicitamente nell'irrilevanza la consulenza Furnari, che questa Corte ha già ritenuto prova inammissibile in quanto non rientrante nella nozione di prova
nuova".

3 - IL CONCETTO DI "PROVA NUOVA" al vaglio delle Sezioni Unite.

Inquadrato il processo Pisano nei termini fattuali che hanno consentito di "sconsacrare" il giudicato e di rimuovere l'errore giudiziario di cui lo stesso è, incontrovertibilmente rimasto vittima, si riporta uno dei passi più pregevoli, in punto di diritto, racchiusi nel capitolo 14, titolato - Conclusioni sul concetto di prova nuova ai fini del procedimento di revisione e conseguente principio di diritto, da cui si è enucleata, all'esito della sentenza detta, la massima qui riportata:

"Ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione, prova nuova è, oltre la prova sopravvenuta, la prova scoperta, la prova non acquisita e la prova non valutata, come risulta dalla disposizione dell'art. 630 lett. c) c.p.p., che è àncora la novità della prova alla sua avvenuta valutazione nel giudizio di cognizione"

"14. Ritengono queste Sezioni unite che per rinvenire nel sistema l'esatto concetto di prova nuova ai fini dell'ammissibilità della richiesta di revisione occorre incentrare, in primo luogo, l'operazione interpretativa sull'esame del testo delle disposizioni contenute nel titolo IV del libro VIII del nuovo codice raffrontandole con le corrispondenti prescrizioni del codice abrogato.

Ciò, non solo considerando che la revisione è quello fra i mezzi di impugnazione che più è stato oggetto di modifiche procedimentali da parte del codice del 1988, ma anche riflettendo sulla decisiva valenza dei moduli proscioglitivi rilevanti sia in sede di giudizio di ammissibilità, sia, conseguentemente, all'esito del giudizio di revisione.

E'significativo rimarcare come, fra i "casi" in cui la revisione può essere richiesta, il più volte richiamato art. 630 annoveri (lettera c) l'ipotesi in cui "dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell'art. 631".

Una norma profondamente diversa nella sua valenza precettiva dall'art. 554, n. 3, del codice abrogato, che, a sua volta, indicava come condizione di ammissibilità della richiesta la sopravvenienza o la scoperta di "nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il condannato deve essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'articolo 479".

La dottrina prevalente prima della nuova codificazione riteneva, sul presupposto che la finalità dell'istituto è quella di predisporre un rimedio all'eventuale ingiustizia di una condanna inflitta per errore, che la novità degli elementi di prova dovesse essere intesa in senso lato, assegnando valore esponenziale non solo all'insorgenza del fatto oggetto di prova (noviter reperta), ma anche alla sua produzione e valutazione (noviter producta). Conseguentemente considerando irrilevante che la prova preesistesse alla sentenza di merito di cui si domandava la revisione e che la prova stessa non fosse stata acquisita per negligenza del giudice ovvero per la mancata deduzione - dovuta anche a dolo o colpa - della parte o del suo difensore. Tanto da inferirne che devono considerarsi nuovi anche gli elementi di prova che siano stati prodotti nel precedente procedimento ma che non siano stati valutati dal giudice, rimanendo così estranei alla decisione sottoposta a revisione.

L'interpretazione giurisprudenziale era, dal suo canto, prevalente - ma con significative oscillazioni - sulla linea interpretativa secondo cui le prove preesistenti sono da considerare nuove quando non siano mai state portate a conoscenza del giudice; così escludendo il carattere della novità agli elementi di prova preesistenti che non siano stati dedotti per negligenza o non siano stati rilevati per errore. Pur evidenziandosi l'esigenza di recuperare, attraverso il giudizio di revisione, anche le circostanze non esaminate dal giudice della cognizione, comprendendo fra i nuovi elementi di prova quelli già esistenti agli atti ma non conosciuti nè valutati, purchè idonei ad influenzare in senso favorevole l'apprezzamento di quelli già raccolti nel precedente processo (cfr. Sez. V, 19 febbraio 1987, Avogaro; Sez. I, 16 novembre 1984, Savelli; Sez. I, 29 ottobre 1984, Trencia).

Poichè, peraltro, il tema era stato oggetto di risultati ermeneutici contrastanti, la più volte ricordata sentenza delle Sezioni unite (Sez. un., 26 febbraio 1988, Macinanti), nella sua adesione alla tesi restrittiva, ha costituito la base per l'insorgere di ulteriori contrasti interpretativi, non solo nel sistema del codice abrogato (si sono ricordate le argomentate prese di posizione di Sez. I, 30 gennaio 1989, Carlotto), ma anche nel nuovo assetto normativo, contrasti, certo, non ricomposti dalla sentenza Ligresti, mai assunta al ruolo di decisione comprovante l'esistenza di un diritto vivente in tema di prova nuova.

Ritengono queste Sezioni unite, anzitutto, di richiamare, nella loro pressochè integrale valenza interpretativa, i rilievi avanzati in proposito della linea maggiormente "permissiva", la quale è in grado di rivelare l'esistenza di un assetto ermeneutico, talora esplicitamente, talora solo implicitamente, incentrato su valori di ordine costituzionale.

Ne consegue che il concetto di prova nuova va ricostruito sotto un profilo strutturale e sotto un profilo teleologico, sempre avendo di mira l'oggetto che essa deve introdurre nel processo di revisione e che si sostanzia comunque nella rappresentazione di una fatto (fondato "eventualmente" sugli elementi potenzialmente idonei a dimostrarlo, secondo il modello precedentemente a lungo esaminato) in grado di vincere - nel contesto tipico della procedura di ammissibilità - la resistenza del giudicato.

Sotto il primo profilo, il richiamo alla valutazione della prova innesta un inscindibile raccordo con il procedimento gnoseologico necessario per pervenire alla decisione, il cui strumento di controllo non può che incentrarsi nella motivazione secondo una regola ormai canonizzata dal precetto dell'art. 192 c.p.p. Nel senso, cioè, che il giudizio di ammissibilità deve essere formulato sulla base di quello che - come si preciserà tra poco - va definito il rapporto di complementarità tra la prova nuova e la prova già valutata, tanto che se la prova non sia stata valutata dal giudice deve essere qualificata, per ciò solo, nuova. E, poichè la prova non valutata è quella che, pur essendo stata acquisita, non è stata oggetto del procedimento gnoseologico esternato nella motivazione della sentenza, risulta evidente che una simile nozione prescinde, non soltanto dalla acquisizione della prova, ma anche dalla imputabilità della mancata acquisizione.

Un approdo cui agevolmente si perviene soltanto riflettendo che - a parte i vizi di ordine processuale, che non si ricolleghino, ma solo entro ristretti limiti, alla valutazione della prova - possono assumere rilievo nel giudizio di revisione, con il quale non si realizza certo un nuovo grado di giudizio, quelle prove che - acquisite o non acquisite - non essendo state comunque valutate, entrano a comporre il novum proprio del giudizio di revisione. Il lessico adottato dall'art. 630, lettera c, appare, sul punto, assolutamente perentorio, soprattutto se riferito alle tipologie di sindacato azionabili sulla motivazione davanti alla Corte di cassazione. Cosicchè, se è pur vero che l'interpretazione letterale non può esaurire l'ambito delle opzioni ermeneutiche in una materia così complessa da postulare necessariamente l'utilizzazione di criteri di raccordo con l'intero sistema, è anche vero che proprio da una simile utilizzazione emerge come la mancata valutazione della prova (acquisita e, a fortiori, non acquisita) costituisce il limite invalicabile alla ammissibilità del giudizio di revisione.

D'altro canto, la valenza costituzionale dell'istituto non può consentire, perseguendosi con la revisione la rimozione di una condanna ingiusta, che l'esperibilità di tale mezzo straordinario di impugnazione resti condizionata, pur nel quadro di un assetto normativo informato ai principi del processo accusatorio il cui cardine è rappresentato - ai fini che qui assumono un incondizionato rilevo - dalle regole che sanciscono l'esercizio del diritto alla prova, all'osservanza, ad opera delle parti, delle regole concernenti l'ammissione e l'acquisizione della prova stessa.

Quel che sembra, dunque, essere stato trascurato, dalle decisioni che - proprio in forza del regime di "disponibilità della prova" - ritengono che sussista una naturale interferenza, tra l'esercizio del diritto alla prova e l'ammissibilità del giudizio di revisione fondato su una prova che avrebbe potuto essere dedotta (e quindi valutata) è, oltre che la protezione costituzionale dell'istituto della revisione, derivante dall'art. 24, quarto comma, della Costituzione, anche il rilievo che la revisione non costituisce mezzo di impugnazione ordinario proprio in quanto destinato a rimuovere, sulla base di prove nuove, un giudicato ingiusto.

Tra il giudizio di cognizione ed il giudizio di revisione non può, infatti, essere istituito un vero e proprio rapporto di continuità; l'irrilevanza dei vizi del procedimento di cognizione ne costituisce la conferma più significativa, ma al contempo lo stesso limite, considerato che nei casi di omessa valutazione della prova acquisita, l'addebito, pur incentrandosi esclusivamente sul risultato del processo cognitivo e, dunque, sulla condanna che si afferma erronea (e, quindi, ingiusta) presuppone comunque la violazione delle regole di inferenza canonizzate dal codice di rito.

Per il resto, il giudizio di revisione non può, senza precludere la possibilità di un'effettiva rimozione di una condanna ingiusta, ricollegarsi - se non nei limiti derivanti dalle tipizzazioni delle vie di accesso al mezzo straordinario di impugnazione - alla decisione da cui è scaturita la statuizione ed alla motivazione giustificativa della relativa condanna. Cosicchè parrebbe davvero esorbitante ricondurre l'ammissibilità del giudizio di revisione entro le regole proprie del giudizio di cognizione. Derivandone, fra l'altro, la mancata applicazione di uno dei principi fondamentali che legittimano l'instaurazione del nuovo giudizio e che si sostanzia nella assoluta irrilevanza del mancato rispetto di oneri formali ad opera delle parti e di violazioni della legge processuale ad opera del giudice.

Sotto il secondo profilo, quello che va individuato in una proiezione teleologica, l'estensione degli epiloghi cui può approdare il rimedio della revisione rappresenta un varco che - proprio in funzione della scomparsa di regole di giudizio rigorosamente canonizzate, la sostituzione dell'"evidenza" con la "dimostrazione" - dispone, ancora una volta, per l'utilizzazione di tutti gli strumenti volti a infrangere la capacità di resistenza del giudicato. Al contempo, la caratterizzazione della prova nuova, in quanto tesa alla rimozione della sentenza irrevocabile, non può che imporre l'utilizzazione di metodologie di controllo sulla novità che possano pervenire anche a conclusioni attestative non della piena innocenza dell'imputato, come, invece, il codice del 1930 mostrava chiaramente di pretendere.

Poste tali premesse, il determinare se la mancata valutazione (o la mancata acquisizione) debba prescindere dal comportamento delle parti, ovvero se la riferibilità di tale lacuna alla parte valga a qualificare non nuova la prova allegata alla domanda di revisione si risolve nella soluzione di un falso problema.

Fermo restando il rilievo che viene in considerazione la prova di un fatto incompatibile con le enunciazioni della sentenza di condanna, non valutato dal giudice, il disposto dell'art. 647, comma 1, c.p.p., a norma del quale la revisione può essere pronunciata anche se la parte abbia dato causa con dolo o colpa grave all'errore giudiziario - derivandone, in tal caso, la mancata insorgenza del diritto alla riparazione - su cui una cospicua tendenza giurisprudenziale fonda la tesi dell'irrilevanza ai fini dell'ammissibilità della revisione, dell'imputabilità alle parti della mancata acquisizione (e valutazione) della prova rimane, infatti, un dato conseguente all'applicazione dei principi sopra enunciati; più in particolare, di quello dell'assoluta autonomia del giudizio di revisione in quanto, nel caso previsto dall'art. 630, lettera c, al quale, soltanto, l'art. art. 643, comma 1, sembrerebbe fare riferimento, svincolato, ai fini dell'ammissibilità, dal giudizio di cognizione, sempre purchè sussistano le condizioni indicate dalla prima delle norme ora ricordate; anzi tutto, cioè, che la prova non sia stata valutata".

4 - LA RESPONSABILITA' DI TERZE PERSONE AL VAGLIO DELLE SS.UU.

Altrettanto pregevoli appaiono le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite Penali su di un tema pressochè inesplorato, se non inedito nella giurisprudenza della Suprema Corte, inerente alla possibilità di ammettere "prove nuove volte a dimostrare la responsabilità nel concorso del reato di terzi", affrontato e positivamente risolto nel capitolo 17.1 della sentenza, che ha rigettato il ricorso del Procuratore Generale della Corte d'Appello di Perugia, nella parte in cui aveva denunziato la "totale estraneità ad un giudizio di revisione di accertamenti protesi non già a dimostrare l'innocenza del condannato, ma a ricercare degli indagabili per il medesimo fatto... e il carattere abnorme di un'ordinanza ammissiva di prove al riguardo, vero e proprio 'monstrum' giuridico... quando 'de iure condito' non spetta al Giudice della revisione di ricercare prove a carico di un terzo, da affiancare quale correo, in luogo del richiedente, al coautore di un reato".

Queste le motivazioni delle Sezioni Unite Penali:

17.1. Si è contestata pure l'ammissibilità di talune deposizioni (più in particolare, di Daniele Tommasini, di Ivana Gentili e di Aniello Agresta) in quanto volte a comprovare la responsabilità di persona diversa dal Pisano che coadiuvò Silvana Agresta nell'esecuzione dell'omicidio.

Il tema, per quanto non ampiamente approfondito dai ricorrenti, è di estremo rilievo ai fini di tracciare un'esatta demarcazione tra i vari casi di revisione e, nello specifico, tra quello previsto dalla lettera c e quello previsto dalla lettera d dell'art. 630.

Tutto ciò considerando che la Corte di appello di Perugia ha ipotizzato, trasmettendo gli atti al Procuratore della Repubblica di Roma "per quanto di competenza", nei confronti di Silvana Agresta il reato di calunnia ai danni del Pisano per la falsa chiamata in correità, nei confronti di Sabatino Gigante sempre il reato di calunnia in danno del Pisano, per avere simulato a suo carico le tracce del reato di omicidio.

17.2 L'art. 630, lettera d, stabilisce che la revisione può essere richiesta "se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o di un altro fatto previsto dalla legge come reato". Una disposizione che va integrata, peraltro, con i successivi artt. 633, comma 3, e 634, comma 1, dai quali si ricava che tra le condizioni di ammissibilità della domanda proposta adducendo un simile caso di revisione è prevista l'allegazione di "copia autentica della sentenza irrevocabile di condanna per il reato ivi indicato".

Sennonchè risulta evidente che una disposizione di tal genere, apparendo diretta ad evitare il conflitto logico tra giudicati, in tanto è operante in quanto sia passata in cosa giudicata la sentenza per il fatto incidente, in via immediata e diretta, sul soggetto coinvolto nel fatto per il quale è già intervenuta condanna. In caso, contrario, non potendo operare, in sede di revisione, per le ragioni già indicate, il principio della cognizione incidentale del giudice penale e prevedendo la legge come condizione della stessa proponibilità della domanda il passaggio in giudicato della sentenza di cui all'art. 630, lettera d, pur esistendo potenzialmente un conflitto di giudicati, il condannato sarebbe privato da ogni forma di tutela in palese violazione dell'art. 27, 4° comma, della Costituzione.

Questa Corte, del resto, ha già avuto occasione di osservare che, in materia di revisione, occorre distinguere tra la prova intesa a contrastare direttamente l'accusa, negando i medesimi fatti che essa afferma, e la prova intesa a negarla solo indirettamente mediante l'affermazione di un fatto con essa incompatibile. E solo quando l'asserzione del fatto incompatibile con l'ipotesi di accusa consiste nell'indicare altre persone come colpevoli del delitto, trova applicazione l'art. 630, lettera a (il principio è applicabile anche all'ipotesi prevista dall'art. 630, lettera d, per l'identica ratio a base dei due casi di revisione); con la conseguenza che è possibile il ricorso all'ipotesi di cui alla lettera c quando la nuova prova dedotta, oltre a sostenere un'ipotesi di accusa alternativa, sia anche di per sè idonea ad inficiare l'accusa posta a fondamento della sentenza definitiva impugnata (Sez. V, 27 novembre 1995,Mulè).

D'altro canto, nel caso di specie, l'esame del punto relativo alla eventuale responsabilità di terzi ed ai provvedimenti "conseguenziali" alla revoca della sentenza di condanna (trasmissione degli atti al Procuratore della Repubblica di Roma quale notitia criminis nei confronti della Agresta, di Sabatino Gigante, di Aniello Agresta, di Walter Gigante e di Mario Cantoni) era da considerare indispensabile in relazione alle statuizioni delle due decisioni di merito che, da un lato, avevano ritenuto che l'azione omicidiaria era stata posta in essere necessariamente da due persone e, dall'altro lato, aveva escluso la riferibilità del delitto a soggetti appartenenti all'entourage dell'Agresta.

5 - DIFFERENZA TRA "PROVA", "ELEMENTO DI PROVA" e "MEZZO DI PROVA" SECONDO LE SEZIONI UNITE.

Ulteriore apprezzamento va tributato alle Sezioni Unite nell'aver affrontato e risolto l'apparente contraddizione in cui è incorso il legislatore nell'espressione contenuta nell'art. 630 lett. c) c.p.p. "se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove", che sembrerebbe necessitare una "prova" già perfetta, ovvero già dimostrativa di un contrasto con il giudicato, in sede di richiesta di revisione.

La sentenza delle Sezioni Unite affronta e risolve l'apparente discrasia letterale tra la citata norma e quella successiva, contenuta nell'art. 631 c.p.p., che fa riferimento a "gli elementi" di prova che, se accertati, devono essere dimostrativi del proscioglimento del condannato. Va rilevato che la soluzione adottata dalle S.U.P. risulta conforme alla lettera dell'art. 554 n. 3 v. c.p.p. (che disciplinava l'analogo caso di revisione e che utilizzava la dizione letterale di "nuovi elementi di prova", pur prevedendo l'evidenza della prova medesima e la necessità di addivenire ad una formula di proscioglimento piena).

E' assai pregevole, peraltro, l'excursus storico delle precedenti decisioni e l'approfondimento tecnico-linguistico
che ha portato alla affermazione del principio di coincidenza, nel caso concreto, delle due espressioni utilizzate dal
Legislatore, sviscerato nel capitolo 11 "Prove ed elementi di prova".

11.1. Su un'ulteriore problematica deve ora questa Corte soffermare il suo esame. Occorre, cioè, verificare se quale condizione per l'ammissibilità della richiesta di revisione, nell'ipotesi prevista dall'art. 630, lett. c, la legge prescriva l'allegazione di prove nuove ovvero se il carattere della novità possa accedere pure ad elementi di prova.

Va ricordato come - secondo i più recenti approdi dogmatici - il concetto di prova venga utilizzato sul piano teoretico, ma con decisive ricadute in ambito applicativo, con riguardo ad oggetti tra loro differenti; di qui l'esigenza di un'indagine che consenta di individuare ciascuno dei "referenti semantici" convergenti verso una predominante valenza prescrittiva; così da designarli attraverso una ridefinizione in grado di evitare equivoci non soltanto terminologici. Decisivo diviene, allora, il richiamo al concetto di sequenza probatoria, concepita come l'insieme delle componenti, analizzate nella prospettiva della "staticità" che, nella loro successione, intervengono a costituire il fenomeno probatorio.

L'elemento di prova si presenta allora come quel dato che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato dal giudice
come fondamento per la successiva attività inferenziale; il soggetto o l'oggetto da cui può derivare al procedimento
almeno un elemento di prova è la fonte di prova che, a sua volta, può essere tanto personale (come nel caso del
testimone) quanto reale (come nell'ipotesi del documento).

L'attività attraverso la quale viene introdotto nel procedimento almeno un elemento di prova è il mezzo di prova.

Sulla base dell'elemento di prova in tal modo conseguito (o di più elementi di prova), si svolgerà il procedimento intellettivo del giudice, il cui esito sarà rappresentato da una proposizione costituente il vero e proprio risultato della prova; un concetto da distinguere dalla conclusione probatoria, raggiunta solo al termine della valutazione della prova. Sarà allora che, nella fase corrispondente al momento decisorio, potrà effettuarsi il controllo di veridicità dell'iniziale affermazione probatoria confrontando tra loro gli elementi di fatto di cui sono portatori i singoli dati potenzialmente dimostrativi.

L'oggetto di prova potrà considerarsi dimostrato quando si sarà verificata la coincidenza tra l'affermazione probatoria (vale a dire, l'enunciato circa un fatto) ed il risultato della prova, dovendo qui ripetersi che in tal caso potrà concludersi che, in sè e per sè (salva la valutazione dei fatti secondari), la prova è "riuscita", nel senso che ha dato esito positivo, ovvero è "fallita", nel senso che ha dato esito negativo.

11.2. Poste tali premesse, già di per sè significative del perchè nel lessico legislativo l'elemento di prova venga a coincidere ora con lo stesso concetto di prova ora con l'elemento potenzialmente dimostrativo non ancora valutato dal giudice ovvero formatosi al di fuori del processo, resta fermo che, anche alla stregua di - almeno allo stato - collaudate istanze epistemologiche, il concetto di prova attiene al fatto da dimostrare, non attraverso la prova - chè, altrimenti, la proposizione si risolverebbe in un mero paralogismo - ma attraverso la sua fonte, che vale a costituire essa stessa, nella sua proiezione oggettiva, un elemento di prova. Non a caso, del resto, la più convincente dottrina, nel premettere che ogni prova comprende due fatti distinti, enucleabili nel fatto principale (quello, cioè, di cui occorre dimostrare l'esistenza) e nel fatto probatorio (quello che è finalizzato a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza del fatto principale), ha rilevato che il vocabolo prova, nella sua significazione polisemantica, sta ad indicare sia la prova nella sua capacità designativa più specifica sia gli elementi di prova, sia le fonti di prova, salvo espliciti equipollenti quali l'indizio, secondo attribuzioni ora canonizzate nel precetto dell'art. 192.

11.3. Appare opportuno rammentare che l'art. 554, n. 3, del codice abrogato, contemplava fra i casi di revisione la sopravvenienza o la scoperta, dopo la condanna di "nuovi elementi di prova che, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il condannato deve essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'articolo 479". Un precetto conseguente alla riforma dovuta all'art. 1 della legge 14 maggio 1965, n. 481, richiedendo il testo previgente a tale riforma anche la presenza di "nuovi fatti", espressione (cruciale, ma) ritenuta del tutto pleonastica dalla dottrina, dovendo i nuovi fatti essere giudizialmente accertati, dunque, proprio utilizzando elementi di prova. E' certo, comunque, che nella materia della revisione è un determinato fatto che occorre dimostrare attraverso elementi di prova, derivanti da fonti prova, così da consentire di verificare la capacità di resistenza degli accertamenti compiuti con la sentenza irrevocabile.

Nell'analisi comparativa tra la disposizione del codice vigente e la disposizione del codice abrogato diviene altamente significativo considerare che la diversa possibilità di incidenza della prova nuova rispetto al giudicato proietta decisive conseguenze pure sul concetto di prova quale risultante dal precetto del codice 1988. Tanto più che è la stessa (quasi immancabile) complementarità tra prova nuova e prova già valutata ad imporre, soprattutto verificando i modelli proscioglitivi introdotti dal nuovo codice di rito anche in tema di revisione (insufficienza o contraddittorietà della prova dell'esistenza di una condizione di procedibilità, mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato, che il reato è stato commesso da persona non imputabile; dubbio sull'esistenza di una causa di giustificazione o su una causa personale di non punibilità; dubbio sulla esistenza di una causa di estinzione del reato) la soluzione ora rammentata, peraltro sostenuta dalla pressochè unanime dottrina. Una estensione, quella delle formule proscioglitive adottabili, non solo quali regole di giudizio in esito alla c.d. fase rescissoria, ma anche ai fini della prognosi in ordine all'ammissibilità della richiesta, che rappresenta uno degli snodi cruciali oltre che più innovativi della impugnazione straordinaria delineata dal codice del 1988; così, per un verso, da "affievolire" - in presenza delle condizioni stabilite dalla legge per l'instaurazione del giudizio di revisione - la forza di resistenza della sentenza irrevocabile di condanna e, per un altro verso, da operare una sostanziale equiparazione tra le formule proscioglitive, la cui profonda differenziazione quoad effectum riscontrabile nella previgente disciplina aveva provocato numerosi interventi della Corte costituzionale il più significativo dei quali tradottosi nella dichiarazione di illegittimità del combinato disposto degli artt. 203, 553 e 554 c.p.p. 1930, nella parte in cui non consente che la sentenza emessa in sede di revisione in favore di un condannato possa spiegare l'effetto estensivo nei confronti di chi, imputato di concorso nello stesso reato, ne sia stato assolto per insufficienza di prove (sentenza n. 236 del 1976); una dichiarazione di illegittimità palesemente incompatibile con il vigente sistema nel quale la formula di proscioglimento per prova insufficiente non rappresenta altro che la risultante di una regola di giudizio diretta a collegare, secondo i modelli assiologici delineati dalle norme del libro III del codice, dedicato alle prove, la valutazione degli elementi dimostrativi alla decisione all'esito del giudizio.

11.4. Nonostante apparenti decisive divaricazioni derivanti dal lessico utilizzato dalle sentenze, ulteriori conferme ad una simile linea interpretativa pervengono dalla giurisprudenza.

Talune decisioni hanno rigorosamente discriminato, ai fini del giudizio di ammissibilità, il concetto di prova nuova da quello di elemento di prova, assegnando solo alla prima la capacità di introdurre il procedimento destinato a vincere la forza di resistenza del giudicato.

Scendendo all'analisi delle singole statuizioni e soprattutto alle tipologie di elementi dimostrativi presi in esame, si è affermato che le "prove nuove" idonee a sostenere una richiesta di revisione, non possono consistere nelle dichiarazioni liberatorie di un coimputato, atteso che tali dichiarazioni soggiacciono alle limitazioni valutative dettate dall'art. 192, commi 3 e 4, che attribuisce ad esse la natura di semplici elementi di prova non suscettibili di valutazione autonoma, potendo le stesse essere prese in considerazione solo unitamente ad altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità, senza che, a tal fine, occorra, oltre tutto, distinguere tra dichiarazioni liberatorie e dichiarazioni accusatorie (Sez. I, 4 ottobre 2000, Pietrostefani; Sez. I, 2 maggio 1996, D'Agostino); non mancandosi talora di prospettare - anche nell'area del giudizio di ammissibilità della richiesta di revisione e sempre con riferimento alla disposizione dell'art. 192, commi 3 e 4 - l'esistenza nel sistema positivo di una sorta di predeterminazione gerarchica tra prova ed elemento di prova (Sez. I, 8 aprile 1994, D'Agostino).

Sotto un diverso profilo, ed in una corrispondente diversa proiezione semantica, si è aggiunto che la perizia, acquisita in un processo ancora in corso, non va considerata "prova", ma va definita soltanto "mezzo di prova", soggetta a valutazione per divenire tale; si è aggiunto così che essa non può, allo stato, essere utilizzata, in conformità al dettato della lettera c dell'art. 630, quale "prova nuova" idonea all'instaurazione del giudizio di revisione (Sez. I, 28 marzo 1995, Merluso). In una delle non frequenti decisioni aventi ad oggetto sentenze pronunciate in esito a dibattimento, si è ritenuto che, ai sensi dell'art. 630, lettera c, gli elementi in base ai quali può addivenirsi a un giudizio di revisione della sentenza di condanna divenuta irrevocabile devono rientrare nella categoria delle prove, e non soltanto in quella degli elementi probatori; precisandosi - con una forzatura ermeneutica davvero poco comprensibile - che tale distinzione si desume dalla diversa dizione dell'articolo citato, che parla di nuove prove, rispetto a quella dell'art. 631, che indica i meno pregnanti elementi probatori utili a dimostrare, se positivamente accertati, che il condannato deve essere prosciolto, ai meri fini della ammissibilità della richiesta di revisione (Sez. I, 6 aprile 1994, Lauricella).

Altra parte della giurisprudenza si è però orientata nel senso che la genericità delle previsioni normative di cui all'art. 630, lettera c, induce ad escludere dal vaglio di ammissibilità della richiesta di revisione e salva naturalmente l'applicazione, in sede rescissoria, delle norme del giudizio di primo grado, limitazioni correlate alle modalità di acquisizione degli elementi probatori, e a ritenere, quindi, utilizzabili, ai fini della presentazione della richiesta, anche elementi desumibili da indagini difensive espletate a norma dell'art. 38 norme att. (Sez. VI, 13 febbraio 1998, Pittella). Si è pure statuito che, ai fini della delibazione di ammissibilità del giudizio di revisione, le prove dedotte devono essere sopravvenute e, quindi, necessariamente estranee al precedente giudizio di cognizione, ed acquisibili nell'eventuale giudizio di revisione. La valutazione di ammissibilità è, quindi, riferibile anche ad elementi di prova, rilevandone solo l'esistenza e la persuasività e non il procedimento e le forme della loro avvenuta acquisizione (Sez. V, 22 aprile 1997, Cavazza).

Un quadro giurisprudenziale, dunque, solo apparentemente complesso ed articolato. E ciò perchè, nonostante la divergenza del lessico emergente dalle singole statuizioni, talora, peraltro, alquanto suggestivo proprio avendo di mira il disposto dell'art. 192, commi 3 e 4 - che utilizza, appunto, nel definire i riscontri delle c.d. chiamate in correità, l'espressione "elementi di prova", in un assetto teleologico chiaramente predisposto in funzione esclusiva della valutazione della prova - non è tanto la natura così designata di essi a giustificare l'inammissibilità della domanda di revisione, quanto la loro inefficienza dimostrativa - nell'assetto complessivo del tema di prova - rispetto all'esito proscioglitivo voluto dall'art. 630, lettera c.

Va aggiunto, anzi, che secondo la pressochè costante giurisprudenza di questa Corte Suprema - poichè la chiamata in correità non può essere considerata come un elemento estraneo da verificare e, quindi, come un dato estraneo alla prova, da ritenere, certo, non costituita esclusivamente dai riscontri, nè questi possono essere intesi come prove autonome e dirette dai fatti oggetto dell'imputazione (cfr., ex plurimis, Sez. II, 7 dicembre 1993, Alessandrino) - gli "altri elementi di prova" che, ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p., confermano l'attendibilità della dichiarazione, non debbono provare il fatto-reato e la responsabilità dell'imputato, perchè, in tal caso, una simile disposizione risulterebbe del tutto pleonastica; la funzione processuale dei medesimi è, allora, quella di confermare l'attendibilità delle dichiarazioni in questione, così da porsi in posizione subordinata ed accessoria rispetto alla prova chiamata; altrimenti, in presenza di elementi dimostrativi della responsabilità dell'imputato, non "entra in gioco" la regola dell'art. 192, comma 3, bensì la regola generale in tema di pluralità di prove e di libera valutazione di esse da parte del giudice (Sez. II, 28 febbraio 1994, Badioli). Dal che parrebbe conseguire che, nel sistema del codice, le chiamate di correo convergenti, una volta che ciascuna di esse abbia superato il vaglio di attendibilità intrinseca, divengono concorrenti elementi di prova di valenza dimostrativa più accentuata rispetto alla chiamata in correità corroborata da "altri elementi di prova" di natura oggettiva che esplichino esclusivamente una funzione di conferma.

Sembra, dunque, che le antinomie riscontrabili nei sopra descritti tracciati giurisprudenziali divengano meramente apparenti, derivando esse esclusivamente dalla divergenza dei flussi interpretativi ricollegabili ai modelli di valutazione di dichiarazioni su fatti sfavorevoli (ma, quel che qui maggiormente interessa, favorevoli) in ordine alla responsabilità di terzi.

Il tutto, peraltro, in un quadro nell'ambito del quale, a parte le pronunce sopra ricordate, l'uso promiscuo delle espressioni prova ed elemento di prova segnala una significativa prevalenza riscontrabile dalla motivazione della quasi totalità delle pronunce, ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revisione, dell'utilizzazione dell'espressione prova nuova nel senso (forse dommaticamente non ineccepibile, ma inevitabile sul piano applicativo, solo riflettendo sulle risultanze potenzialmente dimostrative derivanti da indagini difensive) di elemento di prova.

D'altro canto, la soppressione delle acquisizioni "ufficiose", da parte del giudice dell'esecuzione, degli elementi di prova, contemplate dall'art. 557, 3° comma, c.p.p. 1930 (che, nel testo vigente prima della sua sostituzione in forza dell'art. 1 della legge 14 maggio 1965, n. 481, attribuiva al detto giudice la potestà di valutare la fondatezza dell'istanza di ammissione di prove nuove), in un contesto normativo certamente meno informato al principio del favor revisionis e la imprescindibile necessità di utilizzare, soprattutto in caso di prove noviter productae, appunto, le indagini difensive, rendono certa l'interpretazione del significato dell'espressione "prove" adottata dall'art. 630, lettera c, nel senso di elementi di prova, in quanto riferibili a un determinato o a determinati temi di prova.

Senza contare - e la problematica può così dirsi definitivamente risolta - che le censure in proposito avanzate soprattutto dall'avv. Cristiani, finiscono esse stesse per dissolvere la valenza della distinzione, solo considerando che, anzichè fondate su una rappresentazione in chiave assiologica della dicotomia prova-elemento di prova e, quindi su un sistema esclusivamente valutativo basato su presupposti canonizzati da specifici giudizi di valore da ricollegare alla astratta tipologia del dato dimostrativo, le censure stesse risultano incentrate sulla concreta capacità di vincere l'accertamento definitivo derivante da una sentenza passata in cosa giudicata. In tal modo sconfinando - sempre in un contesto circoscritto all'ammissibilità della richiesta di revisione - verso l'ulteriore presupposto (ampiamente ridimensionato anche alla luce delle formule proscioglitive di approdo, quali delineate dall'art. 631) costituito dalla potenzialità della domanda a dimostrare che il condannato debba essere prosciolto con una delle formule indicate dalla norma adesso rammentata.

Un principio che era già stato acutamente enunciato da questa Corte nel sistema del codice abrogato e, dunque, nel pieno vigore della regola di "evidenza" (intesa come palese idoneità degli elementi di prova dedotti a fondamento della richiesta a dimostrare che il condannato "deve essere assolto ai sensi della prima parte o del terzo capoverso dell'art. 479") allorchè, proprio a proposito della tematica da ultimo ricordata - ma con precisi riverberi su quella connaturata alla già rammentata dicotomia - ritenne di distinguere il "mezzo" dall'"elemento" di prova, qualificandosi il primo come lo strumento di cui ci si serve per ottenere la dimostrazione del fatto; il secondo, invece, come parte di un tutto (la prova) su cui è destinata a fondarsi la conoscenza del fatto oggetto di dimostrazione. E poichè il mezzo di prova è solo strumentale a realizzare l'acquisizione dell'elemento di prova, l'oggetto della valutazione del giudice non può che essere l'elemento di prova (Sez. I, 30 gennaio 1989, Carlotto). Così ribadendo stratificazioni giurisprudenziali a fortiori riferibili al vigente sistema, nel quale, scomparso il criterio dell'evidenza, il momento contenutistico assume rilievo assolutamente decisivo, ai fini dell'ammissibilità del giudizio di revisione, a prescindere dalle tipologie conformative della conoscenza del fatto.

Nel caso di specie, poi, proprio la scomparsa del requisito dell'evidenza richiesto dal codice abrogato dispone le censure in proposito sollevate verso una tematica che non attiene tanto alla dicotomia più volte ricordata quanto agli attributi di qualificazione ai fini della ammissibilità della prova, cioè, alla sua novità e, una volta superata una simile verifica, alla potenzialità della prova stessa a realizzare, da sola o insieme alle prove già valutate nel precedente giudizio, i risultati proscioglitivi di cui all'art. 631.

D'altro canto - un rilievo certo non decisivo, ma comunque di alto valore significante - l'argomentazione secondo cui gli "elementi in base ai quali si chiede la revisione", richiamati dall'art. 631, non sono gli elementi di prova, sconta l'obiezione che talune delle regole di giudizio in tema di revisione sono dettate esclusivamente per l'ipotesi prevista dall'art. 630, lettera c. Infatti, mentre i casi contemplati dalle lettere a, b e d dell'art. 630 si riferiscono tutti ad ipotesi in cui prevale, pur nell'ambito del favor innocentiae, il principio di non contraddizione fra i giudicati, l'ipotesi della prova nuova tende esclusivamente a riparare all'errore giudiziario.

6 - LE "PROVE NUOVE" AI FINI DEL TEMA DI PROVA DELL'ALIBI.

Direttamente connessa con la soluzione interpretativa di "prova", intesa quale coincidenza sostanziale, in senso prospettico, con la espressione di "elemento di prova" è il capitolo 16 della sentenza ("le prove nuove ai fini del tema di prova dell'alibi"), nel quale le Sezioni Unite hanno spiegato le ragioni per cui sono stati rigettati i ricorsi del Procuratore Generale e delle parti civili, che hanno riproposto alla Suprema Corte di Cassazione le medesime tesi giuridiche avanzate avanti la Corte d'Appello di Perugia, sub specie di dedotta inammissibilità della richiesta di revisione, per la supposta irritualità della riproposizione della prova d'alibi, già affrontata e disattesa nel giudizio di cognizione.

16. Poste tali premesse, va rilevato che il tema di prova sul quale si sono essenzialmente sviluppate le argomentazioni della sentenza impugnata concerne l'attendibilità dell'alibi del Pisano cui si ricollegano una variegata serie di sequenze probatorie volte a dimostrare, come novum, nella complementare valutazione con le altre prove già valutate, che il Pisano non possa essere stato l'autore del delitto o comunque - una verifica che il giudice dell'ammissibilità è tenuto a compiere di ufficio - che le prove a carico del condannato, in presenza del nuovo assetto dimostrativo prodotto o scoperto, attestano una situazione di insufficienza o di contraddittorietà delle prove che ha determinato la pronuncia della sentenza di
condanna.

In proposito occorre avvertire come il fatto che tale tema sia stato preso in esame dalle sentenze sia di primo grado sia di secondo grado non appare impeditivo della qualificazione delle prove indicate nella richiesta di revisione come prove nuove, concernendo il requisito della novità non il tema di prova (nel caso di specie, la prova d'alibi) ma gli elementi dimostrativi addotti come noviter reperti (si allude a talune prove testimoniali mai acquisite perchè non conosciute dalla difesa del Pisano) ovvero noviter producti, assumendosi l'omessa valutazione da parte dei giudici di merito degli elementi dimostrativi che, nonostante fossero stati sottoposti alla loro valutazione, non furono assolutamente valutati. Sotto tale profilo, non può essere seriamente contestato - sempre nei limitati confini di una delibazione attenta esclusivamente all'ammissibilità della domanda - come le deposizioni degli impiegati del catasto Russo, Giacomoni, Mangosi e del teste la cui identità è stata scoperta dopo il giudizio di merito, Brunettini, assumano il rilievo di vere e proprie prove nuove, di alto valore dimostrativo perchè volte ad asseverare - sia pure per via indiretta - la presenza del Pisano negli uffici del nuovo catasto urbano di Roma; un dato, come si vedrà più avanti, incompatibile, se confermato, con la contemporanea presenza del condannato a Riano.

Sul punto la Corte territoriale ha avuto cura di rimarcare come occorresse distinguere, sempre ai fini della ammissibilità della prova, in quanto qualificabile come nuova - così puntualmente dimostrando l'inconsistenza delle doglianze avanzate dalle parti civili - che l'assetto probatorio avente ad oggetto la pratica "Monari" costituiva un segmento del complessivo tema della prova d'alibi assolutamente non valutato nei giudizi di cognizione, precisando - un dato che parrebbe pacifico anche alla stregua di tutti gli atti di impugnazione - che questa pratica si differenziava dalla pratica Trappetti per le modalità di presentazione, dato che i numeri di protocollo, oltre tutto caratterizzati da sequenze differenti, venivano annotati in registri diversi; nel giudizio di cognizione era, invece, stato inserito nel fascicolo del pubblico ministero esclusivamente il registro di protocollo delle nuove iscrizioni, quello, cioè cui si riferiva la pratica Trappetti, e non anche il registro di protocollo delle variazioni catastali, vale a dire, quello cui si riferiva la pratica Monari. Alla diversità delle predette procedure si ricollega, dunque, la qualificazione di prova nuova designata dalla forza dimostrativa indicata dall'art. 630, lettera c, della testimonianza della Rosso, nome e firma della quale risultavano su entrambe le pratiche e sulle ricevute provvisorie, esaminata dal Pubblico ministero ex art. 430, e mai escussa in dibattimento con riferimento alla pratica Monari. Ed è indubbio - sempre nell'ambito della distinzione tipologica delle pratiche - che costituiscano prove nuove l'acquisizione della valigetta 24 ore del Pisano, recante entrambe le pratiche, al fine di confrontarle con quelle acquisite dalla difesa del Pisano presso l'Ufficio del Territorio (ex catasto di Roma), della pratica "Primavera", registrata con il numero precedente a quello del protocollo della pratica "Monari", presentata dal geometra Antonio Brunettini per conto del geometra Gianfranco Sili, secondo quanto dichiarato per iscritto dal Brunettini al difensore del Pisano.

Per concludere su questo punto, risulta evidente che la presenza del Pisano al catasto, con riferimento alla presentazione della pratica di "frazionamento" Monari, mai presa in considerazione nel giudizio di cognizione, se non nei limiti di un'affrettata e del tutto aspecifica delibazione sulla "caducità dell'alibi" (una presenza avvalorata dalla indicazione di testimonianze volte a comprovare, per la descrizione della situazione esistente negli uffici del catasto - personale cui si rivolse, pubblico presente, accadimenti ai quali assistette la mattina del delitto - e per l'indiretta conferma che, a causa dell'assenza della De Giovanni, il Pisano fu costretto a redigere seduta stante la ricevuta provvisoria della pratica di frazionamento Monari) non possa essere considerato diversamente da un fatto sorretto da prove nuove ai fini del giudizio preliminare di ammissibilità.

Del resto, la teste Emilia Maria Rosso non venne mai esaminata nel giudizio di cognizione nè sul presentatore della pratica Monari nè sulle modalità di compilazione e rilascio dei modelli di ricevuta. Anche la deposizione di Antonio Brunettini costituisce, in base ai principi di diritto sopra enunciati, prova nuova in grado di instaurare il giudizio di revisione. Ed in tale prospettiva, non devono certo considerarsi prove acquisite in violazione del precetto dell'art. 634 c.p.p., l'assunzione di Mario Pisano (circa la sua presenza in luogo diverso dal catasto, nel giorno ed ora in questione, proprio per le ragioni acriticamente esposte dalle sentenze di merito, che rivelano una vera e propria omessa valutazione), del consulente grafico Francesco Greco (mai esaminato nel giudizio di cognizione), correttamente ritenuto elemento di prova tale da corroborare la domanda di revisione) e di Lucia Mangosi.

Non può, ancora, sempre ai fini della ammissibilità della richiesta, negarsi la qualificazione in termini di novità, ai sensi dell'art. 630, lettera c, alla documentazione prodotta dal Pisano proveniente dagli uffici del catasto: vale a dire, la ricevuta provvisoria della pratica "Monari", il registro di protocollo delle variazioni catastali, la pratica "Primavera" recante il numero di protocollo precedente a quella della pratica "Monari", presentata dal Brunettini.

Un requisito che - sempre ai fini del giudizio sulla novità e conferenza della prova - va riconosciuto alla consulenza grafica Greco, che risulta imperniata, anche qui sulla base di precise verifiche, sulla presenza del Pisano negli uffici del catasto.

Pure le deposizioni del Bocci, in ordine alla, peraltro, alquanto enfatizzata, data di acquisto dell'anello, del geometra Giammattei - al contrario, di rilevantissima forza dimostrativa - sui tempi di percorrenza del tratto della S.S. "Flaminia" interessato (teste mai sentito in dibattimento), va assegnato secondo il corretto argomentare della Corte territoriale, il carattere della novità, e, dunque, la conseguente valenza ai fini dell'ammissibilità della richiesta.

7 - L'ESCLUSIONE DELLA PREMEDITAZIONE NEL GIUDIZIO DI REVISIONE AL VAGLIO DELLE SEZIONI UNITE.

Altrettanto interessante appare la questione risolta dalle Sezioni Unite sulla base della denunzia di inammissibilità sollevata dal Procuratore Generale perugino, che ha dedotto non competesse ai Giudici della revisione escludere l'aggravante della premeditazione, con la doglianza qui riportata: "Già il punto donde trae le mosse l'impugnata sentenza è viziato in diritto, esso venendo indicato in un elemento che, per sua natura, non può formare oggetto di revisione alla stregua della disciplina positiva dell'istituto, la riconsiderazione cioè della ricorrenza di circostanze. Eppure, tornando utile alla tesi prescelta in via pre-giudiziale, quella cioè della innocenza del richiedente, la sentenza che s'impugna ritiene di escludere il coinvolgimento di questi nell'odiosa azione criminale, proprio sulla base dell'esclusione della premeditazione, ritenuta dai primi giudici e da loro adeguatamente motivata ".

La censura è disattesa, convincentemente, nel capitolo 20 della sentenza.

20. Il Procuratore generale ricorrente ha dedotto come ulteriore motivo di inammissibilità della richiesta di revisione il fatto che le ragioni della domanda erano dirette, in primo luogo, a dimostrare l'insussistenza della circostanza aggravante della premeditazione; una ragione non consentita, essendo la revisione funzionale solo al proscioglimento del condannato.

Ma appare evidente come una simile ragione della richiesta risulti preordinata esclusivamente alla dimostrazione che le prove nuove unite a quelle già valutate comprovano l'innocenza del Pisano, il dato riguardante la premeditazione, costituendo, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici della cognizione, un momento dell'accertamento in ordine all'addebitalità dei fatti stessi al condannato.

Non sembra dunque, che una tale verifica - che pare, peraltro, incidere più sulla sentenza di merito che sul giudizio di ammissibilità - resti preclusa al giudice della revisione, inserendosi come momento decisivo dell'intero assetto motivazionale, fondato sulle prove già valutate, la cui valenza è stata in gran parte confutata, e sulle prove noviter repertae e noviter productae.

In conclusione la sentenza delle Sezioni Unite appare affrontare e risolvere pressochè la totalità dei problemi interpretativi relativi all'ammissibilità della richiesta rirevisione, alla novità della prova, ampliando la stessa possibilità di difendersi impugnando, anche nella fase revocatoria, nel solco di pronunce costituzionali, anche lontane nel tempo, rimaste troppo a lungo mere enunciazioni di principio, e che hanno trovato piena esplicazione solo attraverso la pronunzia detta.

Non è dato sapere quanto abbia inciso in una pronunzia garantista tanto netta e positiva, l'accertamento di un errore giudiziario tanto clamoroso nei suoi effetti concreti e pur tuttavia così veementemente contrastato dai ricorrenti.

Barbara Auleta
(Avvocato in Roma)